Rivista Anarchica Online
Cantadelatore
di Sandro Consolato
Il caso Peci occupa ancora le prime pagine dei giornali e la marea di arresti operata dalle forze
dell'ordine nell'area della lotta armata nei dintorni e non solo in essi, ha provocato un "pecismo
diffuso", un trasformarsi di numerose canne tonanti in bocche parlanti. I vantaggi che lo Stato
offre ai delatori sono numerosi, (si va da sensibili riduzioni di pena e soggiorni nelle carceri
alleviati da vari comfort a grazie, passaporti e gite all'estero) e, a quanto pare, da parte di diversi
"clandestini" non è mancata un'immediata risposta positiva all'invito a parlare. Il fiorire di
"rivelazioni" e di pentimenti testimonia certamente una infiltrazione di spie nelle "organizzazioni
comuniste combattenti", cosa del resto prevedibile, ma al di là di questa constatazione non
dubitiamo che certi uccelli canterini si siano decisi a parlare presi dalla paura di una indefinita
permanenza nelle carceri di Stato, nella speranza (ben motivata!) di cavarsela con poco e di
rientrare nella normalità, considerando la lotta armata una parentesi della propria vita,
un'ingenuità giovanile. Giorni fa ho sentito una signora dire: "Forse hanno capito che il popolo
non era con loro e hanno ritenuto inutile continuare la lotta". Anche questa ipotesi di "riflusso",
potrebbe essere vera (per certuni), ma anche in questo caso va constatato che il riflusso e la
sfiducia sono ben compensati dal Generalissimo, generosissimo nel premiare chi parla. Detto questo, è
inutile spiegare quale sia l'obiettivo di queste note. Non una serie di
considerazioni politiche sulla lotta armata e il suo attuale indubitabile stato di crisi, né un esame
del ruolo di individui loschi come Peci in una organizzazione clandestina (anche se su ciò ci
sarebbe molto da dire, gettando luce sul lottarmatismo, così come ha fatto Gianfranco
Sanguinetti in "Del terrorismo e dello Stato". Quel che mi prefiggo è di esaminare la condizione
di delatore e la delazione da un punto di vista etico (di etica anarchica, ovviamente).
Tolto subito di mezzo il problema della delazione come opera di infiltrati (che non rientra nel
nostro campo d'analisi in quanto azione spionistica premeditata che non comporta quindi nella
coscienza del delatore due necessari momenti, uno in cui si condivide la causa del gruppo e uno
in cui la si tradisce), chiediamoci come può un uomo o una donna che per anni ha coltivato in sé
determinate idee, le ha condivise con altri, è arrivato al punto di impugnare le armi e rischiare la
vita ritenendo ciò una logica conseguenza di una sua analisi politica, come può decidere, dopo
esser stato incarcerato e magari torturato (pericoli che ogni rivoluzionario sa di correre) di tradire
i propri compagni, rinnegando così anche la propria vita passata.
Per rispondere dobbiamo dare una definizione di tradimento. Il tradimento non è ripensamento,
non è revisione delle proprie idee valutazione matura degli errori insiti in una tattica o in una
strategia (non per niente Mahler non è un traditore), non è critica né autocritica
perché tutto ciò è
privo di infamia. Il tradimento invece è infamia in quanto è consegna al nemico della propria vita
e di quella degli altri. È certamente una prerogativa dei deboli e degli ambiziosi (che magari
parevano i più "duri" nella lotta), e se può essere l'amaro frutto della sofferenza che non si riesce
più a sopportare, è anche e soprattutto, come nei recenti casi italiani, il rapido dietrofront di chi
ha perso ogni sicurezza (per qualcuno, forse, data dall'uso d'una pistola), di chi ha voluto giocare
alla rivoluzione e preso con le armi nel sacco dice "ho solo giocato" e si scatena nel più squallido
uso della lingua, facendo cadere in mano agli sbirri i propri compagni. Lo Stato sa ben ricompensare questo
parlaparla: "a nemico che fugge ponti d'oro" è stato detto.
