Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 12 nr. 99
marzo 1982


Rivista Anarchica Online

Un po' di chiarezza
di C.A. Ponte della Ghisolfa / Collettivo Anarres

Violenza, terrorismo, repressione, lotta armata, ecc.: su questi temi, forse più che su qualsiasi altro, abbiamo pubblicato in questi anni un gran numero di articoli, numerosi dei quali redazionali. È su questi temi che ci siamo ritrovati a sostenere, nell'ambito del movimento anarchico, il dibattito più acceso ed a volte polemico.
La pubblicazione di questo documento, frutto di molte decine di ore di analisi e di dibattito tra i militanti del Circolo "Ponte della Ghisolfa" e del Collettivo Anarres di Milano, si colloca nel solco ben preciso della nostra concezione etica e "strategica" della violenza: i quattro componenti del nostro collettivo redazionale militano nei due gruppi firmatari del documento.

Un piccolo contributo di chiarezza e di lucidità. Ecco come consideriamo questo nostro documento su due temi di persistente attualità: la repressione e la lotta armata.
Di fronte a questi due elementi della nostra società crediamo di aver dato fino ad ora risposte più emotive che razionali. Cioè, risposte insufficienti (e in buona misura svianti) per un movimento come il nostro che, pretendendo di modificare radicalmente la società, deve trovare nella lucidità e nella chiarezza due elementi costitutivi della sua azione. Abbiamo quindi dedicato molte riunioni dei nostri due collettivi per discutere e analizzare questi problemi. Data la lunghezza e l'ampiezza della discussione avvenuta, il presente documento si presenta come il classico topolino partorito dalla montagna, ma abbiamo comunque la presunzione di credere che il nostro sforzo riuscirà a sviluppare il dibattito in corso nel movimento.
Il metodo da noi prescelto per approfondire l'analisi considera la "verità storica" come uno strumento fondamentale della rivoluzione libertaria. Vale a dire che a nostro parere ha validità solo e soltanto la "verità storica" e contestiamo l'utilizzo di "verità politiche", cioè di "verità che vengono ritenute utili ad un progetto, a una strategia politica, ma che non rispecchiano la realtà delle cose o degli avvenimenti. A nostro parere non è neppure vero che esistano più verità. Possono esistere ed esistono diverse interpretazioni di un determinato fatto, ma riteniamo che la verità abbia una sua oggettività che supera il momento interpretativo. Questa posizione può a prima vista sembrare dogmatica o, peggio, totalizzante. Il potere ha, infatti, sempre teso a imporre una sola verità: la sua, cioè una verità politica presentata come verità storica. A questa operazione del potere non ci si può opporre contrapponendo un'altra verità politica - anche in questo caso presentata come verità storica - perché risulta subito evidente che così operando entriamo nella stessa logica e utilizziamo gli stessi metodi del potere. Con in più un'aggravante: non disponiamo degli strumenti di persuasione del potere e siamo destinati, inesorabilmente, alla sconfitta. Nel fare queste considerazioni non nascondiamo le difficoltà che possano frapporsi alla individuazione della verità. Al fatto che quello che in un determinato momento viene considerato vero, possa in un momento successivo - grazie a nuovi elementi acquisiti - dimostrarsi non vero o parzialmente vero. Anche queste riserve non inficiano il concetto dell'unicità della verità, ma indicano unicamente gli eventuali ostacoli alla conoscenza della verità storica. Comunque risulta evidente l'enorme differenza tra chi cerca la verità storica - e quindi la logica secondo cui si muove - e chi invece crea e divulga una verità politica. Un abisso divide queste due posizioni. Un abisso incolmabile che nessuna considerazione e valutazione tattica o strategica può colmare. Per esemplificare il concetto espresso basti pensare alla recente polemica sorta in seguito al saggio di quel professore francese, Faurisson, che sostiene l'inesistenza delle camere a gas nei campi di concentramento nazisti. Quella di Faurisson è una tipica verità politica così come era una verità politica il negare lo sterminio dei Kulaki da parte di Stalin.
È dunque con questa impostazione metodologica che intendiamo affrontare l'analisi della repressione e della lotta armata e delle conseguenti risposte che il nostro movimento da e/o dovrebbe dare.

