Rivista Anarchica Online
Lavorate gente lavorate
di Piero Flecchia
Il nostro secondo Giovanpaolo, certamente mirabile uomo, poeta, sacerdote per sapienza e
coraggio e intraprendenza in difesa dei miseri, è arrivato alla sua terza enciclica: dove ricapitola e
ragguaglia il mondo circa le concezioni della chiesa cattolica sul "lavoro" e regioni limitrofe:
famiglia, impresa, donna, stato, ecc.. Dovendo scrivere a ridosso dei fatti, e non essendo riusciti a
procurarci le oltre cento pagine del testo, abbiamo cercato di ricostruirne il senso attraverso le
magre citazioni e i pingui commenti dei quotidiani a grande tiratura della penisola che, in ragione
dell'obiettivo che ci eravamo proposti, ci escono decisamente scornacchiati, e pure un poco
"ricchioni" in rapporto al senso generale della professione dell'informazione democratica: attenta
ed obiettiva. Si passa infatti da posizioni di pura piaggeria, dove la palma spetta al Corriere: l'intervento
personale del suo direttore impone la drammatica deduzione: "Come poteva il mondo andare
avanti prima dell'enciclica papale? Ora finalmente capisco le ragioni degli scioperi e inflazioni e
crisi di produttività e nella penisola e nel mondo!"; alle micragnose considerazioni della
Repubblica il giorno dopo la glossa del Corriere: ora che finalmente è chiaro il discorso del
Corriere, eccola passare a posizioni di micragnosa critica del testo papale nella versione
"Corriere della Sera". Ci sono poi le teste fini: come sempre loro teste fini vedono i grandi
problemi come problemi di politica estera. Per cui si domandano: "Che ne penseranno gli operai
dell'Est? E i politici marxisti, ora come potranno ancora domare la classe operaia loro?".
L'enciclica insomma per La Stampa di Torino, come per La Libertà di Piacenza o L'Ora di
Palermo ha le sue origini nei fatti polacchi: per dare una mano ai quali il Papa spiega che il
sindacato non deve fare politica; ed ecco il Cremlino fatto tranquillo, la donna ricevere uno
stipendio come casalinga.... A prendere per attendibili nel senso le citazioni del messaggio papale
riportate dai quotidiani, e fare un minimo di riflessione sopra agli incredibili commenti dei
professionisti dell'informazione, le parole del Papa appaiono uno dei tanti pistolotti pirlottoni:
l'ennesima presa in giro dei lavoratori, per i quali non cambierà niente. Lo scritto papale sarebbe
cosa totalmente superflua, ergo pateticamente inefficace, in rapporto all'oggetto che si propone:
la dignità del lavoro umano. Questa enciclica è una cosa assolutamente non necessaria, ma che
cosa significa, che cosa implica e disvela l'opposto concetto di "necessario": valore che
sembrerebbe, a lume della mia comprensione, esattamente antitetico alla "Laborem
Exsercens"? La definizione comune: Necessario è ciò il cui contrario
è impossibile, oppure ciò che non può
essere altrimenti - è soltanto una spiegazione verbale, una perifrasi del concetto che non
contribuisce alla comprensione. Io invece propongo questa definizione reale: Necessario è ciò
che deriva da una data ragion sufficiente; tesi che, come ogni giusta definizione può essere
rovesciata... solo in quanto afferriamo qualche cosa come conseguenza di una data causa la
riconosciamo necessaria, e viceversa. ... Assenza di necessità, sarebbe pertanto assenza di una
determinante ragion sufficiente. Ma come opposto al necessario si pensa il contingente, il che
non è in contrasto: ogni contingente infatti è tale solo relativamente, poiché nel mondo reale,
dove unicamente si incontra il contingente, ogni avvenimento è necessario in rapporto alla sua
causa, mentre in rapporto a tutto il resto in cui si imbatte nello spazio e nel tempo esso è
fortuito. (A Schopenhauer, "Sulla libertà del volere umano", I, 1).