Ma per chi ha tradito non ci sono che due possibilità: o l'accettazione a cuor leggero del proprio
atto, o il perenne turbamento della coscienza che può cessare solo con la morte. Tutto quello che ho
scritto fin qui non fa trasparire ancora una valutazione da un punto di vista
anarchico: le mie sono parole che qualunque uomo attaccato alla propria ideologia (fosse anche
un fascista) potrebbe aver scritto. E l'etica anarchica non ha nulla a che fare con l'ideologia,
poiché essa è un insieme di imperativi morali che fanno di un uomo un uomo libero; e non basta
non tradire i propri compagni, i propri camerati o i componenti della propria gang per essere
uomini liberi. Il punto di vista anarchico emergerà meglio se si considerano le parole dette da quella
signora di
cui parlavo prima. "Forse hanno capito che il popolo non era con loro e hanno ritenuto inutile
continuare la lotta". È possibile che nella categoria dei "terroristi pentiti" rientri anche chi ha
voluto dare anima e corpo alla causa rivoluzionaria e, arrivato al punto di considerare questa
un'utopia, entrando in un ordine di idee che vede definitivamente integrato il proletariato ormai
immune dal bacillo insurrezionale, giunge alla conclusione che è ora di arrendersi: la causa è
persa. Ma perché denunciare i compagni, non basta questa privata, intima presa di posizione? No,
il "terrorista pentito" ritiene che la delazione elimini il problema non solo in sé ma nella società,
che lui contribuisce a "svuotare" dagli illusi guerriglieri che la minacciano. Ora, un anarchico non può
ammettere questo tipo d'atteggiamento. Mi spiego meglio: con ciò
non intendo dire che chi si qualifica anarchico sia più coraggioso di chi è marxista o di chi è
un
semplice malvivente, poiché al di là delle idee c'è un uomo reale frutto di particolari
determinazioni sociali e ambientali che fanno sì che il tradimento dipenda in larga misura dalla
personalità. Un anarchico, un libertario, (che abbia impugnato le armi o no, per noi non è questo
il punto) ha
fatto proprie determinate concezioni etiche, ha sempre presente che il problema dell'uomo come
quello della storia è la dicotomia autorità-libertà. Ogni aspetto della vita che voglia da lui
essere
compreso lo riporta a questa dicotomia e di fronte alla più grave limitazione della libertà che
possa incontrare, quella che comporta la detenzione in una prigione, in un lager, egli saprà ancora
lucidamente tenere presente che si trova di fronte, come quando era nella società, ai due poli che
conosce: autorità-libertà. Per capire il mio discorso, occorre evidenziare che l'anarchico
innanzitutto si scopre, si riconosce
come individuo, come unico; questa e la sua primaria e prima autoaffermazione a cui, in un
secondo momento, segue il proprio sentirsi individuo accanto ad altri individui, quindi
desideroso di libertà non solo per sé ma anche per gli altri, con gli altri. Trovandosi chiuso in
galera, ed egli sa bene di essere un "candidato alla galera", è prima di tutto la sua individualità
che vede calpestata, quella stessa individualità che ha scoperto essere la propria essenza, lo
spirito e la materia che lo costituiscono come uomo. Privato degli affetti, dei compagni di lotta,
della visione del mondo, chiuso in gabbia, egli sa che non ha cessato di essere un uomo libero
perché libertà è dignitosa, fiera permanenza nei propri principi, il che vuol dire ancora una
volta
riproposizione di sé come individuo, cioè negazione dello Stato, dell'autorità. Credo che
questo
atteggiamento etico non sia proprio solo dell'anarchico, ma di ogni uomo veramente libero. Il marxista crede
nella Storia, la lotta di classe né è il motore. Se egli cessa di credere
nell'ineluttabilità dell'avvento della rivoluzione proletaria vede la storia sfaldarsi e con essa la sua
storia personale. Se il proletariato non apprezza il suo sacrificio di avanguardia, se rifiuta la