il movimento anarchico oggi

Prima di passare alla trattazione degli argomenti principali di questo documento crediamo opportuno analizzare, seppur sinteticamente, la situazione del nostro movimento. L'analisi della repressione e della lotta armata non può essere infatti disgiunta da una valutazione critica del movimento anarchico come parte coinvolta, volente o nolente, nella situazione generale del movimento rivoluzionario. In questo modo coglieremo quelle modificazioni che sono intervenute nel nostro movimento in dipendenza anche dei cambiamenti intervenuti al suo esterno. In questa ottica non ci interessa tracciare una mappa ragionata del movimento anarchico, quanto coglierne alcuni elementi comuni e generali.
Anche se il movimento presenta diversità e particolarità da luogo a luogo, da città a città, crediamo che l'insieme dei gruppi anarchici (pur nella eterogeneità delle pratiche politiche) presenti una sostanziale uniformità rispetto alla società "esterna": ha una incidenza pressoché nulla. La società non è - o è solo in misura ridottissima - influenzata dall'attività dei nostri gruppi. Questo non vuol dire che i gruppi siano inoperanti, ma, più drammaticamente, che quanto gli anarchici fanno non ha nessuna rilevanza sociale.
Il perpetuarsi in questi ultimi quattro-cinque anni di una tale situazione ha prodotto un diffuso e un più o meno consapevole senso di frustrazione che si traduce in una incapacità a pensarsi in funzione di un'attività esterna. Si assiste quindi a un susseguirsi di iniziative che solo formalmente sono dirette verso il mondo esterno, ma che di fatto trovano come interlocutori quasi esclusivi gli altri anarchici e libertari. Questo fenomeno è solo in parte attribuibile al disinteresse della "gente normale" verso le tematiche anarchiche, ma in più larga misura ad un'incapacità degli anarchici di "sintonizzarsi" con il modo di essere, di pensare, di vivere della "gente normale". Ciò è dovuto, in gran parte, all'atteggiamento psicologico e al conseguente linguaggio utilizzato dagli anarchici, che permane nella sfera del politico, proprio in un momento come quello attuale che vede sempre più accrescersi la crisi della politica, tradizionalmente intesa, sia essa di sinistra o di destra, rivoluzionaria o reazionaria. Accade così che tematiche antiautoritarie vengano "riscoperte" fuori dal movimento anarchico, anzi quasi in opposizione al movimento. Per chi come noi non ambisce ad alcuna egemonia sulla società, questi episodi sono sicuramente positivi, anche se spesso - per la mancanza di una progettualità cosciente e soprattutto di una diffusa cultura libertaria - si dissolvono o si risolvono in formule autoritarie con apparenti venature libertarie. Questi fenomeni mettono comunque in evidenza un elemento che potremmo definire allarmante: nella società permangono potenzialità libertarie che gli anarchici non riescono a galvanizzare, peggio, non pensano neppure di galvanizzare. Sembra dunque venire a cadere una delle funzioni più importanti del nostro movimento e questo fatto deve essere sottoposto ad attenta riflessione, pena la nostra trasformazione in un momento di testimonianza, in custodi di antichi splendori.
Già si notano i primi sintomi di questa trasformazione: la realtà sociale viene sempre più analizzata attraverso formule stereotipate che spiegano solo in parte - nei casi più fortunati - quello che realmente sta avvenendo, il linguaggio si ritualizza attraverso la ripetizione dei principi, certo sempre validi, ma necessitanti di una continua verifica e ritualizzazione. L'attività esterna diviene una routine determinata più a giustificare la propria esistenza che non dal desiderio di modificare la realtà. L'atmosfera si fa stagnante e viene contrassegnata da un impressionante calo delle capacità propositive dei compagni. Questi pochi elementi - ma altri se ne potrebbero elencare - ci dicono che la crisi del movimento sta subendo un'involuzione qualitativa e cioè che la nostra marginalità sociale si sta trasformando in dimensione ideologica: siamo sempre più all'interno dello "spazio ideologico del ghetto". Essere all'interno dello spazio ideologico del ghetto sta a significare non tanto, e non solo, la nostra incapacità fisica ad uscire dal ghetto (carenza di mezzi e di strumenti di propaganda adeguati ad una società come la nostra), ma piuttosto la nostra incapacità psicologica a pensarci fuori dal ghetto.
