Rivista Anarchica Online
La guerra dei bottoni
di Franco Melandri
Ritorno alla guerra fredda, contrapposizione dei blocchi, riarmo, pericoli di guerra; queste poche
parole racchiudono l'intera situazione internazionale che, con la sua innegabile gravità, sgomenta
l'uomo comune conscio non solo dell'immane posta in gioco ma anche della scarsa possibilità di
intervento che egli, isolatamente, possiede. In questo ambito - in cui anche avvenimenti di
limitata rilevanza politica, quale la partecipazione di questo o quel paese alle Olimpiadi,
assumono grande valore nel "war game" internazionale - per noi anarchici si aprono possibilità di
azione non indifferenti. Per capire come si è giunti all'attuale tensione, è necessario considerare
che il periodo di tempo
che ci separa dal '45 può essere presentato solo eufemisticamente come periodo di pace, così
come gli ultimi 15 anni sono a torto presentati come periodo di "distensione" fra le due
superpotenze. Questo soprattutto perché la "pace" e la "distensione" hanno riguardato solo
l'Europa e parte dell'Oriente mentre in molte altre parti del mondo (Africa, Sud-est Asiatico,
Corea, Medio-Oriente) U.S.A. e U.R.S.S.si sono fronteggiate, direttamente o per interposta
persona, dando vita ad alcune delle guerre (a parte le due guerre mondiali) più sanguinose che la
storia ricordi: guerre, queste, che si svolgevano in luoghi lasciati fuori dall'"ombrello di Yalta" e
quindi aperti alla conquista dei russi o degli americani. Con la conclusione della seconda guerra mondiale,
infatti, le potenze europee, diventate paesi
satelliti dell'uno o dell'altro impero, hanno lasciato la leadership planetaria nelle mani delle classi
dominanti delle due superpotenze extraeuropee che, rendendosi conto dello sfaldamento del
colonialismo di vecchio stampo, hanno portato a compimento una politica di potenza basata sia
sull'imperialismo economico, sia sull'esportazione di modelli politici sia sull'intervento militare
quasi sempre diretto. Il fine di tutta quest'opera è stato ed è l'accaparramento delle materie prime
e delle fonti energetiche necessarie al mantenimento della supremazia mondiale e dello "scambio
ineguale" a danno dei paesi conquistati. Ed è all'interno di questo piano d'azione che si situano
anche le due crisi più grosse oggi sul tappeto: Iran e Afghanistan. Prescindendo da una valutazione
specifica delle situazioni interne di questi paesi (caratterizzate
ambedue dal fanatismo religioso) la cosa che salta all'occhio è che sia l'Iran che l'Afghanistan
sono essenziali per la strategia delle superpotenze non solo per poter controllare il bacino
petrolifero medio-orientale ma soprattutto per il controllo di tutto il subcontinente asiatico e per
gran parte del continente africano: per il controllo, cioè, di due dei maggiori serbatoi di materie
prime del mondo che contano al loro interno anche alcuni dei più importanti paesi in via di
sviluppo (India, Turchia, molti paesi arabi, lo stesso Iran, ecc.). Così gli U.S.A., che ancora non
hanno digerito la "rivoluzione" iraniana, si servono del pretesto loro offerto dall'occupazione
della loro ambasciata (l'affare degli ostaggi è da leggersi, a mio giudizio, soprattutto come
tentativo di aggregazione interna dei khomeinisti, preoccupati per la prospettiva di perdere il
controllo della situazione senza il momento aggregante costituito dal "nemico esterno") per
giustificare i tentativi di riaffermare la loro supremazia in questa regione. I russi, dal canto loro,
si sono "cautelati" invadendo l'Afghanistan e battendo sul tempo cinesi e americani che
segretamente lavoravano per raggiungere lo stesso scopo. Senza dubbio questi due fatti non basterebbero a
giustificare l'attuale stato di tensione fra le
superpotenze se, dietro a questi avvenimenti, non ci fossero altri fattori: l'incapacità ed il
desiderio di farsi rieleggere di Carter, il fanatismo antirusso del suo consigliere Bzerszinskj, e
soprattutto un'America in preda ad una profonda crisi sia economica che sociale, con una classe
dirigente, ma anche una popolazione desiderosa di tornare a fare, come negli anni '50, la voce
grossa dappertutto e su tutto. Anche l'U.R.S.S. si trova a dover fare i conti con una forte crisi ed
un'altrettanto forte disgregazione interna, acuita anche dall'irrequietezza dei suoi alleati,
soprattutto europei. Per ambedue i "grandi" l'unica via, se non per risolvere almeno per
allontanare i problemi, è probabilmente parsa quella di trasportare, con il pretesto dell'Iran e
dell'Afghanistan, sulla scena internazionale le contraddizioni interne, dando così il via alla
situazione di tensione ed instabilità di cui si diceva all'inizio. Come finirà è ovviamente
impossibile dirlo, soprattutto perché in molti altri momenti storici la
situazione è sfuggita dalla mano di coloro che l'avevano provocata precipitando in catastrofi
immani. Alcune previsioni si possono ugualmente fare. Innanzitutto non credo che la pur
crescente contrapposizione fra est e ovest diverrà così forte da giustificare una guerra su teatri
molto vasti: il sostanziale bilanciamento degli armamenti disponibili (pur con una lieve
supremazia americana nelle armi strategiche) non garantisce una vittoria finale senza che
vengano toccati i territori metropolitani dei due contendenti (cosa che né U.S.A. né U.R.S.S.
