Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 110
maggio 1983


Rivista Anarchica Online

Buttar via il lavoratore dopo l'uso
di Dario Paccino

Al recente convegno promosso da Federnatura su «Natura e lavoro», tenutosi a Terni il 26 e 27 marzo scorsi, Dario Paccino ha presentato questo vivace e polemico intervento, intitolato «Buttar via il lavoratore dopo l'uso». Giornalista e scrittore, autore tra l'altro di Arrivano i nostri (Edizioni Avanti!, 1956) e L'imbroglio ecologico (Einaudi, 1972), Paccino inviò un'interessante relazione al Convegno internazionale di studi sull'autogestione (Venezia, 28-30 settembre 1979) promosso dal Centro studi libertari «Pinelli»: quella relazione («Autogestire quale tecnologia?») fu pubblicata sul numero 76 (agosto/settembre 1979) della nostra rivista. Attualmente Paccino sta lavorando ad un nuovo libro, sempre sulla tematica ecologica, del titolo provvisorio L'oppio del popolo e l'apocalisse, «oppio - ci tiene a precisare lo stesso Paccino - che non viene solo dal padrone tradizionale, ma anche da quello rosso e da quello post-tutto».

I convegni (è norma di tutti i tempi) sono concepiti, organizzati, animati da gente del Castello, capace, come Aristofane diceva di Socrate, di salire sull'albero di fico per cogliere, in prossimità del cielo, la cavallinità al di là del cavallo, come è dato vederlo agli abitanti del Villaggio, inidonei ad elevarsi al di sopra del fenomeno. Solo nel Castello, chiaramente, si può pensare al bene comune, all'interesse generale, al divampare dello spirito, a tutti quei moventi, in una parola, che inducono a promuovere un convegno, moventi che nulla hanno da spartire con le miserie della vita. Forse che avrebbe mai fatto un convegno la 44enne Maria Fruet, impiccatasi a Selva di Levico perché sfrattata dalla propria soffitta? Non ne avrebbe avuto né il tempo, né il desiderio, senza contare che la sua, come dicono i profeti del postmoderno, era subcultura, un sapere appena al di fuori della caverna. Per far convegni sono necessarie quelle biblioteche del Castello, dove si son nutriti, e continuano a nutrirsi, le teste pensanti dell'Intellighentzia, dotate dell'energia necessaria per discutere per tre giorni - com'è avvenuto a St. Vincent - per decidere se Marx, a un secolo dalla sua morte fisica, sia tuttora vivo.
Suppongo dunque che chi ha avuto la cortesia di invitarmi a questo convegno, non sappia che, per quanto mi sia ingegnato, mai sono riuscito a trovare la strada del Castello. Sono a misura di Villaggio, esterno alla cavallinità, onde mi si vorrà perdonare se, con questo mio intervento, resterò terra terra, al cavallo, ai fatti. Permettete che ne citi qualcuno.
Il primo - particolarmente significativo, dato il tema del convegno - mi pare questo: oggi, stando ai dati ufficiali, nei paesi ricchi e liberi, il numero dei disoccupati si aggira sui trenta milioni, e la previsione dei cattedratici del Castello è che questa cifra sarà largamene superata. E pare che il fenomeno sia irreversibile, onde non ci resterebbe che rassegnarci alla piaga della disoccupazione di massa.
Sempre, noi tapini del Villaggio, dobbiamo fidarci del sapere del Castello, nonostante quanto s'è visto con l'energia. Tutti ricorderete come dieci anni fa, quando si ebbe la prima impennata dei prezzi del petrolio, dalla scienza castellana ci fu detto che la colpa ricadeva sui cattivi sceicchi, che non potendosi, per il momento, sterminare, dettavano legge, onde non ci restava che votarci all'austerità. Ora che i prezzi del petrolio stanno crollando, uno dei più autorevoli manager del Castello, De Benedetti, preannuncia: «Perderemo altri cinquantamila posti di lavoro ». Non che lui perda il proprio, ovviamente, il suo è il classico plurale majestatis: i cinquantamila posti di lavoro li perderanno i proletari, dimostratisi così rozzi e materialisti, che un sapiente del Castello, André Gorz, ha scritto un libro apposta, per dar loro l'addio: addio che s'è ben guardato dal dare ai padroni che, mentre i prezzi del greggio stanno crollando, decidono, fuori di sé per effetto di fervore spirituale, l'aumento di otto lire al chilo dell'olio combustibile.
