Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 95
ottobre 1981


Rivista Anarchica Online

Lavorate gente lavorate
di Piero Flecchia

Il nostro secondo Giovanpaolo, certamente mirabile uomo, poeta, sacerdote per sapienza e coraggio e intraprendenza in difesa dei miseri, è arrivato alla sua terza enciclica: dove ricapitola e ragguaglia il mondo circa le concezioni della chiesa cattolica sul "lavoro" e regioni limitrofe: famiglia, impresa, donna, stato, ecc.. Dovendo scrivere a ridosso dei fatti, e non essendo riusciti a procurarci le oltre cento pagine del testo, abbiamo cercato di ricostruirne il senso attraverso le magre citazioni e i pingui commenti dei quotidiani a grande tiratura della penisola che, in ragione dell'obiettivo che ci eravamo proposti, ci escono decisamente scornacchiati, e pure un poco "ricchioni" in rapporto al senso generale della professione dell'informazione democratica: attenta ed obiettiva.
Si passa infatti da posizioni di pura piaggeria, dove la palma spetta al Corriere: l'intervento personale del suo direttore impone la drammatica deduzione: "Come poteva il mondo andare avanti prima dell'enciclica papale? Ora finalmente capisco le ragioni degli scioperi e inflazioni e crisi di produttività e nella penisola e nel mondo!"; alle micragnose considerazioni della Repubblica il giorno dopo la glossa del Corriere: ora che finalmente è chiaro il discorso del Corriere, eccola passare a posizioni di micragnosa critica del testo papale nella versione "Corriere della Sera". Ci sono poi le teste fini: come sempre loro teste fini vedono i grandi problemi come problemi di politica estera. Per cui si domandano: "Che ne penseranno gli operai dell'Est? E i politici marxisti, ora come potranno ancora domare la classe operaia loro?". L'enciclica insomma per La Stampa di Torino, come per La Libertà di Piacenza o L'Ora di Palermo ha le sue origini nei fatti polacchi: per dare una mano ai quali il Papa spiega che il sindacato non deve fare politica; ed ecco il Cremlino fatto tranquillo, la donna ricevere uno stipendio come casalinga.... A prendere per attendibili nel senso le citazioni del messaggio papale riportate dai quotidiani, e fare un minimo di riflessione sopra agli incredibili commenti dei professionisti dell'informazione, le parole del Papa appaiono uno dei tanti pistolotti pirlottoni: l'ennesima presa in giro dei lavoratori, per i quali non cambierà niente. Lo scritto papale sarebbe cosa totalmente superflua, ergo pateticamente inefficace, in rapporto all'oggetto che si propone: la dignità del lavoro umano. Questa enciclica è una cosa assolutamente non necessaria, ma che cosa significa, che cosa implica e disvela l'opposto concetto di "necessario": valore che sembrerebbe, a lume della mia comprensione, esattamente antitetico alla "Laborem Exsercens"?
La definizione comune: Necessario è ciò il cui contrario è impossibile, oppure ciò che non può essere altrimenti - è soltanto una spiegazione verbale, una perifrasi del concetto che non contribuisce alla comprensione. Io invece propongo questa definizione reale: Necessario è ciò che deriva da una data ragion sufficiente; tesi che, come ogni giusta definizione può essere rovesciata... solo in quanto afferriamo qualche cosa come conseguenza di una data causa la riconosciamo necessaria, e viceversa. ... Assenza di necessità, sarebbe pertanto assenza di una determinante ragion sufficiente. Ma come opposto al necessario si pensa il contingente, il che non è in contrasto: ogni contingente infatti è tale solo relativamente, poiché nel mondo reale, dove unicamente si incontra il contingente, ogni avvenimento è necessario in rapporto alla sua causa, mentre in rapporto a tutto il resto in cui si imbatte nello spazio e nel tempo esso è fortuito. (A Schopenhauer, "Sulla libertà del volere umano", I, 1).

