Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 93
giugno 1981 - luglio 1981


Rivista Anarchica Online

Anarchia ora
di Gabriele R.

Alcuni compagni si sono posti il problema di votare o meno al referendum per l'aborto. Certo l'aborto è un problema che purtroppo riguarda anche noi, (è ben lungi il fatto che esistano rapporti sessuali liberati tra anarchici o con gli anarchici) però questi compagni mi devono spiegare se non è una contraddizione dirsi contro lo stato e le sue leggi e poi preoccuparsi se qualcuno vuole abrogare o mantenere una di queste leggi. Certo l'aborto è un problema umano e non un problema dello stato, ma non è proprio per questo che sta a noi scavalcare o meglio scalzare lo stato organizzandoci, legge o non legge, perché si possa abortire liberamente? Se ci proclamiamo contro lo stato ci poniamo automaticamente nella posizione di suoi nemici cioè di sovversivi, irrimediabilmente fuori legge. Non è il problema dell'aborto, però, che mi fa pensare, ma proprio l'atteggiamento dei compagni o di alcuni di essi. È secondo me un atteggiamento sintomatico, dolorosamente sintomatico direi. Non è solo una questione di metodo ma una questione ben più importante che coinvolge il modo stesso di vedere e di vivere l'anarchia.
È innegabile che noi si sia costretti a vivere una situazione di schizofrenia, obbligati come siamo, per sopravvivere, ad accettare il compromesso quotidiano del lavoro o meglio dello sfruttamento del nostro lavoro, ad accettare un sistema che si basa sul possesso, sul denaro e sulla scala di valori e di privilegi che questo sistema pretende e crea; ad accettare una società dello spettacolo dove anche la morte è oggetto di divertimento, che tende ad appiattire tutte le menti e le coscienze. È innegabile che noi si sia costretti a vivere quotidianamente il suplizio di Tantalo di chi brama libertà e ha in cambio solo violenza, soprusi e calci nelle gengive. Ma allora perché, e qui riporto un malessere che sento diffuso tra i compagni, tutto ciò non si concretizza in qualcosa di reale, di immediato, di tangibile? L'"anarchia ora", l'anarchia subito, l'anarchia come bisogno esistenziale prima che come bisogno politico. Tanti preferiscono dare la colpa a questa o quella tendenza esistenti nel movimento, che frenerebbe o devierebbe le lotte, gli intenti, ecc.. Ma la colpa è di chi non fa, non di chi agisce cercando di dare il suo apporto, efficace o inefficace che sia. Mi sembra di vedere quelli seduti dietro a Tom Sawyer mentre dipinge lo steccato, così prodighi di consigli, critiche sferzanti, lazzi e cazzi vari. Ma il problema non si può ricondurre a questioni di risentimento o di superbia, esso è molto più importante, secondo me, e radicale. In realtà il problema siamo noi, il nostro essere anarchici part-time, il nostro atteggiamento di delega anche rispetto a problemi, come per esempio l'aborto, che più di altri richiederebbero fatti diretti e non parole savie e volanti. Ci sono tanti elementi che contribuiscono a creare questa realtà forse più schizofrenica di quella che il sistema ci costringe a vivere, proprio perché quella di anarchici è una realtà che si vorrebbe accettata liberamente.
Il dubbio ha il valore dell'offesa quando non è suffragato da prove tangibili, ma me ne si permettano alcuni.
