Rivista Anarchica Online
La lingua biforcuta
di Ugo Dessy
L'attuale dibattito sulla lingua sarda è vivacizzato da una proposta di legge di iniziativa popolare,
lanciata il 16 gennaio 1978 da alcuni intellettuali di estrazione politica diversa. Si tratta di un
dibattito, peraltro vecchio di almeno un secolo, svolto in termini e a livelli accademici, per lo più
strumentalizzato per fini elettoralistici, molto spesso vuoto o inconcludente, dal quale sono
assenti le componenti sociali che più contano, contadini e pastori - i quali pure conoscono e
usano abbastanza bene la lingua sarda. La prima e più immediata valutazione che si ricava è che
le linee ideologiche e politiche di
questo dibattito sono contraddittorie e a volte inconciliabili tra loro: in esso, infatti, si configura
un fronte anticolonialista composito, disarticolato, velleitario che ha come unica base comune
una idealistica difesa dei valori culturali del popolo sardo. La seconda e più meditata valutazione
su questo dibattito deve essere riferito alla utilità d'uso che il popolo sardo può farne nella propria
lotta di liberazione. Più precisamente, per me, valutare i fatti significa sempre distinguere ciò che
è del popolo, da ciò che gli è estraneo, ciò che è rivoluzionario, da
ciò che è riformistico o
demagogico, ciò che è espressione di elaborazioni astratte e idealistiche di intellettuali e politici,
da ciò che è espressione concreta della realtà del popolo e della sua esigenza di
crescita. Ora, a leggere molti degli interventi nella stampa, sia apologetici sia denigratori, sulla questione
del bilinguismo in Sardegna, mi è spesso venuta in mente l'espressione che, secondo certi
fumetti, gli indiani riservano al viso pallido: "Voi parlare con lingua biforcuta!" - dove
evidentemente l'attributo biforcuta non è riferito alla forma ma al contenuto. E si potrebbe a
ragione dedurne che la lingua dei bianchi è di per sé biforcuta, in quanto esprime una
mentalità
infida, predatoria, contorta. Al contrario di quella indiana, primitiva ma leale e schietta che si
esprime, come si dice da noi, in limba deretta. Sembrerebbe cioè - in base ad una analisi e
etico-politica corretta - che nei rapporti conflittuali tra uomini, o gruppi di essi, esistano
necessariamente due lingue diverse: quella biforcuta di chi opprime e quella diritta
di chi è
oppresso. Anche dove apparentemente esiste una sola lingua, come all'interno di una stessa
nazione, in realtà anche lì emergono e si contrappongono due lingue diverse: quella del potere,
ufficiale accademica, letteraria, tipica dei codici e dei tribunali; e quella popolare, spuria,
illetterata, volgare, tipica della miseria dei ghetti, della disperazione delle galere. Così come all'interno
di una stessa nazionalità esiste un rapporto conflittuale tra classi egemoni e
classi subalterne e quindi tra lingua culta e lingua volgare - è il primo termine
di paragone di una
equivalenza che prosegue - così pure esiste un rapporto del genere tra nazione colonizzatrice e
nazione colonizzata, tra lingua civile di quella e lingua barbarica di questa. Certamente,
i
rapporti che intercorrono tra l'oppressore e l'oppresso, tra le rispettive culture, non sono così
nettamente in conflitto, come lo sono nei momenti storici di più acuto scontro di interessi. Dalla
parte dell'oppresso, per comprensibili meccanismi psico-sociali, c'è il tentativo, sollecitato in
certe misure e forme dallo stesso oppressore, di assumere la lingua e la cultura del modello
egemone, di identificarsi in qualche modo con il vincitore, nell'illusione di uscire dalla propria
miserabile dimensione. Si tratta, appunto, di quel processo di liberazione senza sbocchi
dell'integrazione, o assimilazione, tipico non soltanto del colonialismo extrametropolitano ma
anche del colonialismo interno. Fenomeno cioè che tende a verificarsi in ogni rapporto tra forze
privilegiate al potere e forze degradate sottomesse al potere. La lingua (e la cultura) dei Sardi, in quanto esprime
la realtà di un popolo oppresso e la necessità
di liberazione, si oppone alla lingua (e alla cultura) italiana, che esprime la realtà di uno stato e di
classi che esercitano il dominio e l'oppressione. La loro diversità, l'intensità del loro essere per
confrontarsi e scontrarsi, sono dati e determinati dai diversi interessi economici e politici in
gioco. A differenza di come qualcuno pensa, il paese colonialista, o le classi al potere, non hanno
alcun interesse a far scomparire la lingua (e la cultura) del paese colonizzato, o del popolo
sottomesso, per sostituirla con la propria. Così come si potrebbe fare con un abito, magari usato.