Il filosofo tedesco ci offre lo strumento logico-concettuale per decifrare quello che, per un mio
stato d'animo, sono tentato di definire, con una scrollata di spalle a commento: "Aria fritta". Ma la mia
estraneità all'evento deriva dal non sentirmi coinvolto nel sistema di ragion sufficienti
che fondano le strutture della cristianità da dove procede la "Laborem exsercens", e nelle quali
strutture devono sentirsi profondamente implicati anche i giornalisti che giudicano da "laici" il
testo papale. Qual è la ragione di fondo di quelli che condannano l'enciclica? Essa non sposa
abbastanza la causa delle donne? Arriva in ritardo ad affrontare un problema fondamentale quale
il lavoro? Non svolge a fondo la condanna alle multinazionali? Siamo una volta tanto laici: la chiesa è
forse al mondo per occuparsi del ruolo della donna, delle
multinazionali, degli operai? A noi sembra che la chiesa racconti da sempre con laudabile
coerenza di essere al mondo per le ragioni di un altro mondo: vero, unico, ultimo, e decisivo. Per
essere bene accolti là, la chiesa ci prepara qui! E su questa materia bisogna riconoscere al papa e
ai suoi una competenza che ci sembra molto maggiore e molto più meditata di quella dei vari
Sbocca-baget. Il luogo dal quale procede causalmente questa enciclica, come tutta l'azione della chiesa cattolica
- come di ogni altra chiesa cristiana, marxista o musulmana - è la irrinunciabile necessità di un
magistero docetico; del quale anche la detta enciclica è un momento. Questa affermazione:
"irrinunciabile necessità del magistero docetico" non è nostra, ma è ribadita
affermazione di
papi, teologi, alti prelati. La qual affermazione, non casualmente, consuona con analoghe
affermazioni marxiste, islamiche e di ogni altra fede messianica. Il magistero docetico però
abbisogna di educatori, di maestri. Ecco come San Paolo, il teologo teorico del lavoro, vede il
problema: Come l'attività dell'operaio serve a mantenere in vita la comunità fisica,
così l'attività
del sacerdote serve a mantenere in vita la comunità spirituale. Per cui, come Dio esige che sia
pagata una giusta mercede all'operaio per il suo lavoro, così a maggior ragione, esige che la
comunità mantenga degnamente il clero. Ora, mentre non ci risulta che nella sua bimillenaria
vicenda la chiesa abbia mai scomunicato
datori di lavoro che scappavano con la cassa, scomunicò inesorabile intere comunità ree di non
aver dato la giusta mercede al loro clero. E questo è il senso della scomunica, mai ritirata al
liberalismo: che decise in toto di non pagare il salario ai preti cattolici, e così pure insegna il
marxismo. Ma torniamo al passo di San Paolo, per i vari Sbocca-baget teologo della classe
operaia. Egli, nella sua più celebre che studiata dottrina, traccia un sapiente parallelo, (dedotto
per altro dagli evangeli - che però la dottrina delle fonti vuole posteriori agli scritti paolini) tra il
comportamento del buon datore di lavoro e la comunità dei buoni credenti. Tecnicamente, una
similitudine letteraria. Anche Omero è ricco di similitudini letterarie, del tipo: come un leone,
come un fiume, come un serpente, come una giovenca, ma nessuno, fino a oggi si è sognato di
affermare che Achille fu un leone, o Elena una giovenca: neanche gli esegeti biblici. Indaghiamo
sulla similitudine di San Paolo, che fonda l'operaiologia di Giovan Paolo. Dice San Paolo: gli
operai vanno pagati, perché così piace a Dio. Ma quando si smette di pagarli (cioè si reca
offesa a
Dio) che fanno gli operai? È legittimo credere che S. Paolo credesse che gli operai continuano a
lavorare fino a morire d'inedia e di sfinimenti? Tutto si può dire di San Paolo, ma non che fosse
fesso. Egli sapeva perfettamente che quella società che non paga gli operai è una società
che va
in malora: lo aveva detto chiarissimo. Ed ecco perché sceglie questa similitudine, per spiegare a