Primo dubbio, senz'altro il più importante: ma si vuole veramente l'anarchia? Bumm! Certo sembra uno sproposito, ma non può non venirmi di fronte a tanti atteggiamenti, di fronte soprattutto a un certo spirito di ineluttabilità, di "dolorosa rassegnazione" per cui ogni azione proposta è o utopistica o demagogica o scarsamente incisiva o poco aderente alla realtà o non rivoluzionaria e via di questo passo. Noi non siamo immuni dagli allettamenti che il sistema ci offre per metterci la corda al collo e, se da una parte è vero che "vivere bene" non è un privilegio o una prerogativa di una società basata sullo sfruttamento, dall'altra non possiamo dimenticare che fino a che questa possibilità di "vivere bene" ci viene offerta dal sistema essa è soggetta alla sua legge di sfruttamento. Nessuno vuole una società anarcospartana, ma la possibilità di edificare una società anarco-benestante nasce solo da due elementi: l'abbattimento di chi attualmente privilegia a sé la possibilità di "vivere bene" e soprattutto la costruzione di un'altra società dove "vivere bene" sia un elementare diritto, ben diverso da quello che il sistema ci offre adesso. In parole povere non ha senso fuggire da una casa perché infestata dai topi senza sapere se si andrà in una casa infestata dai serpenti o se addirittura questa casa esiste.
Non credo che basti lo spirito di rivolta generato dal sentirsi sfruttati a permetterci di costruire l'anarchia. Una società anarchica non è il rovescio della medaglia di una società di potere, ma è una cosa ben più complessa e comunque molto, ma molto diversa. Resta poi da vedere - e questo è il secondo dubbio - se nel momento in cui il dolore provocato dalla coscienza di essere sfruttati diventa un po' più labile, con una maggiore disponibilità economica, con un lavoro che può "piacerci", con queste e mille altre "soddisfazioni" che il sistema ci "regala", resta da vedere dicevo, se c'è ancora tanta voglia di ribellarsi. Resta da vedere insomma fino a che punto la nostra anarchia è un moto di ribellione a soprusi che riceviamo o un bisogno ben più profondo di costruzione di una esistenza diversa, completamente diversa. In fin dei conti noi viviamo in una società di relativo benessere, i nostri problemi sono sempre più spesso esistenziali che materiali. E se fossimo nati in Africa o in qualsiasi altro Paese del Terzo Mondo? In qualsiasi caso l'edificazione della anarchia non può essere vincolata al grado di sfruttamento a cui siamo sottoposti, altrimenti tutto si ridurrebbe a una questione di bisogno individuale immediato di liberazione. Passata (almeno apparentemente) l'angoscia di essere sfruttati, passato il bisogno di anarchia? In questo lo stato è ancora molto interiorizzato in noi.
Esistono molti luoghi comuni che, come tutti i luoghi comuni, hanno in sé un fondo di verità e tantissima generalizzazione. Questi luoghi comuni emergono ogni momento nei nostri gesti, nelle nostre parole, nel nostro modo di pensare. Più che luoghi comuni li si potrebbe chiamare "standard". Standard comportamentali, standard di linguaggio, standard mentali. Essi sono un altro "regalo" che il sistema ci ha fatto e ci fa, preoccupandosi, fin dalla nascita, di pensare lui per noi, di predigerirci le idee, i gesti, le parole. Forse è il "regalo" più pericoloso perché porta con sé due elementi ben precisi che emergono anche nel nostro essere anarchici: il primo - e più evidente - è la perdita della capacità o dell'abitudine di essere noi stessi, con la conseguenza di ragionare per standard, parlare per standard, vivere per standard, per cui la nostra mente ha bisogno di stereotipi, di parametri su cui appoggiare il proprio ragionamento. E il secondo ancora peggiore è il bisogno che qualcuno crei questi standard, che ci dica come fare, come parlare, come pensare e poi cosa fare, cosa dire, cosa pensare. In fondo è comodo, non si fa fatica, c'è chi ti premastica e ti predigerisce i problemi e poi paf! ti spiattella lì la soluzione o più soluzioni di modo che si può anche scegliere, che democrazia! E tutto ciò si avverte anche fra noi. Qual è il problema, l'aborto? Dov'è il tecnico? Dov'è lo specialista? Dov'è quello che ha studiato il problema? Lui sa, lui è preparato. Ma ad essere incinta sono io grazie al mio "partecipe" compagno? Chiedi al tecnico, lui ha la soluzione. Ma non ci si potrebbe organizzare? Non si può: è utopistico, non ci sono i mezzi. È una esagerazione?