Non hanno alcun interesse e non possono farlo neppure volendolo - se non eliminando
fisicamente quel popolo. E allora, chi la lavorerebbe la terra? chi produrrebbe per i padroni? Il
potere colonialista, o delle classi egemoni, si avvale della maggiore forza tecnologica e militare
per imporre la superiorità della propria cultura. Non distrugge tuttavia, come si è detto, la cultura
e le tradizioni del popolo colonizzato, o assoggettato, ma le conservano in forme rudimentali,
vili, folcloriche - in tal senso anzi sviluppandole. La lingua dei Sardi è stata deliberatamente
conservata in forme degradate, per dimostrare con la sua arretratezza la maggiore validità
dell'italiano, lingua civile dell'egemonia. E se è vero che la lingua sarda ha saputo esprimere,
in
momenti di dignità politica del suo popolo, "l'inno contro i feudatari", è anche vero che in
momenti oscuri ha cantato l'inno della truppa ascara in guerra, il "Deus salvit su Rei". Rileviamo
così che nei momenti storici di passiva accettazione della servitù del nostro popolo, la sua cultura
viene utilizzata dal potere italiano in funzione patriottarda, valutata con attributi di fierezza,
dedizione, fedeltà e così via. Mentre nei momenti di maggiore coscienza civile, da un lato il
potere italiano relega la cultura sarda a livello di rendimento barbarico, negandole ogni
possibilità di uso e di sviluppo civile, e da un altro lato il nostro popolo tenta una
riappropriazione integrale della propria cultura, lingua e tradizioni, opponendole con rinnovata
energia e ritrovata dignità a quelle del "nemico".
La lingua non è tutto nel rapporto conflittuale tra oppresso e oppressore. È soltanto un aspetto,
e
per di più indotto da altri aspetti, squisitamente economici e sociali, del complesso insieme che
caratterizza appunto lo scontro sempre aperto tra colonizzato e colonizzatore. Affermando e
sostenendo l'uso della sua lingua non si sviluppa il popolo nel suo insieme di carattere e di
esigenze di crescita - come non si svilupperebbe armonicamente un corpo umano potenziando un
solo arto: la logica ci dice che agendo così su un organismo depresso gli creeremo maggiori
squilibri. Ho sostenuto, in diverse occasioni, che una operazione di difesa della lingua sarda,
sganciata da una lotta di liberazione totale, può comportare più danni che benefici. Un eventuale
riconoscimento-legalizzazione da parte del potere italiano può significare l'istituzionalizzazione
della lingua sarda in posizione subalterna. Può anche significare la modificazione della lingua del
popolo in lingua ufficiale, in lingua di potere: una modificazione che la corromperebbe,
vuotandola di tutti i contenuti rivoluzionari che le sono propri in quanto patrimonio
dell'oppresso. Questa lingua, usata dal sistema, nelle sue istituzioni, non modificherebbe la
sostanza e i fini violenti e oppressivi di queste stesse istituzioni. Il popolo finirebbe per
rifiutarla, come espressione di un potere che aborre. Se ne creerebbe un'altra. Il caso del sindaco
di Bauladu - su cui i sardisti si sono fatti belli spacciandosi per martiri - non ha alcunché di
rivoluzionario. Il sindaco di Bauladu ha giurato fedeltà allo stato italiano, si è assoggettato al
potere del colonialista, in qualunque lingua lo abbia fatto. È comunque un atto di obbedienza,
di
sottomissione, un osculum obscoenum. Ich mein dass baciare il culo in sardu o in atra limba c'est
la même chose. Finché i sardisti condividono il potere con il colonialista e insieme a questo
compartecipano agli utili, essi sono nemici del popolo sardo. Per il popolo, riappropriarsi della sua lingua
significa liberarsi dallo sfruttamento economico e
dalla oppressione culturale e politica. Ancor più chiaramente, riappropriarsi della sua lingua,
significa riappropriarsi della sua terra, del suo patrimonio naturale e delle sue originali strutture
economiche e dei suoi fondamentali istituti sociali. E contemporaneamente il rifiuto della lingua
dell'oppressore nel rifiuto delle sue istituzioni e delle sue leggi. E a ben guardarci, è ciò che
il
popolo sardo fa già, per quanto può farlo. E allora dico agli intellettuali e ai politici in fregola
di
sardismo: prima di cominciare a parlare tutti quanti in sardo, è il caso di chiudere la bocca e
muovere le mani per tutto il tempo necessario a buttare a mare i Moratti, i Rovelli e le loro
petrolchimiche, i generali e le loro basi con tutte le armi, governanti e amministratori di ogni
risma, prefetti e provveditori e questori e commissari e carabinieri e gabellieri e preti e finanzieri
e magistrati e accademici e antropologi e sociologi e storiografi e venditori di fumo e politici e
sindacalisti e ogni altra mala genia con la vocazione di comandare, rubare, uccidere, truffare,
rappresentare il suo prossimo.... È necessario ribadire che mai un popolo oppresso potrà
riappropriarsi della sua cultura, stando e
muovendosi all'interno delle istituzioni del sistema oppressore. La riappropriazione della sua
cultura può aversi soltanto se correlata e contemporanea al processo di liberazione globale. La
presa di coscienza della propria realtà di sfruttato è, nell'oppresso, contemporanea alla sua lotta di
liberazione. È anche necessario ribadire che la teorizzazione della lotta di liberazione di un
popolo non può essere demandata al filosofo, al politico, all'educatore, all'intellettuale. È il
popolo stesso che, nel momento in cui il suo livello di coscienza e la situazione storica glielo
consentono, agisce, si libera, teorizzando la propria liberazione. Nel popolo c'è chiaramente il
rifiuto di ogni teorizzazione esterna (di ogni legge scritta), perché queste muovono sempre da una
astrazione della realtà fatta da provveduti (oppressori) esterni (invasori) al fine di
istituzionalizzare e sacralizzare, rendendolo immutabile nel tempo, il binomio oppressore-oppresso. Anche le
teorizzazioni che scaturiscono da analisi corrette e che sembrano porsi fini
rivoluzionari hanno sempre una natura paternalistica, autoritaria e idealistica, e si scontrano
sempre, prima o poi, nella pratica, con la coscienza, con la volontà, con gli obiettivi del popolo.