Il filosofo tedesco ci offre lo strumento logico-concettuale per decifrare quello che, per un mio stato d'animo, sono tentato di definire, con una scrollata di spalle a commento: "Aria fritta".
Ma la mia estraneità all'evento deriva dal non sentirmi coinvolto nel sistema di ragion sufficienti che fondano le strutture della cristianità da dove procede la "Laborem exsercens", e nelle quali strutture devono sentirsi profondamente implicati anche i giornalisti che giudicano da "laici" il testo papale. Qual è la ragione di fondo di quelli che condannano l'enciclica? Essa non sposa abbastanza la causa delle donne? Arriva in ritardo ad affrontare un problema fondamentale quale il lavoro? Non svolge a fondo la condanna alle multinazionali?
Siamo una volta tanto laici: la chiesa è forse al mondo per occuparsi del ruolo della donna, delle multinazionali, degli operai? A noi sembra che la chiesa racconti da sempre con laudabile coerenza di essere al mondo per le ragioni di un altro mondo: vero, unico, ultimo, e decisivo. Per essere bene accolti là, la chiesa ci prepara qui! E su questa materia bisogna riconoscere al papa e ai suoi una competenza che ci sembra molto maggiore e molto più meditata di quella dei vari Sbocca-baget.
Il luogo dal quale procede causalmente questa enciclica, come tutta l'azione della chiesa cattolica - come di ogni altra chiesa cristiana, marxista o musulmana - è la irrinunciabile necessità di un magistero docetico; del quale anche la detta enciclica è un momento. Questa affermazione: "irrinunciabile necessità del magistero docetico" non è nostra, ma è ribadita affermazione di papi, teologi, alti prelati. La qual affermazione, non casualmente, consuona con analoghe affermazioni marxiste, islamiche e di ogni altra fede messianica. Il magistero docetico però abbisogna di educatori, di maestri. Ecco come San Paolo, il teologo teorico del lavoro, vede il problema: Come l'attività dell'operaio serve a mantenere in vita la comunità fisica, così l'attività del sacerdote serve a mantenere in vita la comunità spirituale. Per cui, come Dio esige che sia pagata una giusta mercede all'operaio per il suo lavoro, così a maggior ragione, esige che la comunità mantenga degnamente il clero.
Ora, mentre non ci risulta che nella sua bimillenaria vicenda la chiesa abbia mai scomunicato datori di lavoro che scappavano con la cassa, scomunicò inesorabile intere comunità ree di non aver dato la giusta mercede al loro clero. E questo è il senso della scomunica, mai ritirata al liberalismo: che decise in toto di non pagare il salario ai preti cattolici, e così pure insegna il marxismo. Ma torniamo al passo di San Paolo, per i vari Sbocca-baget teologo della classe operaia. Egli, nella sua più celebre che studiata dottrina, traccia un sapiente parallelo, (dedotto per altro dagli evangeli - che però la dottrina delle fonti vuole posteriori agli scritti paolini) tra il comportamento del buon datore di lavoro e la comunità dei buoni credenti. Tecnicamente, una similitudine letteraria. Anche Omero è ricco di similitudini letterarie, del tipo: come un leone, come un fiume, come un serpente, come una giovenca, ma nessuno, fino a oggi si è sognato di affermare che Achille fu un leone, o Elena una giovenca: neanche gli esegeti biblici. Indaghiamo sulla similitudine di San Paolo, che fonda l'operaiologia di Giovan Paolo. Dice San Paolo: gli operai vanno pagati, perché così piace a Dio. Ma quando si smette di pagarli (cioè si reca offesa a Dio) che fanno gli operai? È legittimo credere che S. Paolo credesse che gli operai continuano a lavorare fino a morire d'inedia e di sfinimenti? Tutto si può dire di San Paolo, ma non che fosse fesso. Egli sapeva perfettamente che quella società che non paga gli operai è una società che va in malora: lo aveva detto chiarissimo. Ed ecco perché sceglie questa similitudine, per spiegare a tutte lettere il destino di una comunità che non mantiene i suoi preti: oggi gramscianamente si dice intellettuali organici, e ce n'è che stanno a Montecitorio e poi nei sindacati e poi nei comuni e negli enti locali. Ma torniamo alla similitudine letteraria: perché funzioni deve essere chiara non solo all'autore, ma anche ai lettori. Orbene, se si affronta da un testo competente - si vedano gli studi del prof. Mazzarino - la società grecoromana dell'epoca di San Paolo, si vedrà che da ormai almeno tre secoli il nesso tra benessere e salario adeguato era una conquista teorica su tutte le sponde del bacino mediterraneo; le cui popolazioni però si potevano dividere in due grandi blocchi:
a) gli orientali, nel cui ambito nasce il cristianesimo, che accettavano la presenza della figura dell'operaio, anche dalla parte operaia;
b) gli occidentali, che invece, come l'azione dei Gracchi macroscopicamente documenta, non accettavano la figura istituzionale dell'operaio. O meglio: i romani non volevano ridursi a lavoratori salariati; chiaramente non i senatori, e neanche la burocrazia imperiale che campava di salario: la massa delle plebi.