Veniamo ora, anche se si potrebbe e dovrebbe andare avanti in questo discorso, ad un altro aspetto del problema "anarchia ora": il progetto anarchico. Il progetto o i progetti? Credo che ognuno ne abbia nel cassetto del comò o della testa almeno uno. Il che non è neanche un male dato che noi non siamo un partito che deve presentare un programma elettorale. Il problema, secondo me, sta nella visione della realtà, non nel progetto che gli si vorrebbe applicare, quello semmai è un fattore conseguente, non antecedente. Credo che sia chiaro a tutti che la possibilità di edificare una società anarchica non sia dietro l'angolo, il che non vuole dire che non esista la possibilità di cominciare a farlo. Oppure vogliamo ricondurre il problema al fatto se questa edificazione debba cominciare prima dopo o durante l'abbattimento del sistema? L'edificazione dell'anarchia non è un problema di metodo, ma un bisogno impellente. Ora se c'è qualcuno che pensa "o tutto subito o niente" è meglio che si metta il cuore in pace e lasci perdere: eviterà così anche penose discussioni sulla sua... buona fede. Il problema è che parecchi compagni pensano sempre più spesso che non sia più possibile cominciare anche dal minimo. Questo - secondo me - per vari motivi. Le ragioni "esistenziali" le abbiamo viste prima. Altri invece si stanno convincendo che il sistema ha chiuso o sta chiudendo tutti gli spazi, che ci avviamo o che già siamo tra le mura di un'unica enorme prigione che ha scritto sul cancello "stato italiano". Altri ancora pensano che se non esiste prima un progetto preciso, uno studio più che approfondito di tutti i problemi, un'analisi precisa della realtà, delle possibili forme di organizzazione, delle possibili forme di difesa dalla repressione del sistema, ecc. non si possa sviluppare niente di concreto e soprattutto di effettivamente incidente sulla realtà stessa. C'è qualcosa di vero in ognuna di queste posizioni, ma, secondo me, tutte prescindono da un fatto molto importante, cioè che oggi come oggi pochi provano o hanno provato ad applicare le idee anarchiche alla realtà oggettiva: applicarle in senso pratico, voglio dire, e non in modo simbolico, o se vogliamo "politico" in funzione emancipativa, come se la propria emancipazione non passasse proprio dalla applicazione immediata, pratica e quotidiana dell'anarchia che professiamo. Allora è chiaro che non può che sembrare un paradosso il fatto che esista una pubblicistica anarchica così sviluppata rispetto ad un movimento che lo è molto meno. Per di più, mentre cresce l'atteggiamento di delega rispetto ad essa da parte dei compagni; "teorizzare per teorizzare è meglio che lo faccia chi ne è capace: chi sa scrivere, chi è più preparato, chi ha la mente più elastica, chi (sic!) è più 'intelligente'". Certo, ci si può "specializzare" in qualche settore dove i problemi immediati e pratici possono essere ancora molto legati alla realtà oggettiva, come le carceri, l'antimilitarismo, o la "cultura", e il resto? Chi rifiuta l'asindoto che non ci sia più niente da fare perché adesso è la repressione dello stato il problema principale, cosa deve fare?