Ci sembra superfluo mettere in evidenza la drammaticità di una tale situazione che rende ormai anacronistico anche il termine "riflusso". Comprendere le ragioni, le motivazioni che hanno portato a questo stato di cose richiederebbe un documento nel documento. Qui ci limitiamo a rilevare che dal 1968 ad oggi moltissimi militanti anarchici sono passati da un tipo di attività frenetica e quasi religiosa a una militanza sempre più dubbiosa e disincantata fino all'abbandono della militanza politica in senso stretto. La militanza anarchica ha comunque quasi sempre riflesso - pur con alcune varianti, talora sensibili - il tipo di militanza che veniva esercitata nella sinistra extraparlamentare. Cioè non c'è stata una sostanziale differenziazione tra militante anarchico e militante extraparlamentare se non in alcuni enunciati, nelle dichiarazioni di principio. Risulta così evidente come la crisi del rivoluzionarismo marxista abbia potuto permeare anche l'ambito anarchico. Fenomeno curioso, quasi inspiegabile dal punto di vista teorico se non comprendiamo che la crisi del nostro movimento non è determinata da una crisi dei valori teorici ed etici, ma più banalmente da un decomporsi dell'ambiente "sinistrese" del quale - è duro riconoscerlo - anche noi facevamo parte. Anche le tematiche o i settori di intervento degli scorsi anni sono quasi sempre stati dei fattori "importanti" nel movimento anarchico: le "mode" della sinistra extraparlamentare, sono state i temi che gli anarchici hanno ripreso con opportune "varianti" linguistiche e terminologiche. Siamo quindi stati, in larga misura, la "versione libertaria" dell'extraparlamentarismo, e non abbiamo saputo creare una dimensione originale e autonoma di intervento sociale e politico. Oggi l'essere e il vivere da anarchici sembra risolversi in una forma che potremmo definire di "appartenenza": si è del tal gruppo, del tal collettivo, si sta insieme e si forma un piccolo "ambiente" che però non riesce ad assumere neppure la fisionomia di una controsocietà o società parallela.
Emerge un problema rilevante. La passata esperienza ci ha permesso di rilevare i limiti della nostra militanza e la sua "sudditanza" verso quella extraparlamentare. Se vogliamo uscire da questa situazione dobbiamo "creare" una dimensione della militanza originale, nuova e singolare nella sua diversità. Una dimensione che quindi si contraddistingua per qualità - e che dunque evidenzi la sua diversa natura - dalla forma di militanza oggi obsoleta, ma che è ancora l'unica immagine che noi abbiamo della militanza. Siamo certo coscienti che la semplice enunciazione del problema lascia immodificata la situazione, ma crediamo che solo da un'approfondita riflessione, da un dibattito nel movimento e da una costante verifica possano uscire delle proposte in grado di rivoluzionare la staticità della forma della militanza così come oggi ancora la concepiamo.

crisi della sinistra rivoluzionaria e strategia lottarmatista

Possiamo dunque considerare la crisi del movimento anarchico come fenomeno inserito - pur con alcune differenziazioni - nel più generale contesto della crisi della sinistra rivoluzionaria. Una crisi originata e determinata da una molteplicità di elementi, ma che si è evidenziata parallelamente allo svilupparsi della lotta armata. Con questo non vogliamo sostenere che la crisi della sinistra rivoluzionaria sia stata determinata dall'espansione della lotta armata, ma vogliamo comunque cogliere un nesso di interdipendenza tra i due fenomeni. C'è uno stretto collegamento, un alimentarsi reciproco tra questi due fenomeni: i primi segni della crisi hanno dato impulso alla lotta armata e lo svilupparsi di quest'ultima ha accelerato la crisi. Arduo, se non impossibile, sarebbe cogliere l'elemento primigenio da cui far dipendere l'altro. Ci limitiamo quindi a rilevare questa interdipendenza che si è risolta in uno sfascio completo dell'area rivoluzionaria e in un delirio isolato dei lottarmatisti.
Il "militarismo" è molto probabilmente un cancro che la sinistra rivoluzionaria, soprattutto quella marxista, si portava dentro fin dai primi anni della contestazione sessantottesca. I vari servizi d'ordine, nati come difesa delle manifestazioni contro le cariche della polizia, hanno via via acquisito atteggiamenti, strutture e mentalità militari. I membri dei servizi d'ordine dei vari gruppi (esemplare è il caso di quelli del Movimento Studentesco di Milano) seguivano corsi di ginnastica "marziale", si addestravano ed entravano in una dimensione psicologica più da militari che da attivisti politici. Dai servizi d'ordine muniti di bastoni si è poi passati alle bottiglie molotov.
