Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 110
maggio 1983


Rivista Anarchica Online

Il secolo della paura
di Agostino Manni

Ciò che colpisce maggiormente nel mondo in cui viviamo, è che, in generale, la maggior parte degli uomini (salvo i credenti di ogni specie) sia senza futuro. La vita non ha valore se non è proiettata nell'avvenire; senza promessa di crescere e progredire. Vivere contro un muro, è vita da cani. Ebbene, gli uomini della mia generazione e di quella che entra oggi nelle fabbriche e nelle facoltà, hanno vissuto sempre più come cani.
Sono parole di Albert Camus, di un articolo pubblicato nel novembre 1948 sul giornale «Combat», organo clandestino dell'omonimo movimento durante la Resistenza francese, di cui Camus fu redattore insieme a Pascal Pia dopo la liberazione di Parigi.
L'articolo si intitolava «Né vittime né carnefici», e recava un sottotitolo eloquente: «Il secolo della paura». Cominciava così: Il secolo XVII fu il secolo delle matematiche, il XVIII delle scienze fisiche e il XIX della biologia. Il nostro, il ventesimo, è il secolo della paura. Mi si obietterà che questa non è una scienza. Ma anzitutto anche la scienza c'entra in qualche modo, come è vero che i suoi ultimi progressi teorici l'hanno condotta a negare se stessa mentre le sue applicazioni pratiche minacciano la terra intera di distruzione. Inoltre, se la paura in se stessa non può essere considerata alla stregua di una scienza, non c'è dubbio che essa sia tuttavia una tecnica...
L'articolo, un po' oltre, prosegue: Naturalmente, non è la prima volta che l'umanità si trova dinanzi a un futuro materialmente chiuso. Ma di solito furono sufficienti la parola e la protesta. L'uomo faceva ricorso ad altri valori su cui sperare. Oggi, invece, nessuno parla più (tranne coloro che si ripetono). Oggi il mondo sembra governato da forze cieche, sorde alle nostre grida di allarme, ai consigli, alle suppliche. Qualcosa è andato distrutto in noi. Lo spettacolo degli anni recentemente vissuti ha segnato la fine di quell'eterna fiducia dell'uomo che ci aveva fatto credere sin qui di poter trarre da un altro uomo reazioni umane parlandogli il linguaggio umano. (...) Il lungo dialogo degli uomini si è interrotto. E, beninteso, un uomo che non si può persuadere è un uomo che fa paura. Così attorno a chi non parlava perché lo riteneva inutile, si stendeva e si stende tuttora un' immensa cospirazione del silenzio, accettata da chi ha paura e da chi si dà buone ragioni per nascondere a se stesso codesto tremore, e suscitata da quanti vi sono interessati. «Non parlate della epurazione degli artisti in Russia perché ne trarrebbe vantaggio la reazione». «Dovete tacere sull'appoggio dato dagli Anglo-Americani al regime di Franco perché il comunismo se ne avvantaggerebbe». Come dicevo, la paura è una tecnica.
Ma, a cosa serve questa tecnica? Da chi è usata quest'arma? E chi la usa, perché lo fa?
Io credo che si persegua un solo scopo: creare insicurezza, far circolare i germi di una presunta impotenza; diffondere la rinuncia.
A giudicare dalle espressioni che leggo sui volti dei miei familiari o dei miei amici, e dalle sensazioni che ascolto verificarsi dentro di me, ogni volta che io e loro riusciamo a spingere lo sguardo al di là delle nostre esistenze quotidiane (sempre da spettatori, sia ben chiaro, con il solo fine dell'informazione: l'unico che ormai ci è concesso), come quando comodamente sdraiati su una poltrona, ci lasciamo più o meno inebetire dai bombardamenti studiati di un telegiornale: a giudicare da questi momenti, dai miei tremori e dalle espressioni di chi mi sta vicino, non riesco a non dar ragione a Camus. La paura è una tecnica; il terrore è un sottile strumento abilmente adoperato da quanti vi sono interessati.
Prendiamo un esempio a noi contemporaneo: un bombardamento iracheno sui pozzi di Nowruz ha provocato la fuoriuscita di enormi quantitativi di petrolio, che si sono riversati nel Golfo Persico formando una chiazza vagante di dimensioni spaventose: 386 km di lunghezza, 48 km di larghezza, una estensione di volta in volta paragonata dai mass-media a quella della Sicilia, della Lombardia, del Belgio, ecc.