Con Sant'Agostino che, con riferimento a Dio, diceva «credo quia absurdum», noi, con riferimento alla saggezza del Castello, dobbiamo dire: la nostra fede nei padroni è assoluta, proprio perché assurda, considerata la nostra incommensurabile miseria, che ci fa pensare solo al pane e a fornicare, e magari a impiccarci, se ci sfrattano. Ancor più di Gorz, chi ha capito quanto siamo miserabili è il cancelliere tedesco-occidentale Kohl, che ha impostato la propria campagna elettorale su questa inoppugnabile constatazione: «Quando un operaio ha da scegliere fra la sopravvivenza dell'umanità e il posto di lavoro, vota per il posto di lavoro ».
Ho letto che a Comiso stanno tornando gli emigrati. Se n'erano andati da casa perché non c'era lavoro, e ora che, per la preparazione delle rampe missilistiche c'è bisogno di braccia, tornano al focolare domestico. E' probabile che tanti verdi e pacifisti, dinanzi a così abietta degradazione, sentiranno lo sdegno dentro come veleno corrosivo. Ma che farci se siamo ormai così in basso che il proletariato di Marsiglia, diventato razzista, invidia posti di lavoro, che prima disprezzava, e vuole strapparli agli immigrati, onde il Turati francese, Defferre, per spuntarla nel recente ballottaggio, ha dovuto inventare una formula affine, per sublimità concettuale, al «non aderire né sabotare » del partito socialista italiano rispetto alla prima guerra mondiale. Ha dovuto dire al corpo elettorale: «La destra è responsabile di vent'anni di immigrazione selvaggia, la sinistra garantisce l'immigrazione controllata ». Gli immigrati perciò, ora che Defferre ha vinto, saranno rispediti ai paesi d'origine al canto dell'Internazionale, e col dono d'un pacchetto di caramelle da parte delle pie dame di San Vincenzo.
Inutile dire che se gli immigrati, nonostante questo trattamento di favore, facessero delle storie, porgendo orecchio ai sobillatori, si provvederebbe col carcere, sempre in connessione, da che mondo è mondo, con la struttura produttiva. Si sa che quando scarseggiava la manodopera, si inventò, come metodo di riabilitazione dei detenuti, l'ergoterapia, il lavoro in galera come rimedio ai mali dello spirito. Ora invece che, se il pudore lo permettesse, si creerebbe una Rupe Tarpea per i disoccupati più fastidiosi, il carcere è una sorta di atomica sociale. Chi vi entra perché ha grilli politici per la testa, deve sapere che non gli resta che la resa (con impegno, per soprammercato, di partecipare docilmente alla trasformazione sociale in atto) o l'annientamento. Lo psichiatra Jervis, anni fa, mostrò che la tortura - nei paesi fascisti dipendenti dalle opulente democrazie del Nord del mondo - era strumento indispensabile di governabilità. Ora che essa è diventata routine anche nei paesi civili, vediamo gli spiriti illuminati invocare la riforma carceraria, quasi che fosse razionalmente concepibile l'addomesticamento di un proletariato chiaramente schizofrenico con un sistema carcerario non terroristico, non annichilatore.
Se l'imperativo è il bene comune, Deffere, e con lui tutti i notabili del Castello, hanno ragione, e non solo per quanto riguarda il lavoro. Cosa che sicuramente ignorano gli amici dell'Associazione per la difesa della natura e del paesaggio. Essi infatti hanno redatto, per il loro periodico, Natura nelle Marche, un articolo che costituisce una veemente filippica contro gli autori della norma di legge che consente di acquistare, a peso d'oro, i siti per le centrali nucleari, con la previsione - se nemmeno i trenta denari di Giuda si mostrassero efficaci - dell'intervento d'autorità del ministro dell'industria. Tutti, in sede di commissione, hanno approvato questa norma, con la sola eccezione del deputato radicale.