Il famoso salto qualitativo, a Milano avvenne l'11 marzo 1972 durante una manifestazione contro la repressione. Non si trattò di una risposta violenta alle violenze della polizia - che certo ci furono - ma fu piuttosto una scelta decisa a tavolino dai vari dirigenti dei gruppi che programmarono "l'innalzamento del livello dello scontro". Strategia suicida, certo, ma che fece presa sulla sinistra rivoluzionaria e anche su parte del movimento anarchico. Già allora alcuni di noi scrissero: "Non si può considerare momento rivoluzionario uno scontro di piazza dove l'unico avversario sono i poliziotti, o i fascisti senza rischiare di autoemarginarsi dalle lotte degli sfruttati. Potere Operaio, il "cattivissimo" della sinistra extraparlamentare, con le sue farneticazioni sulla necessità di "militarizzare le lotte" esprime solo compiutamente una tendenza presente anche in altre organizzazioni extraparlamentari. Lo scontro con la polizia non è più visto come momento difensivo, bensì come momento pubblicitario per le organizzazioni sedicenti rivoluzionarie che cercano di far passare queste azioni come punto più alto dello scontro sociale". (Scontro di piazza e rivoluzione, in "A Rivista anarchica", n. 12, maggio 1972). La maggior parte degli anarchici milanesi non partecipò a quella manifestazione - salvo il sempre presente gruppetto che ama confondere lo scoppio di una molotov con lo scoppio della rivoluzione - anzi se ne dissociò politicamente. Quello che allora intuimmo, pur confusamente, e che oggi risulta evidente è che proprio in quel periodo prenderà corpo un progetto per creare le condizioni di una rivoluzione leninista in Italia.
Czeslaw Milosz, un dissidente polacco, ha sintetizzato in modo esemplare nel suo libro "La mente prigioniera", scritto nel lontano 1953, la teoria politica che informa la strategia leninista. Scrive Milosz: "Processo dialettico: prevedere che la casa brucerà, dopo di che versare benzina intorno alla stufa. La casa prende fuoco, le mie previsioni erano esatte". In modo estremamente sintetico Milosz ha compreso il nucleo centrale dell'azione politica dei leninisti. Questo schema può illustrare anche la situazione italiana di quegli anni. Processo dialettico: la crisi della società italiana genererà una violenza diffusa guidata dal partito comunista combattente. Dopodiché armare i membri più attivi dei servizi d'ordine e costruire un movimento clandestino armato. La violenza si diffonde, le previsioni erano esatte e confermano l'ineluttabilità della rivoluzione leninista.
Negli anni '70 si è andato sviluppando ed affermando questo progetto generato dalla mente di pochi ma intelligentemente diffuso nella sinistra rivoluzionaria. È evidente che non vogliamo affermare che solo pochi siano riusciti ad innescare un fenomeno che ha investito gran parte della sinistra rivoluzionaria. Il progetto della "violenza diffusa" si basava anche su alcune "condizioni oggettive" in cui si trovava un movimento che per anni si era infiammato di violenza verbale destinata o a defluire o a concretizzarsi in fatti. Abbiamo così assistito a un processo di diffusione della violenza che si sviluppava attraverso la creazione di momenti spettacolari che, amplificati dai mass-media, creavano l'illusione di un fenomeno più vasto e, per una sorta di proliferazione imitativa, queste azioni venivano riprese in altri quartieri, in altre città. Cosicché l'iniziale "finzione" creata ad hoc, estendendosi, diveniva realtà. Un fenomeno interessante e crediamo fino ad oggi poco compreso. Una realtà poco rilevante numericamente ha saputo creare una serie di situazioni che per la loro suggestione hanno acquisito una dimensione simbolica nella quale molti giovani si sono riconosciuti e grazie a questo processo il "movimento simbolico" tendeva a trasformarsi in "movimento reale".
Ma questo processo è stato bruscamente spezzato dal susseguirsi di arresti dal 1979 ad oggi. Il giudice Calogero attraverso una ricostruzione quasi interamente politica e poco giudiziaria, confortata da accuse perlopiù infondate, ma clamorose, ha inferto un colpo mortale a quel movimento mettendo a nudo - di fatto - lo scarto ancora esistente tra movimento simbolico e movimento reale. Dopo di allora assistiamo a un processo regressivo e involutivo della "violenza diffusa" e il manifestarsi della crisi del partito armato evidenziata dal fenomeno dei "pentiti".
