Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 111
giugno 1983


Rivista Anarchica Online

Il fascino discreto del successo
di Tiziana Ferrero

Cenerentola torna a casa? o rompe l'incantesimo e rimane al gran Ballo? La risposta non è così semplice come nelle favole. Centinaia e centinaia di migliaia di Cenerentole per migliaia di anni sono rimaste a casa, partecipando all'economia domestica coltivando gli orti, badando agli animali, snocciolando, pelando, sbollendo, affumicando e inscatolando tonnellate su tonnellate di frutta, carne, pesce, come un'enorme ingranaggio di una celata quanto sconfinata industria conserviera, sempre e comunque nell'ambito ristretto del proprio milieu. Altrettante Cenerentole in altri periodi della storia, più vicini a noi, hanno lasciato il focolare e sono entrate nelle fabbriche e nelle miniere.
Duecento anni fa la rivoluzione industriale ha chiamato dalle campagne nelle città grandi masse di lavoratori, uomini e donne. Si smise così di considerare le donne come delle parassite sociali e si aprirono loro le porte delle fabbriche. Ed esse spinte dalla fame e dalla miseria «dovettero» lasciare il focolare, entrarono in enormi capannoni sedute una accanto all'altra dietro un telaio o scesero nelle miniere a spingere carrelli pieni di carbone fin su, in superficie e tutto ciò per 14-15 ore al giorno, senza alcuna coscienza di indipendenza e di liberazione.
E oggi, quali sono le motivazioni principali che spingono la donna a lasciare il focolare? Quante sono le donne che lavorano e quali posti occupano nel mondo della produzione?
Daniela, 23 anni, vive in famiglia, ma sta per lasciarla per convivere con il suo compagno: «Il motivo principale per cui lavoro è il bisogno economico. Non è giusto che i miei genitori mi mantengano». Dello stesso avviso è pure Silvia, 28 anni, una laurea in architettura, ha fatto alcune supplenze durante l'università, ma a un lavoro precario ha preferito entrare a tempo pieno in una casa editrice come correttrice di bozze. E così tantissime altre. Oggi, dunque, pare evidente che la donna considera il lavoro come una condizione necessaria alla quale non ci si può sottrarre. Tutte comunque sono consce delle diverse possibilità che offre l'indipendenza economica che si acquisisce attraverso il lavoro e ne riconoscono il valore. L'immagine della ragazza che rimane in famiglia, senza un'occupazione, ad aspettare il principe azzurro, per intraprendere la «carriera matrimoniale», è sempre più rifiutata, sfocata, assolutamente superata. Per di più, nonostante la difficoltà di trovare casa, molte ragazze vivono o vorrebbero vivere da sole; anche solo quindicivent'anni fa ciò era impensabile, sia per i diversi atteggiamenti culturali in seno alla famiglia, sia per l'ostacolo principale: «Chi ti mantiene?». Secondo un'indagine Istat sulle forze-lavoro, nel 1965 tra le persone in cerca di occupazione, il 15% in cerca della prima occupazione era rappresentato da maschi contro il 13% di donne; secondo dati raccolti nel 1981 queste percentuali passano al 24% per gli uomini e al 27% per le donne.
Nel determinare l'aumento dell'offerta di lavoro femminile (soprattutto di giovani donne tra i 20 e i 24 anni) concorrerebbero altre fondamentali motivazioni. Con un livello di istruzione via via più elevato, ad esempio, si registrerebbe una decisa tendenza all'inserimento della donna nel sistema produttivo, sia per la ricerca di un compenso all'investimento in capitale umano fatto, sia per il mutato atteggiamento da parte della donna nei confronti del ruolo di casalinga. Secondo alcune stime del Segretariato Ocse, in Italia, il tasso di partecipazione femminile al lavoro è passato dal 40,9% nel 1960, al 43,2% nel 1970, al 49,2% nel 1980, e in previsione, sarà il 51,4% nel 1990.
Questo lento, ma continuo processo evolutivo dell'inserimento della donna nella produzione possiamo definirlo come «grado di femminilizzazione» del lavoro, grazie soprattutto all'impiego delle donne nel settore terziario. La popolazione femminile impiegata nel credito, nelle assicurazioni e nell'amministrazione pubblica era, nel 1977, 1.919.000 e nel 1979, 2.108.000 con una variazione di ben 189.000 unità in più. Questi dati sono riscontrati in tutti i paesi aderenti all'Ocse (tutta l'Europa, il Giappone, gli Stati Uniti, l'Australia e la Nuova Zelanda) naturalmente con percentuali differenti, che sono più alte negli Stati Uniti e nei paesi con il maggior grado di industrializzazione.