rivoluzione (o, meglio, i tempi e i modi di essa stabiliti dal dogma), la sua lotta di uomo perde
senso, viene privata di finalità perché è la Storia che si rivela priva di teologia, ed il marxista
è
convinto di far parte del motore della Storia. Caduto il mito cade anch'egli, viene risucchiato da
una storia con la s minuscola priva di grandezza, ritiene di non essersi realizzato come uomo. Per l'anarchico
questi problemi non si pongono. Egli può essere comunista e può non esserlo, che
lotti per la rivoluzione degli sfruttati o che sia dentro una prospettiva strettamente individualista,
che abbia preso le armi o che abbia messo su una cooperativa, la sua qualificazione etica è ben
definita, gli mette a disposizione una logica che non ha ombre, che è priva di incongruenze. La
sua lotta per la libertà continua sempre perché se egli spera certamente che la rivoluzione si
compia e distruggendo ogni prigione spalanchi anche la porta della sua cella, non è comunque
privo della certezza che, pur dovendo morire di stenti o sotto l'ascia del boia, la sua resa di fronte
agli aguzzini è abdicazione della propria individualità, fine del proprio status di uomo libero. Un
anarchico che ha perso la fiducia e la certezza riguardo l'azione di massa riscopre in sé ciò
che lo ha caratterizzato inizialmente come anarchico e pertanto mantiene la sua connotazione
specifica, resta un individuo in rivolta. Questo concetto è stato ben espresso dal compagno
Antonino Laganà che in un suo saggio scrive: In fondo, la rinuncia a se stessi, a sapersi e volersi
autodeterminare senza bisogno di puntelli esterni, è una forma attenuata (o morale) di suicidio e
scaturisce da una valutazione erronea delle forze in gioco, che esalta gli elementi naturali e
oggettivi a detrimento delle facoltà soggettive: chi dubita delle capacità di autodominio proprie
e, in estensione, del genere umano ha certamente bisogno di un padrone e di un Dio che si
prendano benevola cura di lui e della sua minorità intellettuale e operativa. E così continua:
In
questa prospettiva - e ove le cose stessero realmente così; come si sforza di persuaderci la canea
dei pennaioli che si credono filosofi - ai pochi cui arde in petto bramosa sete libertaria non
resterebbe che prendere atto della natura subordinata e della volontà gregaria della razza
umana, onde assumere da essa e dalla sua aberrante costituzione cuspidale le debite distanze ed
arroccarsi nella tragica e titanica difesa della propria insostituibile unicità. Questo è
l'atteggiamento che ogni anarchico, vedendo l'impossibilità della rivoluzione libertaria, dovrebbe
assumere in ultima analisi, dando così una dimostrazione di quale profondità raggiunga la sua
etica. Essere capace di libertà, per chi subisce qualsiasi autorità, vuol dire tenere la testa alta
in un
atteggiamento di sfida, di negazione, poiché la libertà, come disse Breton, non è data dal
martirio
subito ma dalla ribellione; che come sa ogni anarchico, si può esplicare in mille forme. Sarebbe facile,
infine, stendere un elenco di "eroismo anarchico" ma a noi non interessa e
pertanto non staremo a parlare di Henry davanti alla ghigliottina o di Musham di fronte alle SS.
Sia concesso, però, ricordare i nostri compagni che oggi, chiusi nei lager di regime, continuano
fieramente a sentirsi uomini liberi; voglio ricordare Fantazzini e le sue parole pubblicate su "A" e
anche quei compagni che hanno rifiutato di vestire in grigio-verde affrontando consapevolmente
la prospettiva della galera (e c'è qualcuno che dice che sono stronzi). Ho citato due atteggiamenti
diversi ma che ben illuminano l'etica anarchica e non nell'astratto delle enunciazioni ma nel vivo
della lotta. Di queste cose si preferisce non parlare, probabilmente perché, come ha scritto il
compagno Finzi, "sotto sotto si sente puzza d'anarchia". Ebbene, sì.
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