Rivista Anarchica Online
Anch'io custode
A Giorgio Meneguz, autore dell'articolo "Io, custode" (pubblicato sull'ultimo numero di
"A") e a
tutti i compagni interessati a questo argomento.
Accolto l'invito alla discussione sulle nostre esperienze "circa la psichiatria" mi ritrovo, forse, in
posizione di chi delude le aspettative: dici la tua impotenza, accenni a situazioni più avanzate ed
io, con questa lettera, ti faccio fare un salto indietro, riportandoti là dove l'impotenza è
esasperata dalla mastodontica pressione dell'istituzione manicomiale. Da due mesi presto
servizio, come tirocinante non pagata, nell'ospedale psichiatrico di Pergine (Trento), struttura
moribonda che conta ancora circa cinquecento degenti più o meno cronici (non nel senso di
malati cronici, bensì di psichiatrizzati cronici), in cui non sono più permessi ricoveri e che
aspetta la morte di questi "residui psichiatrici". Residuo psichiatrico, leggi lungodegente
psichiatrico con sintomatologia ancora attiva (così vengono chiamati i degenti da certi
psichiatri illuminati).Cercherò di spiegare a te e agli altri compagni/e, a cui interessi, il motivo
di questa mia scelta.
Perché ho scelto di operare proprio in manicomio? Non riuscendo a concepire, nel contesto
attuale, un ruolo della psichiatria se non come principalmente repressivo, eventualmente
sintomatico ed accidentalmente terapeutico, sono mossa dal desiderio di conoscerne la forma
più brutale: il manicomio. Il manicomio dunque come forma originaria di repressione, da cui
sono nate le più recenti istituzioni, pardon, i più recenti servizi psichiatrici, diversi
apparentemente da ciò che li ha generati ma, credo, intimamente simili. Penso che l'unico modo
per sfuggire alla repressione psichiatrica sia il non ricorrere mai ad uno psichiatra, ad un
servizio. Con questo non voglio negare l'esistenza di situazioni angoscianti per la persona
portatrice di sintomi e per chi le sta intorno, angoscia esistenziale e relazionale che richiede,
con la sola sua esistenza, cambiamenti individuali, ma anche familiari e sociali (i tre, se non si
vuole seguire la logica del cambiare quel tanto che basta per non cambiare affatto sono, a parer
mio, inscindibili). Voglio piuttosto ribadire il solito, stanco, invito alla non delega: non
deleghiamo il superamento e la cura del disagio psichico a chi potrebbe tuttalpiù darci qualche
consiglio.Tutto questo ho detto perché è ciò che penso, è vero, ma l'ho
detto forse anche per non parlare
del manicomio. E non ne parlerò, se ne è già parlato troppo; non parlerò neppure
di chi più
direttamente ne subisce il peso mortale, né degli infermieri-secondini angosciati quasi quanto i
malati. Soltanto una cosa vorrei aggiungere: non essendo stata assunta da nessuno non mi viene
richiesta, ufficialmente, alcuna prestazione: contrariamente ai miei colleghi stipendiati (che non
hanno, meglio, non trovano il tempo per rapportarsi con chi sta loro vicino, riconoscendosi in
questo modo nel ristretto ruolo assegnatogli dall'istituzione, dal quale, peraltro, non possono
uscire se non rischiando il licenziamento) non sono tenuta a produrre, nessuna delega di potere
dunque, nessun tipo di potere ho all'interno dell'istituzione e questo, ovviamente, non mi dispiace
affatto. Più o meno tollerata dal personale psichiatrico, mi limito a fare l'unica cosa che mi
interessi realmente, cercare cioè di stabilire con i degenti (non avrebbe senso parlare di utenza
in questo caso: anche se i degenti fossero volontari lo sarebbero per forza) un rapporto
comunicativo: cercare di accettare, per riuscire a comprendere, la loro/mia angoscia operando
sulle mie stesse difese. Ciao.
Nelly Dujany (Padova)
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