Ciò premesso, San Paolo riferendosi all'operaio, svolge una metafora letteraria il cui senso è chiarissimo a tutti.
Messo in chiaro che la teologia operaista di San Paolo è una nuda metafora letteraria, vediamo di decifrare la ragione della clamorosa incomprensione del fatto tra i cultori moderni. Evidentemente ai tempi bravi di Nerone, quando gli imperatori si divertivano a dar fuoco alle città, la scienza economica insegnava: "Paga l'operaio o finisci male". Poi accadde qualche cosa per cui solo ad Enrico Ford, forse dopo aver letto San Paolo, il fatto risultò ancora chiaro. E infatti Enrico Ford triplicò lo stipendio ai suoi. Ma tra Nerone e Ford non ci stanno duemila anni di bestialità pagana: ci stanno duemila anni di fulgida civiltà cristiana, dove si scambia la legge scientifica della giusta mercede al lavoratore per un comandamento divino; ovviamente disatteso, come tutti i comandamenti divini. Il problema è: "Perché San Paolo insiste sulla faccenda della giusta mercede all'operaio?". Formuliamo la domanda in rapporto alla teologia pagana, che sembra completamente ignorare il fatto: barbara teologia che abbandona l'essere umano, che è in ogni lavoratore, alla totale mercede del datore di lavoro. Ma le cose stavano proprio così?
Tutta la storia classica è storia di spietati conflitti tra una minoranza di ricchi e una maggioranza che rifiuta di farsi proletarizzare e servire da operaio ai ricchi. Ecco il senso del silenzio della teologia pagana sulla figura dell'operaio: essere in sé contro natura, perché nell'ambito di una comunità di uomini liberi nessuno può predare il lavoro di un altro, asservirlo a sé. Da qui lo schiavo, che è una preda, una vittima, una colpa manifesta e una vergogna pubblica. Ma se così stanno le cose, ecco che la schiavitù - nello zibaldone leopardiano il tema è svolto e chiarito - è una vergogna, e un danno sociale infinitamente minore rispetto alla presenza istituzionale di una classe operaia. Ma la Chiesa si occupa, per definizione, di un mondo a venire, per cui può anche vedere nel dolore presente della società il segno di un riscatto futuro.
La Chiesa può parlare senza vergogna dell'operaio. Può farsi perfino garante della necessità della figura dell'operaio per una buona esistenza sociale, per cui infine dalla parte del dominio si afferma e afferra la possibilità della legittimazione teorica della imprescindibile necessità del lavoro operaio. La fonte biblica è tassativa: "Ti guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte". Ma anche l'intellettuale organico suda, metaforicamente, ma suda, nell'anima, ma suda, all'ombra e in allegra brigata, ma suda. E poi dalla Chiesa viene il prete: che si deve occupare del sudore di tutti, mentre ognuno si impicci del sudore suo, ora che si è stabilito che essere operaio non è più una vergogna. Di passaggio abbiamo infine svelato il significato della violenta ripulsa presso i greci e i romani del lavoro manuale. Essi non aborrivano il fatto in sé, ma la fatica, l'assoggettamento della propria fatica fisica: della quale erano orgogliosissimi, al profitto altrui.
