Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 95
ottobre 1981


Rivista Anarchica Online

I parchi dell'inganno
di Ugo Dessy

Quando alla fine degli Anni Sessanta il potere capitalista propose la creazione del Parco Nazionale del Gennargentu ci fu una ferma risposta negativa da parte delle popolazioni sarde, quasi una sollevazione popolare preceduta e animata da un dibattito politico di base di così ampia partecipazione da non avere l'uguale nella storia della Sardegna. L'idea del Parco Nazionale del Gennargentu viene studiata dalla Generalpiani nel 1962 e inserita nella legge 588, la legge della Rinascita - la famigerata latitante - che servì alla classe dirigente regionale per coprire l'invasione e la rapina coloniale del capitalismo. L'idea del Parco, nelle sue più profonde motivazioni, si rifaceva al Piano Mansholt - l'Europa divisa in aree di uso e produttività diversificate secondo l'interesse del capitalismo USA - ed era strutturato in tre zone, ciascuna caratterizzata da differenti vincoli. La prima zona, di riserva integrale, divisa a sua volta in tre zone: a) territorio dei comuni di Arzana, Desulo, Fonni, Gairo, Seui e Villagrande; b) territorio dei comuni di Oliena, Orgosolo, Talana e Urzulei; c) territorio dei comuni di Baunei e Dorgali. La seconda zona, di riserva generale guidata, comprendente i territori precedenti più quello di Aitzo; la terza zona, di pre-parco, costituita da una fascia che delimita le due precedenti, con la funzione di preparare e proteggere il Parco. Si estende sui territori dei comuni di Arzana, Baunei, Dorgali, Fonni, Ilbono, Lanusei, Talana, Urzulei, Villagrande Strisaili.
I vincoli relativi a ciascuna zona sono i seguenti. Per la prima zona. Divieto di ogni sfruttamento forestale, agricolo, minerario; di ogni prospezione e scavo, sondaggio, terrazzamento, costruzione; di ogni lavoro tendente a modificare l'assetto del terreno o della vegetazione; di ogni atto che rechi turbamento alla flora o alla fauna; divieto di introduzione di specie zoologiche e botaniche indigene o importate. Vi si potrà accedere soltanto mediante visite autorizzate e accompagnate e vi sarà vietato il campeggio. Per la seconda zona. Divieto di caccia e di pesca, di ogni sfruttamento minerario; di ogni atto che rechi turbamento alla flora e alla fauna; di introduzione di qualsiasi specie zoologica e botanica; di ogni costruzione. Saranno consentiti il pascolo e l'allevamento solo se questi non comporteranno opere di sistemazione che modifichino il paesaggio naturale e non turbino comunque l'attuale vita animale e vegetale. Per la terza zona. È previsto un piano paesaggistico. È previsto un vincolo forestale per la conservazione del patrimonio arboreo e un piano di rimboschimento. Divieto di introdurre piante estranee. Obbligo di piani regolatori per la rete urbanistica. Caccia regolamentata dall'Ente Parco. Divieto di aprire miniere o cave. Controllo di modifiche a piani urbanistici da parte dell'Ente Parchi.
Il momento scelto dai padroni al governo per far passare il progetto del Parco del Gennargentu era quanto mai sbagliato. Alla fine degli Anni Sessanta l'Isola era in fermento, diciamo pure alla soglia di una vasta sollevazione popolare. Le cause del malcontento popolare sono note: smantellamento delle miniere; l'agricoltura depressa e scoraggiata in ogni modo (l'ETFAS ha in pratica questa funzione insieme a quella di disarticolare il movimento cooperativistico contadino); l'allevamento iugulato e prostrato con il ricatto dei pascoli e il ricatto dell'industria casearia in mano i primi ai latifondisti assenteisti e la seconda al capitale continentale; la pesca abbandonata a forme e tecniche rudimentali, schiacciata da una concorrenza straniera con tecnologie altamente produttive (la regione sarda è in quel periodo presente con un solo moderno peschereccio... in disarmo!); il turismo lasciato in balia degli speculatori stranieri che si impadroniscono di quasi tutte le coste; l'occupazione militare sempre più massiccia e oppressiva; impianto delle petrolchimiche, non soltanto cattedrali nel deserto ma "cattedrali che producono il deserto"; redditi bassi; disoccupazione; emigrazione che raggiunge gli aspetti drammatici dell'esodo di massa. Infine, su questa situazione di pianificato sfacelo economico e sociale, si inserisce il disegno di sperimentazione nell'Isola di nuove tecniche di repressione popolare: in una situazione di malcontento che favorisce il sorgere di fenomeni di banditismo nelle zone interne, nuovi fenomeni di criminalità vengono incentivati per dare il pretesto a speciali forze di polizia di sperimentare sul vivo i piani di controllo militare del territorio e della gente: battute, rastrellamenti, arresti in massa, operazioni di controguerriglia con esercitazioni di truppe paracadutate e così via.