tutte lettere il destino di una comunità che non mantiene i suoi preti: oggi gramscianamente si
dice intellettuali organici, e ce n'è che stanno a Montecitorio e poi nei sindacati e poi nei comuni
e negli enti locali. Ma torniamo alla similitudine letteraria: perché funzioni deve essere chiara
non solo all'autore, ma anche ai lettori. Orbene, se si affronta da un testo competente - si vedano
gli studi del prof. Mazzarino - la società grecoromana dell'epoca di San Paolo, si vedrà che da
ormai almeno tre secoli il nesso tra benessere e salario adeguato era una conquista teorica su tutte
le sponde del bacino mediterraneo; le cui popolazioni però si potevano dividere in due grandi
blocchi: a) gli orientali, nel cui ambito nasce il cristianesimo, che accettavano la presenza della figura
dell'operaio, anche dalla parte operaia; b) gli occidentali, che invece, come l'azione dei Gracchi
macroscopicamente documenta, non
accettavano la figura istituzionale dell'operaio. O meglio: i romani non volevano ridursi a
lavoratori salariati; chiaramente non i senatori, e neanche la burocrazia imperiale che campava di
salario: la massa delle plebi. Ciò premesso, San Paolo riferendosi all'operaio, svolge una metafora
letteraria il cui senso è
chiarissimo a tutti. Messo in chiaro che la teologia operaista di San Paolo è una nuda metafora letteraria,
vediamo di
decifrare la ragione della clamorosa incomprensione del fatto tra i cultori moderni.
Evidentemente ai tempi bravi di Nerone, quando gli imperatori si divertivano a dar fuoco alle
città, la scienza economica insegnava: "Paga l'operaio o finisci male". Poi accadde qualche cosa
per cui solo ad Enrico Ford, forse dopo aver letto San Paolo, il fatto risultò ancora chiaro. E
infatti Enrico Ford triplicò lo stipendio ai suoi. Ma tra Nerone e Ford non ci stanno duemila anni
di bestialità pagana: ci stanno duemila anni di fulgida civiltà cristiana, dove si scambia la legge
scientifica della giusta mercede al lavoratore per un comandamento divino; ovviamente disatteso,
come tutti i comandamenti divini. Il problema è: "Perché San Paolo insiste sulla faccenda della
giusta mercede all'operaio?". Formuliamo la domanda in rapporto alla teologia pagana, che
sembra completamente ignorare il fatto: barbara teologia che abbandona l'essere umano, che è in
ogni lavoratore, alla totale mercede del datore di lavoro. Ma le cose stavano proprio così? Tutta la storia
classica è storia di spietati conflitti tra una minoranza di ricchi e una maggioranza
che rifiuta di farsi proletarizzare e servire da operaio ai ricchi. Ecco il senso del silenzio della
teologia pagana sulla figura dell'operaio: essere in sé contro natura, perché nell'ambito di una
comunità di uomini liberi nessuno può predare il lavoro di un altro, asservirlo a sé. Da qui
lo
schiavo, che è una preda, una vittima, una colpa manifesta e una vergogna pubblica. Ma se così
stanno le cose, ecco che la schiavitù - nello zibaldone leopardiano il tema è svolto e chiarito -
è
una vergogna, e un danno sociale infinitamente minore rispetto alla presenza istituzionale di una
classe operaia. Ma la Chiesa si occupa, per definizione, di un mondo a venire, per cui può anche
vedere nel dolore presente della società il segno di un riscatto futuro. La Chiesa può parlare
senza vergogna dell'operaio. Può farsi perfino garante della necessità della
figura dell'operaio per una buona esistenza sociale, per cui infine dalla parte del dominio si
afferma e afferra la possibilità della legittimazione teorica della imprescindibile necessità del
lavoro operaio. La fonte biblica è tassativa: "Ti guadagnerai il pane con il sudore della tua
fronte". Ma anche l'intellettuale organico suda, metaforicamente, ma suda, nell'anima, ma suda,
all'ombra e in allegra brigata, ma suda. E poi dalla Chiesa viene il prete: che si deve occupare del
sudore di tutti, mentre ognuno si impicci del sudore suo, ora che si è stabilito che essere operaio
