Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 10 nr. 84
giugno 1980 - luglio 1980


Rivista Anarchica Online

Cantadelatore
di Sandro Consolato

Il caso Peci occupa ancora le prime pagine dei giornali e la marea di arresti operata dalle forze dell'ordine nell'area della lotta armata nei dintorni e non solo in essi, ha provocato un "pecismo diffuso", un trasformarsi di numerose canne tonanti in bocche parlanti. I vantaggi che lo Stato offre ai delatori sono numerosi, (si va da sensibili riduzioni di pena e soggiorni nelle carceri alleviati da vari comfort a grazie, passaporti e gite all'estero) e, a quanto pare, da parte di diversi "clandestini" non è mancata un'immediata risposta positiva all'invito a parlare. Il fiorire di "rivelazioni" e di pentimenti testimonia certamente una infiltrazione di spie nelle "organizzazioni comuniste combattenti", cosa del resto prevedibile, ma al di là di questa constatazione non dubitiamo che certi uccelli canterini si siano decisi a parlare presi dalla paura di una indefinita permanenza nelle carceri di Stato, nella speranza (ben motivata!) di cavarsela con poco e di rientrare nella normalità, considerando la lotta armata una parentesi della propria vita, un'ingenuità giovanile. Giorni fa ho sentito una signora dire: "Forse hanno capito che il popolo non era con loro e hanno ritenuto inutile continuare la lotta". Anche questa ipotesi di "riflusso", potrebbe essere vera (per certuni), ma anche in questo caso va constatato che il riflusso e la sfiducia sono ben compensati dal Generalissimo, generosissimo nel premiare chi parla.
Detto questo, è inutile spiegare quale sia l'obiettivo di queste note. Non una serie di considerazioni politiche sulla lotta armata e il suo attuale indubitabile stato di crisi, né un esame del ruolo di individui loschi come Peci in una organizzazione clandestina (anche se su ciò ci sarebbe molto da dire, gettando luce sul lottarmatismo, così come ha fatto Gianfranco Sanguinetti in "Del terrorismo e dello Stato". Quel che mi prefiggo è di esaminare la condizione di delatore e la delazione da un punto di vista etico (di etica anarchica, ovviamente).

Tolto subito di mezzo il problema della delazione come opera di infiltrati (che non rientra nel nostro campo d'analisi in quanto azione spionistica premeditata che non comporta quindi nella coscienza del delatore due necessari momenti, uno in cui si condivide la causa del gruppo e uno in cui la si tradisce), chiediamoci come può un uomo o una donna che per anni ha coltivato in sé determinate idee, le ha condivise con altri, è arrivato al punto di impugnare le armi e rischiare la vita ritenendo ciò una logica conseguenza di una sua analisi politica, come può decidere, dopo esser stato incarcerato e magari torturato (pericoli che ogni rivoluzionario sa di correre) di tradire i propri compagni, rinnegando così anche la propria vita passata.