La situazione è esplosiva. Si comincia con il contestare i metodi repressivi della polizia, poi l'amministrazione della giustizia, infine la credibilità non soltanto del piano di rinascita ma della stessa classe dirigente e dei partiti politici tradizionali. Nasce e si sviluppa un vasto movimento popolare anticolonialista, sostenuto da forze e gruppi extraparlamentari. Un movimento apparentemente culturale che getta le basi per un fronte nazionalista, per il separatismo. Un movimento che verrà appoggiato anche da forze rivoluzionarie esterne (Feltrinelli, anarchici, marxisti-leninisti) senza peraltro riuscire mai a coagularsi con il tessuto rivoluzionario popolare sardo. Dopo i Centri di cultura laici di formazione civica, che hanno svolto un'importante funzione di sensibilizzazione politica sui problemi di comunità in Sardegna, nascono i Centri culturali politici nei più importanti centri delle Barbagie, a Baunei, a Talana, a Orgosolo, eccetera il Teatro Dioniso agisce a Mamomiada. Di quegli anni sono le rivolte di Orgosolo: la prima, che dichiara decaduta l'amministrazione comunale, che ribattezza il municipio "casa del popolo" e getta le fondamenta per "la repubblica di Orgosolo"; la seconda, contro l'occupazione militare dei pascoli di Pratobello.
La risposta che nel 1969 le popolazioni danno alla proposta di creazione del Parco del Gennargentu è decisa, dura, politicamente motivata. Leggendo le prese di posizione delle diverse comunità sarde - purtroppo ancora inedite - si ha una chiara dimostrazione di conoscenza della questione e di maturità e responsabilità rivoluzionarie. La valutazione negativa del Parco è unanime. Viene demistificata l'intenzione del padrone capitalista che sostiene di voler creare il Parco in difesa della natura. L'intenzione dei padroni - viene gridato - è quella di "far sparire dalla carta geografica circa la metà della provincia di Nuoro". Lo scopo neppure tanto inconfessato del potere capitalistico è quello di un progressivo spopolamento delle zone interne, in funzione di uno sviluppo capitalistico da rapina nei poli di Cagliari e Sassari. Si parla perfino di "una soluzione finale del popolo sardo" - intendendo per "sardo" il barbaricino, il pastore, la componente primaria e resistente della cultura sarda. In un suo documento, il Circolo culturale giovanile di Baunei, scrive sottolineando: "Respingere il Parco e il Piano per la pastorizia è una urgente necessità perché si tratta di salvare la propria esistenza sia come entità numerica sia, soprattutto, come civiltà".
Certamente è puttanesco, sfacciatamente puttanesco che il sistema di potere capitalistico si proponga all'umanità come il difensore della natura, quand'egli è il primo e unico responsabile dell'inquinamento e della degradazione della natura. Quando per la prima volta saltò fuori l'idea del Parco del Gennargentu, con altri sardi espressi la mia opinione negativa. E non perché non trovassi e non trovi utili i parchi e necessaria la protezione del patrimonio naturale, delle specie animali e vegetali. In questo senso il mondo dovrebbe essere pieno di parchi. Ma non si può pensare di salvare la natura senza salvare l'uomo. Prima dei parchi per la protezione della natura o insieme a questi bisognerebbe vedere sorgere "i parchi per gli uomini" - dove essi possano vivere liberi e felici. In una società fatta a misura d'uomo, l'uomo vive come componente della natura e non c'è neppure bisogno di parchi e riserve per salvare specie animali, vegetali e umane in via di estinzione a causa della criminale opera di rapina e sterminio da parte del potere economico.
Scrivevo testualmente allora, ed ero - come per altri problemi della mia terra - un facile profeta: "Il problema della conservazione e della difesa della natura è diventato il leit motiv dell'ultimo scorcio del secolo ventesimo e probabilmente continuerà ad esserlo anche nel ventunesimo - sempre che l'umanità abbia a trovare in futuro l'aria sufficiente per ossigenarsi il cervello. Un problema di per sé chiaro e semplice e allo stesso tempo irrisolvibile. Gli uomini - o chi per essi - sono andati costruendosi un tipo di civiltà che si sviluppa a scapito della natura; il progresso umano sembrerebbe cioè andare di pari passo con la distruzione del patrimonio naturale e quindi dello stesso uomo che ne è parte e che della natura ha bisogno per vivere. Ci troviamo davanti a un formidabile rompicapo: se vogliamo mangiare dobbiamo sorbirci l'inquinamento e tutti i veleni e i condizionamenti della civiltà industriale; se vogliamo conservare il patrimonio naturale e una certa autonomia e dignità dobbiamo crepare di fame. Sul piano ideologico, questo rompicapo sta già creando una confusione del diavolo: non si capisce più chi siano i conservatori e chi i progressisti. Infatti, vediamo certi capitalisti e intellettuali di indiscussa fede rivoluzionaria battersi insieme in difesa della natura minacciata e vediamo altri capitalisti a braccetto con leaders dei popoli ex coloniali promuovere l'industrializzazione delle aree sottosviluppate per migliorarne il tenore di vita, seppure ciò comporterà anche lì la distruzione del patrimonio naturale, su cui poi altri capitalisti-Cassandre spargeranno fiumi di lacrime. La Sardegna - regione autonoma - è una di queste aree che ha imboccato la via dell'industrializzazione per uscire - dice - dalla sua millenaria arretratezza. Con quali risultati dirò più avanti, brevemente.