Intorno alla fine del secolo scorso, non solo per iniziativa di un certo Marx, ci si tornò a vergognare, e individualmente e collettivamente, di questo campare per diversi sudori; ci si tornò a vergognare della figura dell'operaio, e in fabbrica e come salariato agricolo, ma il rossore fu breve e passeggero. La civiltà cristiana, saldamente impiantata, questa civiltà che ci insegna vergognarci del nostro corpo e dei suoi desideri, che ci insegna ad umiliarci nel servire ora per glorificarci dopo, è riemersa in mille modi. Questa civiltà che ha voluto l'operaio al centro di tutti i processi sociali, lo ha cercato e reclamato fin dalle origini. Ed ecco che un papa torna a parlarne, e tutta la cialtroneria del bigottume sedicente laico, ora può spudoratamente affermare ancora la necessità di questa pubblica vergogna: il lavoro salariato. Ma come essi, gli Sbocca-baget possono capire la profonda abiezione della condizione del salariato? Non sono essi appunto tali?

Se abbiamo individuato lo scandalo profondo, dalla sponda dell'umano, che l'enciclica papale suscita, dobbiamo però ancora cogliere la causa che produce questa necessità di presenza operaia nel mondo; la organica necessità che impedisce di ravvisare nella figura dell'operaio un dato di scandalo e di vergogna per tutto il corpo sociale. Dalla parte di Giovan Paolo II, abbiamo visto, non vi sono problemi: egli conosce, opposto a un qui e ora, un altrove del quale il qui e ora è una sorta di necessario preliminare, ma perché l'occidente, a incominciare dal nefasto Costantino, accetta la vergogna di questo qui e ora? Supponiamo che ancora ci assalga, davanti al lavoro salariato, la collettiva vergogna degli antichi greci e romani. Che cosa verrebbe immediatamente messo in discussione, con il marasma del sindacalismo? Essenzialmente la complessa e proterva e appestante catena della meritocrazia; cioè il portato della struttura della catena della subordinazione gerarchica, mediante la quale le culture della dominazione si riduplicano e tramandano. Il salariato, l'operaio, è la figura centrale, fulcro della perpetuazione del sistema del dominio. Operaio e lavoro salariato reciprocamente si presuppongono e rimandano entro la logica della dominazione: essi garantiscono i dominatori circa il permanere nel loro dominio, ne sono il fondamento e la legittimazione. Infatti ora chi potrebbe proclamare il valore intrinseco al lavoro in astratto, così come accade invece per il prodotto dell'artefix: sia egli capace di produrre l'Apollo di Veio, o una più modesta figura ornamentale? Chi può ancora pensare la figura della stoffa o il taglio dell'abito come piacere di un disegno, che trascende la fatica del produrli? Ora che l'antecedente immediato del lavoro è la necessità del servire? Così come il funzionario di più alto grado non potrà produrre che lavoro subalterno e subordinato, così anche l'antico lavoro libero dell'artefix viene ora, mediante la perversione operaia, ridotto a servitù e servilismo. Come nasce, come si riproduce questa nefasta pestilenza? È un discorso che ci porterebbe troppo oltre.
Quel che qui ci preme sottolineare è il contenuto profondamente repressivo e radicalmente oppressivo di ogni discorso che ponga al centro la figura dell'operaio e la sua essenza nel sociale: il rapporto di lavoro salariato come nell'enciclica papale, perché discorso che mira solo e soltanto, non procedendo dalla necessità e urgenza di una radicale negazione della figura dell'operaio alla perpetuazione della schiavitù.