Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 10 nr. 84
giugno 1980 - luglio 1980


Rivista Anarchica Online

La guerra dei bottoni
di Franco Melandri

Ritorno alla guerra fredda, contrapposizione dei blocchi, riarmo, pericoli di guerra; queste poche parole racchiudono l'intera situazione internazionale che, con la sua innegabile gravità, sgomenta l'uomo comune conscio non solo dell'immane posta in gioco ma anche della scarsa possibilità di intervento che egli, isolatamente, possiede. In questo ambito - in cui anche avvenimenti di limitata rilevanza politica, quale la partecipazione di questo o quel paese alle Olimpiadi, assumono grande valore nel "war game" internazionale - per noi anarchici si aprono possibilità di azione non indifferenti.
Per capire come si è giunti all'attuale tensione, è necessario considerare che il periodo di tempo che ci separa dal '45 può essere presentato solo eufemisticamente come periodo di pace, così come gli ultimi 15 anni sono a torto presentati come periodo di "distensione" fra le due superpotenze. Questo soprattutto perché la "pace" e la "distensione" hanno riguardato solo l'Europa e parte dell'Oriente mentre in molte altre parti del mondo (Africa, Sud-est Asiatico, Corea, Medio-Oriente) U.S.A. e U.R.S.S.si sono fronteggiate, direttamente o per interposta persona, dando vita ad alcune delle guerre (a parte le due guerre mondiali) più sanguinose che la storia ricordi: guerre, queste, che si svolgevano in luoghi lasciati fuori dall'"ombrello di Yalta" e quindi aperti alla conquista dei russi o degli americani.
Con la conclusione della seconda guerra mondiale, infatti, le potenze europee, diventate paesi satelliti dell'uno o dell'altro impero, hanno lasciato la leadership planetaria nelle mani delle classi dominanti delle due superpotenze extraeuropee che, rendendosi conto dello sfaldamento del colonialismo di vecchio stampo, hanno portato a compimento una politica di potenza basata sia sull'imperialismo economico, sia sull'esportazione di modelli politici sia sull'intervento militare quasi sempre diretto. Il fine di tutta quest'opera è stato ed è l'accaparramento delle materie prime e delle fonti energetiche necessarie al mantenimento della supremazia mondiale e dello "scambio ineguale" a danno dei paesi conquistati. Ed è all'interno di questo piano d'azione che si situano anche le due crisi più grosse oggi sul tappeto: Iran e Afghanistan.
Prescindendo da una valutazione specifica delle situazioni interne di questi paesi (caratterizzate ambedue dal fanatismo religioso) la cosa che salta all'occhio è che sia l'Iran che l'Afghanistan sono essenziali per la strategia delle superpotenze non solo per poter controllare il bacino petrolifero medio-orientale ma soprattutto per il controllo di tutto il subcontinente asiatico e per gran parte del continente africano: per il controllo, cioè, di due dei maggiori serbatoi di materie prime del mondo che contano al loro interno anche alcuni dei più importanti paesi in via di sviluppo (India, Turchia, molti paesi arabi, lo stesso Iran, ecc.). Così gli U.S.A., che ancora non hanno digerito la "rivoluzione" iraniana, si servono del pretesto loro offerto dall'occupazione della loro ambasciata (l'affare degli ostaggi è da leggersi, a mio giudizio, soprattutto come tentativo di aggregazione interna dei khomeinisti, preoccupati per la prospettiva di perdere il controllo della situazione senza il momento aggregante costituito dal "nemico esterno") per giustificare i tentativi di riaffermare la loro supremazia in questa regione. I russi, dal canto loro, si sono "cautelati" invadendo l'Afghanistan e battendo sul tempo cinesi e americani che segretamente lavoravano per raggiungere lo stesso scopo.
Senza dubbio questi due fatti non basterebbero a giustificare l'attuale stato di tensione fra le superpotenze se, dietro a questi avvenimenti, non ci fossero altri fattori: l'incapacità ed il desiderio di farsi rieleggere di Carter, il fanatismo antirusso del suo consigliere Bzerszinskj, e soprattutto un'America in preda ad una profonda crisi sia economica che sociale, con una classe dirigente, ma anche una popolazione desiderosa di tornare a fare, come negli anni '50, la voce grossa dappertutto e su tutto. Anche l'U.R.S.S. si trova a dover fare i conti con una forte crisi ed un'altrettanto forte disgregazione interna, acuita anche dall'irrequietezza dei suoi alleati, soprattutto europei. Per ambedue i "grandi" l'unica via, se non per risolvere almeno per allontanare i problemi, è probabilmente parsa quella di trasportare, con il pretesto dell'Iran e dell'Afghanistan, sulla scena internazionale le contraddizioni interne, dando così il via alla situazione di tensione ed instabilità di cui si diceva all'inizio.