La questione si fa delicata. Per evitare fraintendimenti cercheremo di chiarire meglio quanto espresso prima. Il famoso "teorema Calogero" è essenzialmente un "documento politico" più che una requisitoria giudiziaria. In esso le garanzie formali del diritto liberal-democratico vengono abbandonate per un obbiettivo ritenuto più elevato: "colpire l'eversione". Il giudice Calogero non incrimina sulla base di prove giudiziarie accertate, ma fa discendere l'incriminazione da una ricostruzione politica di fatti ed avvenimenti. La diversità di Calogero rispetto alla maggior parte dei giudici non sta tanto nella dimostrabilità o meno delle accuse (il potere giudiziario ha sempre agito in modo arbitrario e secondo la "ragion di stato"), ma nel metodo utilizzato: la politica al primo posto. Crediamo che non si tratti di una modifica di poco conto, anzi è forse il sintomo, per ora isolato, di una possibile trasformazione del potere giudiziario. Non a caso la sempre più sparuta pattuglia di garantisti ha gridato allo scandalo.
Visto in questa ottica, l'operato di Calogero è della stessa qualità, pur con alcune diversità formali, di quello dell'accusatore nei processi di Mosca del 1936/37, dei "processi proletari" delle B.R.ai loro sequestrati. Cioè di casi in cui l'accusa e il processo trascendono i formalismi democratico-borghesi e tutto si unifica nella dimensione politica. Il giudice Calogero combatte un leninismo con le armi del leninismo. Questo fatto è una vittoria delle B.R. perché hanno indotto il potere giudiziario ad abbandonare, almeno in questo caso (ma forse l'episodio è destinato a diventare norma), il "formalismo borghese" per addentrarsi nel "sostanzialismo leninista", cioè un diritto utilizzato non tanto per colpire imputati che debbono rispondere di reati commessi e accertabili secondo procedure codificate, ma piuttosto di reati addebitati secondo un "sospetto politico". In questo senso il giudice Calogero è un brigatista come lo è il ministro-ombra Pecchioli che proprio recentemente ha dichiarato: "Nessuno è innocente fino a prova contraria".
L'aspetto più inquietante non è tanto la trasformazione in atto nel potere giudiziario, ma piuttosto la sostanziale accettazione di questo stato di cose da parte della società civile. Anni e anni di violenza diffusa, ai più incomprensibile, hanno creato una situazione psicologica che dà al potere una sorta di immunità: le violenze del potere vengono viste come il male minore. Questo aberrante risultato va addebitato soprattutto a coloro che hanno creduto di creare una situazione rivoluzionaria attraverso una pratica politica fatta di violenza e di successivi "innalzamenti del livello di scontro". Pur nella convinzione, rafforzata dall'esperienza di questi anni, del delicato e non sempre prevedibile rapporto tra lotta anarchica e mezzi violenti, noi non siamo nonviolenti, ma crediamo che l'utilizzo della violenza debba sempre tener conto di due elementi essenziali: la comprensibilità e la sua giustificazione. Un atto violento, se non è un atto fine a se stesso (quindi irrilevante ai fini rivoluzionari), è, anche e forse soprattutto, un messaggio, una comunicazione che la minoranza rivoluzionaria rivolge alla maggioranza degli sfruttati, cioè ai suoi interlocutori.. Ora è evidente che il messaggio per sortire gli effetti sperati, debba essere compreso o meglio ancora condiviso e "partecipato idealmente". Per ottenere questo effetto l'atto violento deve avere una chiara giustificazione, deve cioè correlarsi in modo diretto (non fumoso e astratto) a fatti, azioni, soprusi del potere, oppure deve proporsi di raggiungere uno scopo specifico sorretto da un elevato contenuto etico.
Se sulla base di queste premesse noi analizziamo questi ultimi anni di lotta violenta o armata in Italia ci rendiamo subito conto che il tipo di violenza esercitata non rispondeva a questi requisiti e quindi gli sfruttati non l'hanno condivisa e, grazie ad un'intelligente regia dei mass-media, hanno riconosciuto una buona dose di legittimità alla violenza esercitata dal potere. Con questo non vogliamo certo "processare" delle generazioni di giovani che in quegli anni vedevano nell'azione violenta un atto di rivolta globale contro il sistema, quanto di fare chiarezza e di comprendere i danni provocati dall'aver elevato quel tipo di violenza politica al ruolo di strategia politica. E di comprendere, infine, che la strategia lottarmatista ha allontanato ancor più l'evento rivoluzionario, tanto che il persistere di azioni violente può essere considerato come una sorta di sublimazione di una rivoluzione inesistente e che si allontana sempre più. Dunque una violenza che appaga solo chi la esercita.
Per gli anarchici il discorso dovrebbe essere chiaro, ma purtroppo vediamo persistere nel nostro movimento una visione distorta della violenza, un considerare il grado di violenza di un'azione come il suo grado di rivoluzionarismo. Quasi esistesse una equivalenza meccanica tra violenza e rivoluzione. Noi ci dissociamo nettamente da questa visione che non solo si è dimostrata sbagliata, ma che risulta priva di una benché minima "intelligenza politica".
