Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 12 nr. 101
maggio 1982


Rivista Anarchica Online

Hurwitz questo sconosciuto
di Franco Garnero

Si vede dunque che l'intelligenza si è solo apparentemente democraticizzata, e che solo in apparenza i tesori spirituali di un'epoca appartengono a chiunque, nell'epoca stessa, abbia imparato a leggere; che in realtà, invece, tutto ciò che vale davvero rimane segreto e sconosciuto; e si direbbe che da qualche parte sotto terra esista una casta segreta di sacerdoti o di congiurati che da un anonimo recesso tiri le fila dei destini dello spirito, che camuffi i suoi emissari armandoli di potere e di forza esplosiva per la durata di generazioni, e li spedisca senza nessuna legittimazione sulla terra, provvedendo a che la pubblica opinione, paga di quanto sa, non avverta nulla della magia che si dispiega sotto i suoi occhi. Queste considerazioni di Hesse, scritte principalmente per l'universo dei libri, possono con poca fatica essere adattate a Dialogue with a woman departed, il film di Leo Tolstoi Hurwitz, vincitore di uno dei premi speciali al 22° "Festival dei popoli", che ha avuto luogo a Firenze lo scorso dicembre. Potrà sembrare tardi parlarne ora, ma il silenzio che ha circondato questo autore decisamente "diverso" ed il valore della sua opera fanno saltare qualsiasi obiezione di tempestività.
Sempre le stesse parole di Hesse possono anche aiutarci a capire la "fortuna" di questo regista, praticamente sconosciuto anche agli specialisti. A Firenze è stato premiato per la sua opera complessiva e in particolare per la pellicola citata poc'anzi presentata alla rassegna. I pochi fiorentini che hanno saputo cogliere l'opportunità, e gli altri, che hanno affrontato i disagi di un viaggio sino al capoluogo toscano, sfidando l'indifferenza e le diffidenza che da sempre accompagnano ingiustamente il genere del documentario, cui il Festival dei Popoli è quasi esclusivamente dedicato, sono stati senz'altro premiati, come sempre accade nelle buone favole d'una volta. Tutto congiurava contro questa pellicola: quattro ore di proiezione in lingua originale (inglese), la totale assenza di un soggetto inteso in senso classico, un tema, tutto sommato, non di immediata attualità, hanno fatto sì che, nonostante l'orario favorevole (domenica ore 15) e l'ingresso gratuito, l'immensa e bellissima sala del "Palazzo dei Congressi" non fosse proprio gremita.
Create un feticcio, fatelo grande, capace di far tremare il mondo, e avrete un'arma in mano. Continuate a gonfiarlo. Poi organizzate la struttura del potere, fatela funzionare. Servitevi di un moderno mezzo di comunicazione di massa. Nessuno ribatte ad un inganno su vasta scala. La menzogna viene trasmessa in una conversazione a senso unico che va da voi a loro. Si diffonde contemporaneamente dappertutto, ed è una voce che ha autorità. All'inizio c'è la parola, e le chiacchiere la diffondono capillarmente. Si diffonde come un'infezione: così come si sviluppa un'epidemia. E mentre la menzogna si diffonde, essi costruiscono la loro organizzazione. Dall'organizzazione al terrore per le strade. In questo disegno i giovani hanno un ruolo importante. E per quanto riguarda le spese, i finanziamenti vengono sempre da quelli che hanno i soldi, segretamente. Ecco come Hurwitz commenta l'avvento dei regimi totalitari in Europa.
Il pretesto della narrazione è la morte di Peggy, l'adorata moglie del regista, di ascendenze indiane, morta nel settembre del '71. La narrazione filmica si dipana circolarmente, prendendo l'avvio da un albero solitario in mezzo al campo, che scandisce il passare delle stagioni, sino a ritornarvi per l'ultima inquadratura: immagini emozionanti, tecnicamente perfette, sorrette da un commento acuto e toccante. Nel desolante panorama delle programmazioni che solitamente ci è dato seguire, è davvero grande la gioia di poter assistere ad un film veramente bello, che perdura creativamente nella memoria dello spettatore.
"In questo film - spiega Hurwitz - la struttura deriva dal bisogno di legare insieme (così come sono legate nella vita) la mia esperienza personale, l'esperienza personale di Peggy, e il modo in cui queste esperienze sono legate al sociale, al politico. Questo è un aspetto del film. Un altro aspetto del film è l'idea di empatia, di rapporto tra le persone e tra le persone ed il luogo in cui vivono. Questi due aspetti, anche solo questi due, in qualche modo condizionano il mio modo di lavorare. L'idea di empatia, ad esempio, è molto importante. Inserirla nel film vuol dire fare un film in cui il pubblico non è "agitato"; ma agisce, pensa, sente le proprie esperienze intessute in ciò che avviene sullo schermo. Ecco perché il film è così lungo. Se nel film c'è un albero importante, non lo si può semplicemente citare con una ripresa di venti secondi, è necessario vivere dentro l'albero, bisogna porre le premesse affinché il pubblico possa sentire la vita dell'albero. Tutto questo crea le condizioni per la struttura delle immagini e per il rapporto tra suono ed immagini. L'albero deve vivere in un mondo di significati, così che i suoni che accompagnano l'immagine dell'albero sono molto importanti. Le sequenze di "Dialogue" sono reali, ma non realistiche. Nella scena della demolizione degli edifici, per esempio, le immagini di ciò che un tempo erano camere, e ora è soltanto aria, si mescolano ai suoni di voci familiari, di marmocchi che giocano, di madri che parlano ai loro bambini, o cantano una ninna-nanna".