La dimensione del mutamento in corso del ruolo della donna nella società è data anche dai cambiamenti delle norme e delle leggi che sanciscono situazioni e dati di fatto già esistenti, ratificano cioè un'evoluzione culturale che la donna ha già compiuto e imposto alla società. La legge n° 903 emanata nel 1977 («Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro» e alla quale si deve il più brusco e drastico sovvertimento che il panorama della legislazione italiana sul lavoro delle donne abbia mai conosciuto) si muove su tre direttive:
a) statuizione formale della pari dignità delle lavoratrici e della parità di trattamento (economico e normativo) tra lavoratrici e lavoratori;
b) promozione della parità delle donne nel lavoro, attraverso il ridimensionamento del loro ruolo famigliare;
c) promozione/incentivazione dell'occupazione femminile, attraverso la riduzione del costo del lavoro delle donne (fiscalizzazione degli oneri sociali).
Quanta strada ha perscorso la donna in qurant'anni, se pensiamo che l'art. 37 della costituzione individua la specificità femminile nella sua «essenziale» funzione familiare. L'aggettivo essenziale esprime tutte le idee correnti al momento della stesura della costituzione (da parte di uomini ed anche di donne). Male si adatta il desiderio di emancipazione della donna che non passa certo attraverso il suo ruolo familiare.
Emma ha 39 anni, è una casalinga, ha una figlia di 15. Ha passato tutta la sua vita in casa, a parte una breve parentesi di lavoro prima di sposarsi e appena dopo il matrimonio: «Mio marito mi disse che se avessi voluto avrei potuto andare a lavorare, a patto che gli facessi trovare la sera tutto pronto (e non una bistecca e via!). Quando è nata la bambina non mi diede nemmeno più questa parvenza di accondiscendenza: dovevo allevare nostra figlia. Ora, quando tutte le mattine mi affaccio al balcone a battere i tappeti e vedo il caseggiato pieno di altre donne che compiono meccanicamente gli stessi gesti alle stesse ore, mi rendo conto di quanto sia abbruttente e avvilente la condizione di casalinga!».
Altrettanto avvilente è la condizione della donna che compie un doppio lavoro, quello extradomestico e in più deve badare ancora che il fuoco non si spenga, quel maledettissimo focolare che tanto faticosamente aveva lasciato nel suo desiderio di libertà. Un'indagine svolta purtroppo solo in due regioni italiane, il Trentino e la Lombardia, rivela comunque dati terrificanti: le casalinghe hanno una giornata lavorativa media di 8,4 ore, le impiegate di quasi 12 ore (5,6 ore dedicate al lavoro domestico e 6,3 ore dedicate al lavoro extra-domestico). E tutto ciò nonostante la presenza nelle case degli elettrodomestici che secondo gli esperti, i sociologhi, dovevano alleviare la donna da certe fatiche - l'aspirapolvere o la lucidatrice compiono gran parte dei lavori più faticosi, ma richiedono comunque la presenza costante di una persona; dopo l'uscita dalla fabbrica o dall'ufficio, dopo il «ritiro» del/dei figlio/figli dal doposcuola, ecco che le nostre impavide programmano la lavastoviglie (nel migliore dei casi perchè solo il 16,5% delle famiglie italiane la utilizza) e la lavatrice, cucinano per la cena e cercano in qualche modo di dare retta al figlio/figli. Una situazione pesante, che non la riscatta certo dal suo ruolo di subalterna.
Comunque sia, Cenerentola fugge, vuole fuggire dal focolare, vuole sentirsi indipendente, essere viva. Ma cosa ricerca e come vive il suo ruolo nell'ambiente di lavoro? Sia Daniela che Silvia non sono contente del lavoro che fanno. Daniela vorrebbe vivere in campagna e allevare animali, Silvia vorrebbe lavorare in un ente pubblico, magari la Regione, con mansioni di architetto. Entrambe non sentono alcun desiderio di maggior responsabilità nel lavoro che fanno attualmente, ma si dichiarano pronte ad assumersele nell'ambito di un lavoro che le soddisfi di più. Adriana, 36 anni, sposata con un figlio, una laurea in lettere, responsabile dell'ufficio tecnico di una rivista: «Considero questo lavoro migliore di tanti altri, anche se io avrei voluto insegnare. Ora non è più possibile cambiare, dovrei fare concorsi, supplenze, insomma ricominciare tutto daccapo. Anche qui, comunque, cerco di fare del mio meglio, cerco di rendermi il lavoro il più piacevole e interessante possibile». E la carriera? A Daniela non interessa, ma Silvia è sicura che in un lavoro che la interessasse maggiormente, vorrebbe avere almeno più responsabilità. Adriana afferma: «Mi interessa fare carriera, ma fino ad un certo punto, non vorrei che il lavoro arrivasse a determinare la mia vita».