Non tener conto degli effetti prodotti sull'immaginario collettivo da oltre dieci anni di questa lotta armata e delle modificazioni psicologiche degli sfruttati significa ignorare i processi attraverso i quali la società forma l'immagine di se stessa, di come recepisca determinati messaggi nell'attuale condizione storico-sociale, significa in poche parole mostrare solo arrogante disprezzo verso coloro che sono i nostri interlocutori: gli sfruttati.

la repressione, le campagne antirepressive e il fronte carcerario

Di fronte a questo cosiddetto "innalzamento del livello di scontro" lo stato e i suoi organi repressivi come esercitano il loro compito istituzionale? Cioè come esercitano la repressione? Analizzare la qualità della repressione non ci da solo la descrizione di una funzione dello stato, ma, essendo questa funzione uno dei momenti costitutivi dello stato, ci permette di comprendere il tipo e la qualità del potere contro cui lottiamo. In questo modo la complessità e l'apparente indecifrabilità del potere vengono decodificate attraverso l'analisi di una sua manifestazione preminente. Se rivediamo schematicamente questi ultimi anni (dal '69 ad oggi) cogliamo una lenta, ma costante trasformazione della repressione: da una forma quasi indiscriminata e disordinata ad una più discriminata e più sistematica. Sicuramente esistono anche casi di repressione indiscriminata, ma si tratta più di eccezioni, talora vistose, che della norma.
Le bombe del 12 dicembre 1969 e la successiva repressione rappresentano l'inizio di una nuova fase nell'attività degli organi polizieschi e giudiziari. Su questa nuova dimensione della repressione, sulla capacità di contrattaccare degli anarchici e della sinistra rivoluzionaria, sul calo di credibilità dello stato, sul coinvolgimento nella campagna di controinformazione di ampi strati della società italiana, in questi anni si è scritto quasi tutto quanto si poteva scrivere e quindi non ci dilungheremo oltre. Qui quello che ci interessa rilevare è come da allora il potere abbia saputo perfezionare le tecniche d'intervento contro un movimento che perdeva sempre più incisività, stretto tra riflusso e lotta armata. Si è dunque nuovamente sbilanciato quel rapporto di forza che ci aveva visti nella prima metà degli anni settanta avviati a conquistare sempre maggiori spazi di agibilità politica. Non abbiamo saputo rafforzare quegli spazi, anzi in pochi anni il movimento rivoluzionario ha gradualmente perso terreno, ha distrutto quel patrimonio di credibilità che si era conquistato dopo la strage di stato. Troppo facile, troppo comodo sarebbe addebitare questa sconfitta solo alle capacità di recupero del potere. Queste indubbiamente ci sono, ma bisogna anche dire a chiare lettere che il potere ha trovato la via spianata dalla nostra incapacità, o peggio, dalla nostra imbecillità.
Non si possono montare campagna antirepressive basandole sempre su "verità politiche", per di più difficilmente sostenibili. Non si può pensare di sostenere l'innocenza (in senso giuridico) di compagni che innocenti non sono (secondo le leggi e/o secondo la morale comune), senza poi dover pagare il conto in termini di credibilità. Le verità politiche (se non si ha la forza di imporle - ammesso e non concesso che sia un modo corretto di agire - e considerato inoltre che questa forza al momento attuale ce l'ha solo il potere) si rivelano dei trabocchetti in cui il movimento rivoluzionario è caduto in modo maldestro. Quando gridavamo nelle piazze che Valpreda era innocente, gridavamo una verità storica, una verità che neppure la forza del potere riuscì a seppellire. Ma chi ha sostenuto l'innocenza di compagni "colpevoli", ha dovuto (e noi con loro) constatare che, mano a mano che le tesi difensive cadevano (a volte gli stessi incarcerati hanno ammesso le loro responsabilità sconfessando clamorosamente le campagne fatte in loro appoggio) quella fascia di opinione pubblica sensibilizzata dal movimento rivoluzionario ha cominciato sempre più ad accettare le verità dello stato, a considerare come legittimo l'operato degli organi di repressione. Questo stato di cose - così facilmente verificabile da chi abbia occhi per guardare - ha accresciuto enormemente il grado di impunità del potere che può oggi permettersi di agire secondo il principio del "sospetto dell'autorità come presunzione di colpevolezza".