La scienza non sa cosa fare: tanto per cominciare bisognerebbe incappucciare i pozzi danneggiati per fermare la fuoriuscita del petrolio; ma questo non è possibile, finché Iran e Iraq non si decidono a sospendere almeno momentaneamente il conflitto. Ma anche qualora le ostilità tra i due paesi fossero sospese, anche se si riuscisse a riparare tempestivamente i quattro pozzi «off shore» danneggiati dall'aviazione irachena, non si sarebbe comunque risolto granché: come fermare, infatti, la «marea nera» prima che, superata la foce del golfo, si immetta nel mare aperto?
Come rimediare a questo disastro ecologico? La scienza ufficiale sembra impotente.
Assurdo! - urlano gli spettatori - Non può esser vero: la scienza dell'atomo, dell'uranio, dei computer, la scienza dei viaggi spaziali e dei missili intercontinentali, impotente? Non è possibile!».
Invece sembra proprio di sì.
Questa scienza che ha il potere di distruggere sembra non aver quello di salvare, di rimediare ai suoi «errori» (?). «E se anche la scienza è impotente - pensa l'ingenuo e timoroso spettatore - io, cosa posso fare, io?».
Ecco: le continue immagini televisive del disastro, le opinioni e le polemiche della scienza internazionale (che importanza può avere il fatto che la chiazza sia profonda un metro o 10 cm., quando basta una pellicola di pochi millimetri sul pelo dell'acqua a stravolgere lo scambio gassoso tra il mare e l'aria, provocando un disastro ecologico, la distruzione della fauna marina e delle sue condizioni di vita), gli accurati reportage, i continui ipocriti appelli (i generali iracheni non vogliono sospendere il conflitto perché temono che gli iraniani possano approfittarne per sminare le vie di navigazione del Golfo). Ecco: tutto questo può avere molti effetti, ma almeno due sono sicuri: il primo, è quello di dare allo spettatore la sensazione (per niente ingiustificata) che il suo mondo stia andando lentamente - ma neanche tanto - a farsi fottere; il secondo, invece, è di procurargli la certezza (questa, però, discutibilissima) che lui non possa farci proprio niente. Come se fossimo stati legati alla poltrona ad assistere, impotenti, al compiersi della tragedia; come se un muro enonre fosse stato eretto davanti alla nostra isterica disperazione: condannati a vivere, contro un muro, una vita da cani.
Diventa impossibile, davanti a questa tragedia, di fronte a questo muro, per i più, operare una scelta: una scelta che non può non tener conto anche, e soprattutto, di quella paura che accompagna, oggi, la nostra esistenza, di quel terrore che viene significato ormai come una caratteristica dell'essere umano e del mondo in cui vive.
Ancora Camus: Per uscire da questo terrore sarebbe necessario poter riflettere e agire di concerto. Ma il terrore, a vero dire, non è un clima favorevole alla riflessione. Credo, tuttavia, che invece di biasimare la paura, occorra considerarla come uno degli elementi essenziali della situazione e cercare di porvi rimedio. E non v'è nulla di più importante. (...) Cosicché, se la paura non è il clima della giusta riflessione, occorre anzitutto mettersi in regola con essa. Ma, per farlo, occorre rendersi conto di ciò che la paura significa e rifiuta. Essa significa e rifiuta la stessa cosa: un mondo in cui l'assassinio è legalizzato, un mondo dove la vita umana è considerata senza importanza. E' questo il primo problema politico di oggi, al cui riguardo bisogna prendere innanzitutto posizione.
Evidentemente, la società umana non ha fatto poi grandi progressi, se la necessità di dover prendere delle scelte radicali, di dover assumere posizioni che le aprano la strada ad un futuro non solo possibile, ma migliore, le s'impone oggi, aprile 1983, negli stessi termini in cui Camus la poneva ieri, novembre 1948. E il fatto che «Né vittime né carnefici» sia stato scritto subito dopo il secondo conflitto mondiale dovrebbe far riflettere: almeno, dovrebbero farlo quanti ancora ritengono che il mondo sia ormai uscito fuori dalla guerra e dalla follia, una volta per sempre, e si sia incamminato verso un futuro di pace e di benessere. Io, certo, non sono tra quelli. Ho letto su «Repubblica», all'indomani della catastrofe ecologica del golfo Persico, un'osservazione di Fulco Pratesi, presidente del WWF, sul problema della «marea nera», e i termini in cui egli si esprimeva avevano una strana e inquietante somiglianza con un discorso fatto da Camus nel '46, agli studenti della Columbia University. Gli argomenti sono diversi: qui il disastro ecologico, lì la passata esperienza della «peste» nazista e della Resistenza; ma in entrambe le dichiarazioni, dell'ecologo e dello scrittore - o del politico, se volete - si avverte un'amarezza che non si esaurisce nella condanna dei potenti, dei «criminali», ma che coinvolge un intero sistema di vita, un'intera civiltà, e le scelte da questa operate. Diceva, infatti, Fulco Pratesi: «Non dovrei dirlo, ma ben gli sta. In fondo è giusto: paesi che con tanta protervia hanno fatto del petrolio e del suo sfruttamento la loro unica risorsa di vita, adesso ne paghino le conseguenze».