Hurwitz è nato nel 1909 a Brooklyn, New York. La sua carriera è sempre stata contrastata per motivi politici: non ha mai fatto mistero, infatti, delle sue simpatie per la sinistra radical americana. Ha lavorato ad Hollywood per brevissimi periodi. "Capii che non era per me lavorare in un posto in cui non potevo esercitare alcun controllo sull'uso che veniva fatto del mio lavoro, e in cui ero semplicemente una pedina in mani altrui".
Non ha ritrattato, comunque, come altri colleghi in seguito diventati più famosi, le sue posizioni, ed è stato costretto, quindi, ad operare sempre ai margini dell'immensa industria cinematografica americana. La sua produzione è comunque molto ricca ed intensa: 23 titoli in un arco di 48 anni, i più noti dei quali sono Native land (1941), Strange victory (1948), In search of Hart Crane (1966), Do you know a man named goya? ( 1967) e questo Dialogue with a woman departed, la cui preparazione è durata quasi dieci anni.
Lavoro sulla premessa che il film abbia le stesse possibilità della mente umana - chiarisce Hurwitz - in cui si possono rappresentare tutte le esperienze, anche le più vaghe. Per esempio, pensa ad alcuni quadri del Beato Angelico, dove, quadro dopo quadro, viene rappresentata la crocifissione, e si vede il sangue sgorgare dalle ferite del Cristo e si intuisce la tragedia e la rappresentazione della pena umana; se però il quadro non è buono, si avrà solamente una rappresentazione formale, oppure un emblema religioso; se invece è buono si potranno vedere i significati e la vita che vi stanno dietro. Così, quando vedi qualcosa di buono, ti vengono in mente altre esperienze, numerosi collegamenti all'interno della tua mente; e queste esperienze non le vediamo con gli occhi ma le sentiamo con le antenne della mente; la mente non lavora con strutture lineari, proprio come il film. L'uso del suono è libero come lo è nella mente.
Ma nell'incontro con il regista Hurwitz, ciò che più ti colpisce è Hurwitz uomo. E' un tipo che non passa inosservato: ha settantatrè anni, ma si aggira ancora con un completo di jeans alla teddy-boy, non del tutto inconsueto negli States, ma da noi molto più raro, specie in persone della sua età. I suoi lunghi capelli bianchi e i suoi modi pacati ispirano immediatamente simpatia e rispetto. Dopo la proiezione del suo film si è tentata una discussione, uno di quei famigerati dibattiti che sempre accompagnano le occasioni "impegnate" e che tutti, giustamente, temono: nessuno si azzarda a parlare per primo. Hurwitz allora prende l'iniziativa, dice di rendersi conto del nostro imbarazzo e decide di spostare la chiacchierata nei corridoi del "Palazzo dei Congressi", dove infatti la conversazione, in presenza dell'interprete, prosegue senza intoppi per parecchi minuti, con ampia soddisfazione di tutti, anche dei più timidi. Un tale lo insulta, direttamente in americano, dicendogli, tra l'altro, che alla sua età dovrebbe vergognarsi di fare certi film, ma egli lo ascolta con la stessa dolcezza con cui ha accolto le lodi più lusinghiere.
La dolcezza dei suoi modi contrasta però in maniera evidente con la fermezza delle sue posizioni politiche. Si è detto molto vicino alle posizioni di George Jackson (i suoi libri sono editi dall'Einaudi). Quando ci siamo incontrati per l'intervista mi ha conquistato con la sua eloquenza e con il tono della sua voce; è stato sempre disponibile e comprensivo e abbiamo continuato a lungo a parlare di tante cose.
Per il futuro ha in programma un film sulla vita di John Brown, non sarà un documentario, ma un film di finzione: il soggetto è la lotta contro la schiavitù, ma vorrei riuscire a rendere questo materiale attuale. Non sarà la classica biografia di un personaggio in cui si condensano i rapporti di una persona in quanto individuo, dovrà essere strettamente connesso al mio tempo, e dovrà essere "vero" come Native Land. La mia intenzione è quella di andare alla ricerca del vero John Brown che, a parte la canzone, è un personaggio sconosciuto alla maggior parte degli Americani. A scuola non si parla di lui o, se lo si fa, è per descriverlo come una sorta di fanatico religioso, un pazzo, un esaltato. Come presente narrativo del film, credo che userò il periodo tra il 1900 e il 1905, il periodo che segue la ricostruzione o quello della post-ricostruzione.