Il popolo agisce, non teorizza - come l'uomo si realizza vivendo, non teorizzando la vita. E qui, se il lettore me
lo consente, torniamo agli indiani. Ciò che dal fumetto non si ricava
esplicitamente è che quando Toro-seduto e il suo stregone avessero ordito in combutta qualche
inghippo ai danni della loro tribù, anche essi, sia pure in limba indiana, avrebbero
parlato con
lingua biforcuta - e qualunque squaw avrebbe potuto rinfacciarglielo, haug! Credo
sia chiaro che
cosa voglio dire: anche in lingua sarda si può essere biforcuti - se chi la parla è
un viso pallido,
uno sporco borghese compradore. Esprimendosi con lingua diritta, è precisamente quel
che penso della maggior parte dei
politicanti che hanno dato la stura alla polemica sulla lingua, talvolta arrabattandosi a parlare e a
scrivere una lingua che non è la loro. Forse questi signori non si rendono conto che una cosa è la
lingua parlata dal popolo che sacrifica la vita lavorando per ingrassare i padroni e i suoi lacché; e
ben altra cosa è la lingua sarda parlata dalla borghesia compradora - politica, intellettuale o
mercantile che sia - che la utilizza per farsi bella agli occhi del popolo e farsi dare una spinta
nella scalata al potere. A questi signori che si sono scoperti oggi, in età di climaterio, la
vocazione anticolonialista e nazionalitaria, che si esibiscono in limba per assomigliare ai pastori
e ai contadini, ma vivono in lussuose ville e storcono il naso all'odore di una pecora; a questi
signori che in qualunque idioma si esprimano parlano sempre in lingua biforcuta, che è la
lingua
del potere, si può anche dare un nome, democristiani o comunisti, sardisti o gruppuscolari: sono
tutti servi del padrone continentale. Quando alcuni di questi signori sostengono che, legalizzando l'uso
della lingua sarda nelle
istituzioni dello stato italiano, essi stanno facendo la rivoluzione per il popolo sardo, mentono
sapendo di mentire. La rivoluzione non la si fa entrando in quei vecchi casini che sono i partiti
politici - l'istituzione statalista mediante la quale i ceti borghesi e intellettuali si avvicendano
nella gestione del potere, ed è la copertura democratica per ingannare il popolo - per fotterlo con
il suo stesso consenso. La sua rivoluzione il popolo se la deve fare da sé - quando la vorrà fare.
Intanto, il diritto a parlare la sua lingua, il popolo se lo è già conquistato e nessuno può
levarglielo. E sono certo, non ci tiene affatto a sentir parlare nella sua lingua padroni e politicanti,
giudici e poliziotti, professori e preti: figurarsi la gioia di un pastore come Giuseppe Mureddu,
sentirsi torturare e massacrare da commissari e poliziotti che parlano in sardo! Il diritto a parlare la mia lingua,
come quello di pensare con la mia testa, non può essermi negato
in alcun modo - nel momento che la uso per esprimermi e realizzarmi come uomo, come sardo,
come componente di una comunità oppressa. Come tutti i sardi parlo il sardo insieme alla mia
gente. E con gli stranieri, parlo l'italiano o il francese o il tedesco per farmi capire, quando essi,
più ignoranti di me, non comprendono la mia lingua. E quando parlo per dire le mie ragioni, non
mi importa quale lingua esprima queste ragioni: purché siano capite da chi voglio che le senta.
Non mi batto dunque per parlare nella mia lingua, per un diritto che già possiedo e uso. Mi batto
per il diritto di sparlare nella mia lingua e in qualunque altra io sia capace. L'essenziale è la
libertà delle idee, la libertà di pensare con la mia testa - non la libertà formale, e peggio
ancora
imposta dalla legge, di usare la mia lingua per dire quel che mi fa dire la volontà dei padroni.
A
meno che non mi si voglia convincere che legalizzando l'uso della lingua sarda, io e la mia gente
possiamo finalmente dire in "sardo ufficiale" e con "limba deretta" tutto quello che pensiamo di
quella manica di furfanti, di ladri, e di assassini al potere, facendo nomi e cognomi, senza finire
in galera o sotto qualche scarica di mitra di un provocatore travestito da sbirro o da brigatista.
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