La situazione è davvero sconsolante: polizia e magistratura possono violare le loro stesse norme senza più alcuna reazione nell'opinione pubblica, mentre i vari "comitati per la liberazione dei compagni" sono completamente inascoltati. Tutto è immerso in un clima fatto di diffidenza o di apatia.
C'è stato un periodo in cui si difendevano tutti gli accusati, tutti i carcerati politici, c'era un clima psicologico che portava a considerare tutti gli arrestati innocenti. Conformismo vittimista, deleterio come tutti i conformismi. Poi il clima si è lentamente dissolto perché molti si sono resi conto che quanto andavano sostenendo era poco credibile, tanto che oggi non si riesce più a smuovere nessuno neppure di fronte ai più palesi soprusi. Oggi il potere reprime godendo di un elevato consenso e sono troppi i favorevoli al ripristino della pena di morte. È possibile chiamare questo stato di cose come un "innalzamento del livello di scontro"? Evidentemente no. Quindi bisogna utilizzare l'esperienza accumulata in questi anni per uscire da questo vicolo cieco.
Oggi tutta l'agitazione antirepressiva ancora esistente è egemonizzata dalle parole d'ordine lanciate dai gruppi armati. Sembra quasi che "il proletariato carcerato" sia divenuto il soggetto della rivoluzione. Questa impostazione strategica mostra chiaramente i limiti di un movimento che si è polarizzato in un dialogo tra chi è fuori e chi è dentro alle carceri. Di un movimento costretto a fare del "carcerario" non un tema di agitazione sociale, ma un tema di agitazione al suo interno: la propaganda viene fatta per gli altri militanti che non si occupano del "carcerario". Siamo di fronte ad un progetto che basandosi anche sul ricatto morale ("quelli stanno dentro e voi fuori ve la menate") vorrebbe ricomporre in un unico fronte le scaglie disperse del movimento rivoluzionario. Il carcerario dunque come "ultima spiaggia" su cui ricostruire un progetto leninista adattato alla nuova situazione: dall'operaio massa all'operaio sociale ed oggi all'operaio carcerato.
Il "carcerario" e l'auspicato nuovo "fronte unito" sono quindi null'altro che una versione riadattata del progetto neo-leninista nato negli anni settanta. Non rendersi conto di questa evidenza è perlomeno segno di una grande ingenuità. In questo momento storico l'aggregazione attorno alle tematiche classiche della sinistra rivoluzionaria risulta inconsistente, invece il "carcerario" ha ancora un discreto grado di "coinvolgimento emotivo" all'interno del movimento. Un ambito nel quale fare politica "tutti insieme" al di là delle divergenze ideologiche in vista di un obiettivo comune: la liberazione dei compagni. I "comitati di lotta" all'interno delle carceri e i "comitati di difesa" all'esterno non si pongono l'obiettivo di "abolire le carceri", anche se questo viene ripetuto ad ogni piè sospinto, ma piuttosto di costruire una figura di partito leninista che sappia unificare le tensioni all'interno e all'esterno del carcere.
Per questi motivi il nostro dissenso verso gli acritici compagni libertari e anarchici che hanno scelto la parte di "utili idioti" del neo-leninismo è completo e totale. È quindi necessario scindere chiaramente la solidarietà umana con le vittime dello stato dall'avallo e dall'accettazione di un progetto politico che riteniamo antitetico al nostro. Risulta chiaro che non è solo per il rapporto di forze esistente nelle carceri (preponderanza dei brigatisti contro una minoranza di libertari) che rifiutiamo di privilegiare il lavoro sulle carceri. Crediamo infatti che di fronte alle carceri il lavoro politico esterno consista quasi esclusivamente nell'agitazione a carattere generale che includa anche l'eliminazione di questa istituzione totale. Cioè crediamo sia possibile abolire le carceri solo modificando i rapporti nella società, mentre la focalizzazione sulle carceri diviene momento sviante e neppure produttivo per lo specifico "obiettivo carceri". Invece i "comitati di lotta" accettano la dimensione carcere e anzi costruiscono una serie di azioni che mirano più a garantire l'egemonia leninista sull'intera popolazione carcerata che non ad una negazione di questa istituzione. Dunque pur ritenendo valide e comprensibili le lotte che mirano a migliorare le condizioni di vita dei carcerati non possiamo certo dare il nostro sostegno a chi sulla base di queste riforme cerca di affermare e consolidare la sua egemonia di tipo mafioso-leninista. Soprattutto riteniamo che le carceri non possano essere il luogo privilegiato di intervento per un movimento che si costituisce essenzialmente nella dimensione della libertà. Noi lottiamo per la distruzione delle carceri perché le consideriamo un non-luogo della socialità, cioè una struttura che - condizionando negativamente ogni progetto che nasca dal suo interno - si dimostra negatrice di ogni progetto di emancipazione sociale. È evidente quindi che ci rifiutiamo sia di accettare la "logica delle carceri" sia l'illusione di creare in quella istituzione totale un movimento che favorisca la liberazione sociale. Un ultima considerazione: oggi la quasi totalità dei carcerati politici è portatrice di un progetto politico (sia i brigatisti che i lottarmatisti libertari) che consideriamo o antitetico o non in sintonia con il nostro, quindi, risulta per noi impraticabile un sostegno politico che si tradurrebbe in un'accettazione implicita o esplicita della loro strategia. Questa considerazione tronca, a nostro parere, ogni ulteriore discussione: non siamo disposti a rinunciare alla nostra identità politica per un malinteso senso della solidarietà.