Personalmente, al contrario degli amici dell'Associazione per la difesa della natura e del paesaggio, mi sarei stupito se fosse avvenuto altrimenti. Se si accetta - come ha sempre accettato la maggior parte degli ecologi - il concetto di crisi energetica, e si rifiuta come spregevole propaganda ciò che l'agenzia sovietica Tass ha scritto in questi giorni, e cioè che le multinazionali «hanno avuto più profitti nel decennio della crisi energetica, che non durante tutta la loro storia precedente»; se si accetta il mito dell'esistenza d'un bene comune gestibile dagli eletti del popolo, insediati nel Castello; se si accetta la provvidenzialità del binomio carota e bastone; in una parola, se si accetta l'esistente, definendo il resto utopia, non si vede perché condannare i parlamentari, perché, in nome del bene supremo dello sviluppo, hanno varato una legge che permette finalmente anche all'Italia l'uso dell'atomo per ovviare alla penuria energetica.
Al tempo in cui era il padrone che cercava braccia, si arrivò a rifiutare, da parte del proletariato, la monetizzazione della salute, e c'era addirittura chi sosteneva che il lavoro salariato è nocivo per se stesso. Oggi che nei soli paesi ricchi ci sono trenta milioni di disoccupati, e il carcere si configura come il regno del terrore, dove si può essere rinchiusi anche solo per assenteismo, si deve attribuire animo di benefattore ai parlamentari che hanno scelto il metodo del bastone e della carota, quando avrebbero potuto limitarsi alla repressione.
Persino Kant, che pur era pietista, pervenne alla conclusione che l'uomo è irreparabilmente malvagio. Io, abitante del Villaggio, aggiungo, al malvagio, un altro attributo: irreparabilmente folle, ché altrimenti non si spiegherebbe che qualcuno possa parlare in nome nostro, e imporci, per la nostra sicurezza, missili che in ogni caso (qualunque sia l'esito della guerra) comporteranno la trasformazione del nostro continente in deserto radioattivo. Perché dunque volete, se mi offrono lavoro in una fabbrica d'armi, che dica di no, oppure rinunci alla fabbrica che quasi sicuramente mi darà il cancro? L'orso si può difenderlo, e anche lo stambecco, ma l'uomo no, considerato che presupposto della difesa sia la sua liberazione.
Un articolista dell'Osservatore Romano, in un testo dedicato al centenario della morte di Marx, cita questa considerazione del pastore protestante Moltmann: «Ciò che nel cristianesimo religioso la chiesa ha custodito e trasmesso quale luce interiore, diventa invece, nel cristianesimo rivoluzionario (ispirato a Marx) la fiamma che si volge all'esterno, e divora tutto ciò che nel mondo è guasto, non libero, ingiusto, iniquo». L'articolista osserva che col trionfo del socialismo reale (si tratti di quello di Andropov o di quello di Defferre, anche se lui non cita questi nomi) anche Marx s'è interiorizzato, diventando utopia, l'utopia della liberazione dell'uomo, concepita nell'immanenza, al contrario del cristianesimo, che la concepisce nella trascendenza.
Un articolo, questo dell'Osservatore Romano, che richiederebbe una infinità di considerazioni, ma che comunque appare notevole (data la sede in cui è apparso) per il fatto di attribuire a Marx il merito d'aver posto il problema della liberazione dell'uomo come pregiudiziale di tutto il resto. Il che non vuol dire - come sembrano pensare coloro che si autodefiniscono gloriosamente pragmatisti - condannarsi all'immobilità, dovendosi fare, prima di tutto il resto, la rivoluzione.
Sì, non c'è dubbio, la rivoluzione potrebbe anche non essere più possibile dopo il deserto spirituale cagionato dai marxisti, rivoluzionari o riformisti che siano. E va pure detto che la rivoluzione canonica, che spazza via il negativo conquistando il Palazzo d'Inverno, non ha maggior credibilità della nostra presunta democrazia. La rivoluzione, se proprio si vuol farla, è lavoro di tutti i giorni, all'infinito. Cosa ben più epica di quella - per altro senza precedenti nella storia - realizzata da Lenin.
Comunque, qualunque sia la natura dell'evento rivoluzionario, è certo che senza di esso (se l'evento stesso è effettivamente indirizzato alla liberazione dell'uomo), la verità resta confinata nel Castello, espressa da Kohl con le parole citate. E allora come si può pensare di porre il problema, senza contaminazioni oppiacee, del rapporto produzione-natura, produzione-salute? Forse che un individuo, alla ricerca di lavoro in mezzo a milioni di altri diseredati, non ha lo stesso valore di un limone, da buttare nella spazzatura dopo averlo spremuto?