E, quarant'anni fa, Camus: Di fronte al terrore hitleriano, ci trovammo dunque disarmati. Se il problema fosse stato quello del fallimento di una ideologia politica o di un sistema di governo, il fatto non sarebbe stato grave. Ma quel che accadeva veniva dal fondo stesso dell'uomo e della società: su questo non c'era da sbagliarsi, ne avevamo conferma ogni giorno, e più ancora nel comportamento dei mediocri che in quello dei criminali. A guardare i fatti le società europee, se non gli individui uno per uno, meritavano quel che stava loro capitando: il loro modo di vita valeva veramente troppo poco, basato com'era sull'egoismo da una parte e su ideali non più creduti dall'altra. La violenza della negazione hitleriana, in sé e per sé, era logica. Ma era insopportabile, e l'abbiamo combattuta. E concludeva: Ora che Hitler è sparito, sappiamo un certo numero di cose. La prima è che il veleno di cui era saturo l'hitlerismo non è stato eliminato: è ancora in ciascuno di noi. Chiunque oggi parli dell'esistenza umana in termini di potere, d'efficienza, di «compiti storici» cui bisogna sacrificare i propri scrupoli morali, diffonde tale veleno: è un assassino, effettivo o potenziale. Giacché, se il problema della vita umana si riduce a un «compito storico» assegnato da non si sa quale istanza suprema, allora l'individuo non è che il soggetto passivo della Storia, e si può fare di lui ciò che si vuole, solo che si abbia la forza. Un'altra cosa abbiamo imparato, ed è che non possiamo accettare nessuna concezione ottimistica dell'esistenza, nessuna specie di lieto fine al dramma della storia. Tuttavia, se crediamo che essere ottimisti è una stoltezza, sappiamo anche che dichiararsi pessimisti quanto alla possibilità di agire in mezzo ai nostri simili per diminuire i mali che affliggono e procurare qualche bene, è una viltà.
Il fatto più strano è che poco dopo mi è capitato di leggere, sempre su «La Repubblica», una precisazione del presidente del WWF riguardo alla dichiarazione che ho riportato sopra, in cui egli specifica di non aver voluto riferirsi in generale a tutti i paesi del Golfo Persico, ma solo ai due paesi belligeranti, Iran e Irak. Cosa buffa, nella stessa pagina in cui questa precisazione è pubblicata, c'è un articolo di Francesco Alberoni - per il quale io non nutro molta stima, ma che questa volta non mi sembra dire le solite cose -, in cui si dimostra l'inevitabile coinvolgimento dell'intero pianeta anche in conflitti per così dire «regionalizzati», come quello in questione, e in cui il «sociologo» assume il disastro ecologico nel Golfo Persico come «primo, drammatico esempio» del carattere planetario di quelle che potrebbero essere le conseguenze di qualsiasi altro conflitto, anche «limitato».
A questo punto mi chiedo: forse che qualcuno dei paesi, o meglio, dei governi degli Stati che Fulco Pratesi sembra discolpare, ha mai cercato di impedire il conflitto che sta alla base di questo disastro? Eppure, questa guerra fra Stati sta mietendo migliaia dì vittime dall'ottobre dell'80. Sarebbe poi stata possibile questa guerra, e le vittime e il disastro ecologico che ha causato, se un esiguo manipolo di fanatici non fosse stato sostenuto dal fanatismo di migliaia di «sfruttati»? Sarebbe stata possibile qualsiasi altra guerra, se quelle migliaia di soldati che l'hanno condotta e che la conducono si fossero rifiutati di assolvere al loro «dovere» di macellai e di carne da macello? Sarebbe stato possibile l'hitlerismo stesso, se non ci fossero stati milioni di «mediocri» pronti a sostenere il comportamento dei «criminali»?
Si sarebbe mai diffusa «la peste» se anche noi, nelle nostre quotidiane esistenze, non ne avessimo incubato i germi?