Rivista Anarchica Online
Ma Napoli trema ancora
di Centro redazionale della provincia di Napoli
Dopo poco più di due mesi da quel tragico 23 novembre 1980 il ricordo del terremoto sembra
farsi più labile, i suoi contorni paiono sbiaditi. Le emozioni, le paure, la costernazione, i
sentimenti di solidarietà, così forti all'indomani della tragedia, sembrano dileguarsi come la
prima nebbia in autunno. Anche i grandi mezzi di comunicazione non ne parlano quasi più, la
grande stampa relega le poche notizie nelle pagine interne; se si ritorna su quanto è accaduto lo si
fa solo con toni strappalacrime e con accenti pietistici. Anzi sul dopo terremoto e sulla
ricostruzione, sulla gestione dei fondi stanziati, sulla spartizione di tanti miliardi, sulle lotte a
coltello tra opposti gruppi di potere il silenzio è d'obbligo, in modo che la piovra dai mille
tentacoli del sistema di potere nel sud possa "lavorare" meglio, aumentando la sua forza e la sua
capacità di penetrazione. A scorrere un po' tutti i giornali pare che la situazione nelle zone
terremotate sia tornata alla normalità e quindi quella operazione di rimozione di tutto ciò che
causa fastidio e dolore può essere felicemente condotta in porto. E poi si tratta sempre del
profondo sud, "dell'altra Italia", di zone cioè considerate di peso all'economia e allo sviluppo del
paese. Quindi della loro sorte non c'è da preoccuparsi più di tanto. In realtà le cose
stanno diversamente: solo ora comincia a delinearsi la gravità del disastro e ci
vorrà ancora del tempo, occhi bene aperti e disponibilità a capire per valutare totalmente la sua
portata. Il piano di sgombro previsto da Zamberletti ("l'arretramento a valle") è in parte fallito, i
legami con la terra sono troppo forti, i più sono rimasti per recuperare quanto era recuperabile,
per badare alla terra e alle bestie. Altri hanno preferito emigrare o in paesi europei o addirittura
oltreoceano. Lo stato con "generosità" ha pagato loro il biglietto, di sola andata sia ben chiaro,
per la destinazione prescelta. Da così lontano, anche se può sembrare paradossale, hanno
maggiori speranze di tornare in un futuro più o meno lontano, ritrovando magari, in piccolo, la
comunità del proprio paese, e il calore dell'ambiente perso sotto le macerie. È segno tutto questo
di una profonda atavica sfiducia nello stato: diffidenza storicamente giustificata, umanamente
comprensibile e legittima da ogni punto di vista. Uno stato estraneo ed ostile che si ricorda di
queste genti quando c'è da far pagare loro le tasse, quando c'è da mandare i giovani sotto le armi
e quando c'è bisogno di manodopera a basso prezzo in altri punti del paese. Uno stato che anche
in stato di calamità manda nei paesi colpiti prima i suoi ministri e i suoi rappresentanti, poi i suoi
generali infine i soccorsi male organizzati. Uno stato che si preoccupa di impedire e di bloccare
ogni iniziativa autonoma, tendente allo sviluppo di queste zone, e che tiene legata a sé,
totalmente dipendente, grazie al sistema delle pensioni, che concede con la mediazione dei
notabili locali veri e propri padroni assoluti legati a doppio filo a pratiche camorristiche che
neanche in queste occasioni vengono meno, anzi, sembrano rafforzarsi proprio nel dolore e sulla
miseria dei tanti. Situazione forse peggiore a Napoli, dove il cuore della città è completamente
sconvolto. Il centro
storico è in parte pericolante e sgombrato, in parte puntellato. Ciò vuol dire che è stato
colpito a
morte il piccolo commercio, il piccolo artigianato e tutta quella economia sommersa che
rappresentava l'unica risorsa economica di migliaia di famiglie. Qui ogni casa era un piccolo
laboratorio, ogni basso una piccola officina. Sempre in questa zona della città esistevano decine e
decine di piccole fabbriche i cui i prodotti giravano il mondo. Tutto ciò è stato spazzato via dal
terremoto. Anche a Napoli come in Irpinia lo stato ha cercato "di alleggerire" la città, ma anche
qui c'è stato un mezzo fallimento, una parte si è "arrangiata" rifiutando l'esodo perché sanno
che
in città ci sono ventimila alloggi sfitti che le autorità non vogliono toccare, per non diventare
impopolari e non pregiudicare i loro successi elettorali, in parte perché si è organizzata dando
vita ad un movimento spontaneo di occupazione di case senza precedenti riversandosi sulla 167
nella periferia più prossima di Napoli e sulle scuole della città. Anche a Napoli si sta riversando
una pioggia di miliardi: e proprio perché nessuno vuole rinunciare a una fetta di tale torta si parla
di apertura al PCI nella giunta regionale, in cambio di un ingresso della DC in quella comunale a
Napoli. Intanto la città è sempre più frequentemente percorsa dai cortei dei terremotati che
si
sono aggiunti ai senzatetto. Unica nota stonata, i fasci: questi, mentre fino alla tragica domenica
di Novembre guidavano i senzatetto in funzione di "capopopolo" sono spariti, tranne che nei
primi giorni di occupazione della 167 con provocazioni più o meno grosse, senza peraltro sortire
molto effetto. Un'altra Reggio Calabria? È possibile, come è possibile che lo spirito di
"adattamento" del napoletano si adatti e riprenda nella sua precarietà "quell'economia del vicolo"
che è saltata. Rimarrebbe il problema delle scuole occupate, della camorra, sempre più
spregiudicata intraprendente e tollerata, ci sarebbero, ancora, tanti altri interrogativi che rendono
la situazione assolutamente instabile e sempre in evoluzione per cui, a voler guardare
attentamente le cose si rischierebbe di rimanere seduti solo in poltrona e in ogni caso riuscire a
far luce in questa situazione significherebbe "Acchiappa cinche nummere 'o banch'lott'".
|