possono, allo stato attuale, permettersi): la scarsa presa a livello di massa di una mobilitazione
militare, presente in ambedue i campi, che rischierebbe di aggravare, anziché risolvere, le crisi
interne sia ai singoli paesi, sia ai blocchi di alleanze, il rischio che ambedue i grandi avrebbero,
affrontandosi globalmente, di veder crescere il peso economico e politico dei paesi loro
sottoposti, soprattutto di quelli, ricchi di materie prime e di risorse umane, in via di sviluppo che
dovrebbero, sempre in caso di guerra, fungere da retroviA della superpotenza cui sono
agganciati. È questo, a mio parere, il punto dolente: non è tanto dall'impero antagonista che
U.S.A. e U.R.S.S. devono guardarsi, quanto dal fatto che un numero sempre maggiore di paesi (o
meglio, di classi dominanti dei paesi del "terzo mondo" vuole svincolarsi dalle pastoie che gli
sono state imposte per giocare le sue carte sulla scena mondiale (in questo senso vanno esaminate
le "conferenze dei paesi islamici", il sempre maggior peso dell'OPEC, le contrapposizioni
all'interno del movimento dei non-allineati). A ben guardare, infatti, il blocco "orientale" e quello
"occidentale" sono molto più simili di quanto si voglia far credere. Alcune cifre lo dimostrano:
ambedue appartengono a quel "nord" del mondo che da solo monopolizza il 99,9% delle risorse
finanziarie totali, il 99% della ricerca scientifica, il 100% della tecnologia e che consuma, a
vantaggio di meno di un terzo dell'umanità, più dei due terzi di tutto quanto viene prodotto nel
globo. I popoli che devono pagare tutto questo (il "terzo" e "quarto" mondo) non sono ormai più
disposti a pagare sempre e tutto ed ecco che, nelle forme più disparate (vedi la rivoluzione
iraniana ed il vento di rinascita islamica, così come tutte le altre mobilitazioni sociali attuate
attraverso il prisma religioso, così comuni nel Sud America) presentano il conto ai paesi
dell'opulenza, ed è in questo ambito che la Cina, terzo "grande", gioca le sue carte per assicurarsi,
pur nell'altalena di alleanze internazionali, la leadership dei paesi emergenti. Il vero pericolo alla supremazia
mondiale dei colossi dell'est e dell'ovest non viene quindi tanto
dall'altro impero (da tener presente che ognuno dei due blocchi ha bisogno, in fin dei conti,
dell'altro per conservare un minimo di credibilità interna, magari mostrandosi campione dei
"diritti umani" calpestati dall'altro o del cosidetto "socialismo" contro il mostruoso capitalismo
dell'antagonista), quanto dal fremito di ribellione, quasi sempre strumentalizzato dalle classi
emergenti, che anima i popoli dei paesi asserviti. In questa ottica, se da un lato perde, in parte, di
credibilità l'ipotesi di una terza guerra mondiale dall'altro lato acquista possibilità l'ipotesi di un
confronto diretto fra U.S.A. e U.R.S.S. in un terreno, quale appunto quello del Golfo Persico, che
coinvolge anche alcuni dei paesi alleati (e qui il servilismo del governo italiano nei confronti
degli U.S.A. dà da pensare, soprattutto se si tien conto che l'Italia è la "portaerei del
Mediterraneo") ma che non scivoli in una guerra mondiale bensì rimanga un conflitto controllato
che permetta ai due "grandi" da un lato di frenare le richieste dei paesi emergenti della zona -
portandogli la guerra in casa - dall'altro di giustificare uno "stato di guerra interno" che attutisca
le contrapposizioni e che permetta alle classi dominanti di riorganizzare pienamente il loro
potere.
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