la verità è rivoluzionaria

Sulla base delle considerazioni fin qui esposte riteniamo sia indispensabile ricostruire un'etica dell'azione politica che escluda la dicotomia tra verità storica e verità politica. Lo strumento da utilizzare è solo e soltanto la verità storica, mentre oggi il movimento rivoluzionario è spesso portatore di "verità rivoluzionarie" che sono verità politiche, cioè false, quanto le "verità di stato". Questo sta a significare che il movimento rivoluzionario è caduto nella spirale del potere e ha riprodotto la stessa logica del potere che combatte. Un caso tipico del processo di equivalenza allargato che porta tutte le forze sociali a riprodurre la forma del potere. Su questa strada la nostra sconfitta politica è sicura perché anche se - per ipotesi assurda - le nostre campagne risultassero "vincenti" si tratterebbe, in definitiva, di una vittoria della logica del potere, cioè saremmo divenuti un contro-potere. La negazione del nostro essere anarchici. Qui si apre un dilemma solo apparentemente irresolubile: il dilemma tra verità e necessità. Cioè tra l'esigenza di affermare la verità e la necessità di liberare i compagni. Il dilemma, lo ripetiamo, è solo apparente perché se non accettiamo le verità politiche, la nostra esigenza di lotta per la liberazione dei compagni si articolerà in forme differenziate secondo i casi, e che possiamo così sintetizzare: noi imposteremo delle campagne a "carattere innocentista" se riteniamo che il compagno sia innocente. Se invece il compagno è "colpevole" la campagna deve essere soprattutto una rivendicazione - se si concorda con l'azione - del fatto. Tra questi due casi si situa un terzo tipo di campagna e cioè un'agitazione intesa a mettere in evidenza gli abusi del potere poliziesco e giudiziario per contrastarne l'evoluzione verso una dimensione di tipo inquisitoriale. Tutte queste forme di campagne antirepressive devono comunque essere unificate da una logica che veda la lotta contro la repressione come momento per diffondere, motivare e organizzare il dissenso. Questo vuole altresì significare che si possono impostare campagne antirepressive solo di fronte a casi che trascendano il momento puramente strumentale di liberazione dei compagni. Una campagna per sortire effetti deve essere continua, martellante e deve avere un grado di generalizzazione tale da coinvolgere ampi strati della società. Non è inflazionando lo strumento campagne antirepressione che libereremo più compagni, ma è proprio nell'individuazione dei casi esemplari di repressione e nella conseguente agitazione che restringiamo l'impunità degli apparati repressivi e impediamo l'estendersi della repressione. Utilizzare le esigue forze del movimento anarchico in mini-campagne che si esauriscono nei soliti slogan antirepressivi che non convincono nemmeno più chi li grida, è assurdo e ininfluente, spesso controproducente. Molto più produttivo allora adoperare le nostre poche forze per l'azione sociale.
Sulla base di queste considerazioni continueremo la nostra lotta contro la repressione, secondo modalità che non vadano a scapito della nostra identità politica che in questo momento storico possiamo sintetizzare nella formula: continuare la lotta di sempre contro lo stato e contro il potere in tutte le sue forme, anche nella forma embrionale del "contro potere rivoluzionario", una lotta che significa anche rifiuto netto della violenza militaristico-burocratica ed avanguardista del lottarmatismo e nel rifiuto netto anche, senza ammiccamenti e cedimenti ai ricatti emotivi, della suicida caricatura "libertaria" del lottarmatismo leninista e nell'ancor più caricaturale violentismo e tremendismo verbale.