non è più una vergogna. Di passaggio abbiamo infine svelato il significato della violenta ripulsa
presso i greci e i romani del lavoro manuale. Essi non aborrivano il fatto in sé, ma la fatica,
l'assoggettamento della propria fatica fisica: della quale erano orgogliosissimi, al profitto altrui. Intorno alla fine
del secolo scorso, non solo per iniziativa di un certo Marx, ci si tornò a
vergognare, e individualmente e collettivamente, di questo campare per diversi sudori; ci si tornò
a vergognare della figura dell'operaio, e in fabbrica e come salariato agricolo, ma il rossore fu
breve e passeggero. La civiltà cristiana, saldamente impiantata, questa civiltà che ci insegna
vergognarci del nostro corpo e dei suoi desideri, che ci insegna ad umiliarci nel servire ora per
glorificarci dopo, è riemersa in mille modi. Questa civiltà che ha voluto l'operaio al centro di tutti
i processi sociali, lo ha cercato e reclamato fin dalle origini. Ed ecco che un papa torna a
parlarne, e tutta la cialtroneria del bigottume sedicente laico, ora può spudoratamente affermare
ancora la necessità di questa pubblica vergogna: il lavoro salariato. Ma come essi, gli Sbocca-baget possono
capire la profonda abiezione della condizione del salariato? Non sono essi appunto
tali?
Se abbiamo individuato lo scandalo profondo, dalla sponda dell'umano, che l'enciclica papale
suscita, dobbiamo però ancora cogliere la causa che produce questa necessità di presenza operaia
nel mondo; la organica necessità che impedisce di ravvisare nella figura dell'operaio un dato di
scandalo e di vergogna per tutto il corpo sociale. Dalla parte di Giovan Paolo II, abbiamo visto,
non vi sono problemi: egli conosce, opposto a un qui e ora, un altrove del quale il qui e ora è una
sorta di necessario preliminare, ma perché l'occidente, a incominciare dal nefasto Costantino,
accetta la vergogna di questo qui e ora? Supponiamo che ancora ci assalga, davanti al lavoro
salariato, la collettiva vergogna degli antichi greci e romani. Che cosa verrebbe immediatamente
messo in discussione, con il marasma del sindacalismo? Essenzialmente la complessa e proterva
e appestante catena della meritocrazia; cioè il portato della struttura della catena della
subordinazione gerarchica, mediante la quale le culture della dominazione si riduplicano e
tramandano. Il salariato, l'operaio, è la figura centrale, fulcro della perpetuazione del sistema del
dominio. Operaio e lavoro salariato reciprocamente si presuppongono e rimandano entro la
logica della dominazione: essi garantiscono i dominatori circa il permanere nel loro dominio, ne
sono il fondamento e la legittimazione. Infatti ora chi potrebbe proclamare il valore intrinseco al
lavoro in astratto, così come accade invece per il prodotto dell'artefix: sia egli capace di produrre
l'Apollo di Veio, o una più modesta figura ornamentale? Chi può ancora pensare la figura della
stoffa o il taglio dell'abito come piacere di un disegno, che trascende la fatica del produrli? Ora
che l'antecedente immediato del lavoro è la necessità del servire? Così come il funzionario
di più
alto grado non potrà produrre che lavoro subalterno e subordinato, così anche l'antico lavoro
libero dell'artefix viene ora, mediante la perversione operaia, ridotto a servitù e servilismo. Come
nasce, come si riproduce questa nefasta pestilenza? È un discorso che ci porterebbe troppo oltre. Quel
che qui ci preme sottolineare è il contenuto profondamente repressivo e radicalmente
oppressivo di ogni discorso che ponga al centro la figura dell'operaio e la sua essenza nel sociale:
il rapporto di lavoro salariato come nell'enciclica papale, perché discorso che mira solo e
soltanto, non procedendo dalla necessità e urgenza di una radicale negazione della figura
dell'operaio alla perpetuazione della schiavitù.
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