Ci si chiede se l'umanità, davanti alla minaccia della propria distruzione, non si decida a modificare le attuali strutture dell'attuale sistema per aprirsi finalmente una strada nuova, dove il progresso umano coincida con la conservazione dell'equilibrio naturale. Purtroppo è utopia una nuova società che non sacrifichi su alcun altare i valori e le esigenze naturali dell'uomo. Utopia non perché una tale società non possa organizzarsi ed esistere, ma perché nella sua grande maggioranza l'umanità è assente o è incapace o è incatenata: a decidere del presente e del futuro di tutti sono i pochi, gli eletti, i privilegiati - ovunque, nel mondo.
Io ho fede nell'uomo, nella sua capacità di redenzione: egli ha in sé ogni seme di progresso. Ma non basta la fede. L'uomo delle aree industriali è ridotto a un automa, vive condizionato dagli impulsi che gli manda la centrale del sistema consumistico. L'uomo delle aree sottosviluppate è ridotto ad animale famelico che vive nel continuo assillo del cibo per sfamare sé stesso e i propri figli. L'uomo, nei due diversi poli, non si trova quindi nella condizione ideale per recepire e portare avanti il discorso sull'ecologia. Neppure quando stesse per crollargli addosso il mondo intero.
Un circolo chiuso, purtroppo. Uno dei tanti che sembrerebbero creati apposta dai pochi che detengono il potere per mantenere le grandi masse popolari in uno stato di perenne incapacità e irresponsabilità. Credo che anche in questo caso valga il principio secondo il quale senza le masse popolari coscienti e responsabili non esiste vero progresso.... Organizzazioni ed enti vanno sorgendo come funghi "in difesa della natura". Sono certamente iniziative utili: è giusto difendere anche un solo albero minacciato dalla scure di un boscaiolo o anche un solo passero minacciato dal fucile di un cacciatore. Ma non mi basta difendere l'albero e l'uccellino. Non mi basta denunciare all'opinione pubblica, e se possibile al magistrato, i danni che provocano gli scarichi inquinanti di una fabbrica. Non mi basta denunciare la dissennata utilizzazione di antiparassitari che modificano l'equilibrio biologico e provocano irreparabili danni alla flora e alla fauna batterica e quindi all'agricoltura. Penso anche a quell'animale chiamato uomo: bruciato dal napalm, chiuso a imputridire nelle galere, gettato a morire di fame tra pietre sterili o isterilito sotto colate di cemento, sfruttato o umiliato. È vero che gli uomini hanno usato e usano lo sterminio e l'addomesticamento per dominare il regno della natura; ma è anche vero che i pochi che detengono il potere usano gli stessi metodi per dominare i molti - i loro simili.
Bisogna dunque salvare gli uomini per salvare la natura. Per salvare i pastori e i contadini sardi è stato deciso di portare nell'isola le industrie. Per stimolare i capitalisti lo stato e la regione hanno varato a tamburo battente un mucchio di leggi di incentivazione. Sono arrivate le petrolchimiche, quelle che costano di più, che impiegano meno manodopera, che danno maggiori profitti al padrone e che producono più danni all'ambiente, inquinandolo e desertificandolo. Non hanno salvato il pastore e il contadino e in più minacciano l'estinzione della flora e della fauna. E allora ecco arrivare i Parchi Nazionali, la nuova ancora di salvezza, l'ennesima truffa: dovrebbero "conservare" e "proteggere" ciò che resta della natura (ciò che il capitalismo non ha estinto e degradato dopo la rapina e l'inquinamento) e in quell'ambiente "sterilizzato" dovrebbe inserirci gli ultimi sardi-barbaricini, i sopravvissuti, costretti in una "riserva", da usare e vendere come elemento di folklore.
Non so dire quanto oggi possa opporsi il popolo sardo a questa nuova mossa coloniale della consorteria al potere. Il movimento anticolonialista e di opposizione, che ebbe alla fine degli anni sessanta i suoi momenti di maggiore forza unitaria e di più alta coscienza civile, attualmente è diviso e debole - e a ciò hanno contribuito una spietata repressione che ha criminalizzato le giovani leve e soprattutto il tradimento delle vecchie leve che si sono integrate nel potere, che si sono vendute al sistema parlamentaristico, che si sono staccate dal popolo, preferendo alla lotta di massa la più comoda e meno pericolosa lotta "legalitaria" all'interno delle istituzioni.