Secondo un'indagine Istat le donne occupate con un diploma di scuola media superiore o con una laurea erano 109.100 nel 1977, passavano a 149.800 nel 1979, con una variazione di ben 120.700 unità in più. Se esaminiamo le categorie professionali, si registra un minimo scarto, inoltre, tra gli occupati in qualità di impiegati e dirigenti, il 15% è costituito da maschi e il 10,3% da donne, e tra gli imprenditori e i liberi professionisti, di cui il 2% è rappresentato da maschi e lo 0,3% da donne.
Dunque la donna non solo rivendica il suo diritto al lavoro, ma vuole viverlo attivamente, con responsabilità e cariche di prestigio. Senso di rivincita? Sicuramente si. La donna è uscita perdente dal movimento femminista perchè non è riuscita ad essere uguale ma diversa dall'uomo, non ha trovato una «terza via» alla sua liberazione, e si adegua perciò a modelli culturali già esistenti facendo propri quei simboli del potere che da sempre sono maschili. Vive e combatte con le stesse armi, senza chiedersi se queste siano valide oppure no. Le più ambiziose identificano la propria realizzazione nella carriera e nel successo nel lavoro, ponendovisi ancora una volta con metodi e modi di essere che non sono loro, assorbendo profondamente la cultura del potere. Certo persiste ancora il vecchio atteggiamento discriminatorio nei confronti delle donne che vogliono «vincere», ma il nuovo sta prendendo il sopravvento perchè il potere ha capito che in questo modo può incanalare malessere e frustrazioni che potrebbero esplodere pericolosamente mettendo in discussione profondamente gli schemi e i mecanismi sui quali si basa la società autoritaria e meritocratica. L'uomo ha capito che deve imparare a convivere con questo altro se stesso, che a volte concilia in modo spregiudicato volontà e capacità proprie a vecchi privilegi che non sono suoi, ma da sempre le sono stati attribuiti dall'immaginario maschile. E la donna ancora una volta paga un prezzo non stabilito da lei, ma imposto dall'uomo. E' possibile riequilibrare tutto quanto, non essere più manipolate, non giocare più il gioco del potere? Esiste una via diversa alla liberazione femminile che non passi attraverso la realizzazione nel lavoro? Dare una risposta a queste domande significa trovare prima di tutto una definizione del lavoro. Tutta la nostra morale è impreganta dal: «Ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte». E' una schiavitù necessaria, una condizione ineliminabile perchè oggi non prevede alcuna scelta da parte dell'individuo, ma impone un modus vivendi, anzi diventa il modus vivendi. Il lavoro oggi significa estrema divisione, parcellizzazione dei compiti, un'automazione sempre più invadente, scarsa espressione della propria creatività e delle proprie capacità, e soprattutto, l'impiego delle proprie energie, fisiche e mentali, per il profitto.
E allora? Dobbiamo ritornare a quella concezione delle società tribali secondo le quali il lavoro è piacere personale, è esplicazione delle capacità e delle potenzialità dell'individuo, dinamismo, forma fondamentale di espressione umana. Il lavoro in sé, non è eliminabile, sarebbe sciocco pensare che nella tanto auspicata società anarchica tutti siano immobili e inattivi e che le macchine lavorino al posto dell'uomo. Esse, al contrario, dovrebbero alleviare giusto quegli aspetti più faticosi e abbruttenti di ogni lavoro, lasciando all'individuo la parte creativa. E soprattutto ognuno dovrebbe poter cambiare il proprio lavoro ogni qualvolta lo desideri, dovrebbe compiere sia i lavori degradanti (le strade devono pur essere spazzate!), sia quelli più qualificanti. Tutte le funzioni domestiche dovrebbero essere ridotte a servizi sociali, con lavanderie, asili, mense, ecc.
Non ci sentiamo quindi né di sostenere l'angelico lavoro di Cenerentola accanto al camino a svolgere lavori ripetitivi e noiosi «per amore», né di considerare liberazione quella delle donne, affrancate sì dal lavoro domestico a tempo pieno, ma ugualmente sfruttate dietro una pressa o una scrivania, o meglio, donna a doppia presenza, in casa e fuori, nella fabbrica o nell'ufficio. Né tantomeno di appoggiare le donne «in carriera», aggressive quanto basta da non farsi emarginare, ma abbastanza per emarginare, comandare e imporre. Appartengono ai ceti più agiati, hanno superato il complesso del sesso debole e anche quello di Cenerentola, si realizzano attraverso e nel lavoro, la loro liberazione dalla schiavitù dei lavori domestici passa attraverso quella di altre donne più povere, disagiate e sotto-occupate che svolgono per loro questo lavoro di «second'ordine». E' un serpente che si morde la coda ed il potere ed i suoi meccanismi stanno fuori e dentro di esso. Se ci occupiamo della donna è per una scelta contingente, perchè tra gli sfruttati, è pur sempre la più sfruttata, ma con un occhio vigile ed attento a scovare i punti nascosti in cui si annida il potere, ricordandoci in ogni momento di essere prima di tutto anarchiche.