Come finirà è ovviamente impossibile dirlo, soprattutto perché in molti altri momenti storici la situazione è sfuggita dalla mano di coloro che l'avevano provocata precipitando in catastrofi immani. Alcune previsioni si possono ugualmente fare. Innanzitutto non credo che la pur crescente contrapposizione fra est e ovest diverrà così forte da giustificare una guerra su teatri molto vasti: il sostanziale bilanciamento degli armamenti disponibili (pur con una lieve supremazia americana nelle armi strategiche) non garantisce una vittoria finale senza che vengano toccati i territori metropolitani dei due contendenti (cosa che né U.S.A. né U.R.S.S. possono, allo stato attuale, permettersi): la scarsa presa a livello di massa di una mobilitazione militare, presente in ambedue i campi, che rischierebbe di aggravare, anziché risolvere, le crisi interne sia ai singoli paesi, sia ai blocchi di alleanze, il rischio che ambedue i grandi avrebbero, affrontandosi globalmente, di veder crescere il peso economico e politico dei paesi loro sottoposti, soprattutto di quelli, ricchi di materie prime e di risorse umane, in via di sviluppo che dovrebbero, sempre in caso di guerra, fungere da retroviA della superpotenza cui sono agganciati. È questo, a mio parere, il punto dolente: non è tanto dall'impero antagonista che U.S.A. e U.R.S.S. devono guardarsi, quanto dal fatto che un numero sempre maggiore di paesi (o meglio, di classi dominanti dei paesi del "terzo mondo" vuole svincolarsi dalle pastoie che gli sono state imposte per giocare le sue carte sulla scena mondiale (in questo senso vanno esaminate le "conferenze dei paesi islamici", il sempre maggior peso dell'OPEC, le contrapposizioni all'interno del movimento dei non-allineati). A ben guardare, infatti, il blocco "orientale" e quello "occidentale" sono molto più simili di quanto si voglia far credere. Alcune cifre lo dimostrano: ambedue appartengono a quel "nord" del mondo che da solo monopolizza il 99,9% delle risorse finanziarie totali, il 99% della ricerca scientifica, il 100% della tecnologia e che consuma, a vantaggio di meno di un terzo dell'umanità, più dei due terzi di tutto quanto viene prodotto nel globo. I popoli che devono pagare tutto questo (il "terzo" e "quarto" mondo) non sono ormai più disposti a pagare sempre e tutto ed ecco che, nelle forme più disparate (vedi la rivoluzione iraniana ed il vento di rinascita islamica, così come tutte le altre mobilitazioni sociali attuate attraverso il prisma religioso, così comuni nel Sud America) presentano il conto ai paesi dell'opulenza, ed è in questo ambito che la Cina, terzo "grande", gioca le sue carte per assicurarsi, pur nell'altalena di alleanze internazionali, la leadership dei paesi emergenti.
Il vero pericolo alla supremazia mondiale dei colossi dell'est e dell'ovest non viene quindi tanto dall'altro impero (da tener presente che ognuno dei due blocchi ha bisogno, in fin dei conti, dell'altro per conservare un minimo di credibilità interna, magari mostrandosi campione dei "diritti umani" calpestati dall'altro o del cosidetto "socialismo" contro il mostruoso capitalismo dell'antagonista), quanto dal fremito di ribellione, quasi sempre strumentalizzato dalle classi emergenti, che anima i popoli dei paesi asserviti. In questa ottica, se da un lato perde, in parte, di credibilità l'ipotesi di una terza guerra mondiale dall'altro lato acquista possibilità l'ipotesi di un confronto diretto fra U.S.A. e U.R.S.S. in un terreno, quale appunto quello del Golfo Persico, che coinvolge anche alcuni dei paesi alleati (e qui il servilismo del governo italiano nei confronti degli U.S.A. dà da pensare, soprattutto se si tien conto che l'Italia è la "portaerei del Mediterraneo") ma che non scivoli in una guerra mondiale bensì rimanga un conflitto controllato che permetta ai due "grandi" da un lato di frenare le richieste dei paesi emergenti della zona - portandogli la guerra in casa - dall'altro di giustificare uno "stato di guerra interno" che attutisca le contrapposizioni e che permetta alle classi dominanti di riorganizzare pienamente il loro potere.