L'anarchia è una realtà molto più bella degli anarchici, ma dato che non può evidentemente esistere senza di loro è giusto che si faccia i conti con le nostre possibilità. Non sto giocando a buttar merda sui compagni, ma neanche possiamo mettere le fette di salame sugli occhi per non vedere questa realtà che, pur con mille sfumature, ci sta davanti. Ma poi cosa significa "il resto"? Cos'è che realmente è possibile fare? Quali spazi ancora ci restano in cui seminare quella "gramigna sovversiva" che è l'anarchia? Si può iniziare con un aneddoto. Alcuni mesi fa discutendo con un compagno della tipografia di Carrara mi fece un discorso che al momento mi fece incazzare, forse perché punto nell'orgoglio di "redattore", che suonava più o meno così: "A me non frega gran che di quello che leggo nelle pagine della nostra stampa che passano nella mia rotativa, quello che per me è importante è dimostrare che si può lavorare, sopravvivere e vivere in modo anarchico e cioè senza padroni, facendo un lavoro in modo umano, provando piacere e anche orgoglio per quello che faccio, riuscendo ad avere un rapporto paritario con i compagni con cui divido questo lavoro. Quello che mi sta a cuore, se vogliamo metterlo su un piano politico, è mostrare e dimostrare che esiste una realtà completamente diversa che può vivere sotto il segno della libertà sia su un piano economico, sia su un piano sociale sia su un piano esistenziale". Aveva ed ha ragione. Ogni aspetto della nostra realtà quotidiana ha il suo corrispettivo anarchico. Proprio perché siamo un movimento irrimediabilmente sovversivo, irrimediabilmente fuori legge, abbiamo il "dovere" di costruire la nostra realtà al di là e al di fuori di quella che è la realtà stato. Secondo me, il resto è paura di costruirla questa realtà. Se non vogliamo, al prossimo referendum, ritrovarci a discutere se votare o no, perché l'aborto è una cosa che riguarda anche noi. Tutto riguarda anche noi. Non dobbiamo dimostrare che può esistere una forma di lavoro diversa da quella di chi sfrutta e si fa sfruttare, dobbiamo costruire e organizzare una forma di lavoro diversa da quella. Non dobbiamo dimostrare che esiste una forma di comunicazione diversa da quella alienante dei mass-media o autoritaria dei rapporti interpersonali di questa società, dello spettacolo, dobbiamo vivere e costruire una forma di comunicazione diversa. Non dobbiamo dimostrare che esiste una forma di abitabilità delle città, del territorio diversa da quella mostruosa delle città dormitorio o delle campagne bruciate dai fitofarmaci, dobbiamo creare delle città fatte per gli uomini o se occorre distruggerle. Non dobbiamo raccontare come sarà o come sarebbe bella l'anarchia, dobbiamo cominciare a viverla. L'"anarchia ora" è molto meno lontana di quello che sembra, chi è lontano sono gli anarchici. Eppure di possibilità, secondo me, ce ne sono ancora tantissime. Non possiamo arrestarci atterriti perché vediamo quanto, parallelamente a noi, e mille volte più di noi, si evolve il potere.
Certo che se i problemi non sono quelli che ci pone il come organizzarsi, ma ancora quelli del come aggregarci, dell'affinità, della paritarietà dei rapporti, allora non si può parlare di movimento anarchico, ma di momentanea ed eterogenea aggregazione di individui anarchici. Certo può sembrare poca cosa, e forse un po' egoistica, il preoccuparsi di tentare di risolvere dal minimo e dal quotidiano il problema della liberazione degli sfruttati, ma credo proprio che quando si parla di esempio dei fatti non ci si possa riferire che a questo.

Tutto può sembrare poco efficace di fronte alla massa minacciosa dello stato-moloch, tutto può sembrare facile preda della repressione, tutto può sembrare, ma almeno è qualcosa di concreto che può sembrare e non un vuoto possibilismo o impossibilismo, fatto di ma, di se, di forse, ecc.. Qualcuno potrà obiettare: "Già, ma alla fine non dici quali sono questi spazi, quali possibilità ci sono di costruirla questa 'anarchia ora', dove, come, quando"; forse sto solo mettendo le mani avanti, ma non servirebbe questo intervento se alla fine fosse corredato da un elenco di ciò che "si può fare". Certo è un buon utilizzo, secondo me, della stampa anarchica quello che presenta questi spazi, li propone su un piano concreto (non ho paura dei vademecum quando sono controinformazione) ma preferirei certamente che su cinquantadue pagine di questa rivista, quaranta fossero occupate dalle "cronache sovversive" al di là della "funzione" o del valore che la redazione voglia dare loro.