Per rispondere dobbiamo dare una definizione di tradimento. Il tradimento non è ripensamento, non è revisione delle proprie idee valutazione matura degli errori insiti in una tattica o in una strategia (non per niente Mahler non è un traditore), non è critica né autocritica perché tutto ciò è privo di infamia. Il tradimento invece è infamia in quanto è consegna al nemico della propria vita e di quella degli altri. È certamente una prerogativa dei deboli e degli ambiziosi (che magari parevano i più "duri" nella lotta), e se può essere l'amaro frutto della sofferenza che non si riesce più a sopportare, è anche e soprattutto, come nei recenti casi italiani, il rapido dietrofront di chi ha perso ogni sicurezza (per qualcuno, forse, data dall'uso d'una pistola), di chi ha voluto giocare alla rivoluzione e preso con le armi nel sacco dice "ho solo giocato" e si scatena nel più squallido uso della lingua, facendo cadere in mano agli sbirri i propri compagni.
Lo Stato sa ben ricompensare questo parlaparla: "a nemico che fugge ponti d'oro" è stato detto. Ma per chi ha tradito non ci sono che due possibilità: o l'accettazione a cuor leggero del proprio atto, o il perenne turbamento della coscienza che può cessare solo con la morte.
Tutto quello che ho scritto fin qui non fa trasparire ancora una valutazione da un punto di vista anarchico: le mie sono parole che qualunque uomo attaccato alla propria ideologia (fosse anche un fascista) potrebbe aver scritto. E l'etica anarchica non ha nulla a che fare con l'ideologia, poiché essa è un insieme di imperativi morali che fanno di un uomo un uomo libero; e non basta non tradire i propri compagni, i propri camerati o i componenti della propria gang per essere uomini liberi.
Il punto di vista anarchico emergerà meglio se si considerano le parole dette da quella signora di cui parlavo prima. "Forse hanno capito che il popolo non era con loro e hanno ritenuto inutile continuare la lotta". È possibile che nella categoria dei "terroristi pentiti" rientri anche chi ha voluto dare anima e corpo alla causa rivoluzionaria e, arrivato al punto di considerare questa un'utopia, entrando in un ordine di idee che vede definitivamente integrato il proletariato ormai immune dal bacillo insurrezionale, giunge alla conclusione che è ora di arrendersi: la causa è persa. Ma perché denunciare i compagni, non basta questa privata, intima presa di posizione? No, il "terrorista pentito" ritiene che la delazione elimini il problema non solo in sé ma nella società, che lui contribuisce a "svuotare" dagli illusi guerriglieri che la minacciano.
Ora, un anarchico non può ammettere questo tipo d'atteggiamento. Mi spiego meglio: con ciò non intendo dire che chi si qualifica anarchico sia più coraggioso di chi è marxista o di chi è un semplice malvivente, poiché al di là delle idee c'è un uomo reale frutto di particolari determinazioni sociali e ambientali che fanno sì che il tradimento dipenda in larga misura dalla personalità.
Un anarchico, un libertario, (che abbia impugnato le armi o no, per noi non è questo il punto) ha fatto proprie determinate concezioni etiche, ha sempre presente che il problema dell'uomo come quello della storia è la dicotomia autorità-libertà. Ogni aspetto della vita che voglia da lui essere compreso lo riporta a questa dicotomia e di fronte alla più grave limitazione della libertà che possa incontrare, quella che comporta la detenzione in una prigione, in un lager, egli saprà ancora lucidamente tenere presente che si trova di fronte, come quando era nella società, ai due poli che conosce: autorità-libertà.
Per capire il mio discorso, occorre evidenziare che l'anarchico innanzitutto si scopre, si riconosce come individuo, come unico; questa e la sua primaria e prima autoaffermazione a cui, in un secondo momento, segue il proprio sentirsi individuo accanto ad altri individui, quindi desideroso di libertà non solo per sé ma anche per gli altri, con gli altri. Trovandosi chiuso in galera, ed egli sa bene di essere un "candidato alla galera", è prima di tutto la sua individualità che vede calpestata, quella stessa individualità che ha scoperto essere la propria essenza, lo spirito e la materia che lo costituiscono come uomo. Privato degli affetti, dei compagni di lotta, della visione del mondo, chiuso in gabbia, egli sa che non ha cessato di essere un uomo libero perché libertà è dignitosa, fiera permanenza nei propri principi, il che vuol dire ancora una volta riproposizione di sé come individuo, cioè negazione dello Stato, dell'autorità. Credo che questo atteggiamento etico non sia proprio solo dell'anarchico, ma di ogni uomo veramente libero.
Il marxista crede nella Storia, la lotta di classe né è il motore. Se egli cessa di credere nell'ineluttabilità dell'avvento della rivoluzione proletaria vede la storia sfaldarsi e con essa la sua storia personale. Se il proletariato non apprezza il suo sacrificio di avanguardia, se rifiuta la rivoluzione (o, meglio, i tempi e i modi di essa stabiliti dal dogma), la sua lotta di uomo perde senso, viene privata di finalità perché è la Storia che si rivela priva di teologia, ed il marxista è convinto di far parte del motore della Storia. Caduto il mito cade anch'egli, viene risucchiato da una storia con la s minuscola priva di grandezza, ritiene di non essersi realizzato come uomo.
Per l'anarchico questi problemi non si pongono. Egli può essere comunista e può non esserlo, che lotti per la rivoluzione degli sfruttati o che sia dentro una prospettiva strettamente individualista, che abbia preso le armi o che abbia messo su una cooperativa, la sua qualificazione etica è ben definita, gli mette a disposizione una logica che non ha ombre, che è priva di incongruenze. La sua lotta per la libertà continua sempre perché se egli spera certamente che la rivoluzione si compia e distruggendo ogni prigione spalanchi anche la porta della sua cella, non è comunque privo della certezza che, pur dovendo morire di stenti o sotto l'ascia del boia, la sua resa di fronte agli aguzzini è abdicazione della propria individualità, fine del proprio status di uomo libero.
Un anarchico che ha perso la fiducia e la certezza riguardo l'azione di massa riscopre in sé ciò che lo ha caratterizzato inizialmente come anarchico e pertanto mantiene la sua connotazione specifica, resta un individuo in rivolta. Questo concetto è stato ben espresso dal compagno Antonino Laganà che in un suo saggio scrive: In fondo, la rinuncia a se stessi, a sapersi e volersi autodeterminare senza bisogno di puntelli esterni, è una forma attenuata (o morale) di suicidio e scaturisce da una valutazione erronea delle forze in gioco, che esalta gli elementi naturali e oggettivi a detrimento delle facoltà soggettive: chi dubita delle capacità di autodominio proprie e, in estensione, del genere umano ha certamente bisogno di un padrone e di un Dio che si prendano benevola cura di lui e della sua minorità intellettuale e operativa. E così continua: In questa prospettiva - e ove le cose stessero realmente così; come si sforza di persuaderci la canea dei pennaioli che si credono filosofi - ai pochi cui arde in petto bramosa sete libertaria non resterebbe che prendere atto della natura subordinata e della volontà gregaria della razza umana, onde assumere da essa e dalla sua aberrante costituzione cuspidale le debite distanze ed arroccarsi nella tragica e titanica difesa della propria insostituibile unicità. Questo è l'atteggiamento che ogni anarchico, vedendo l'impossibilità della rivoluzione libertaria, dovrebbe assumere in ultima analisi, dando così una dimostrazione di quale profondità raggiunga la sua etica.
Essere capace di libertà, per chi subisce qualsiasi autorità, vuol dire tenere la testa alta in un atteggiamento di sfida, di negazione, poiché la libertà, come disse Breton, non è data dal martirio subito ma dalla ribellione; che come sa ogni anarchico, si può esplicare in mille forme.
Sarebbe facile, infine, stendere un elenco di "eroismo anarchico" ma a noi non interessa e pertanto non staremo a parlare di Henry davanti alla ghigliottina o di Musham di fronte alle SS. Sia concesso, però, ricordare i nostri compagni che oggi, chiusi nei lager di regime, continuano fieramente a sentirsi uomini liberi; voglio ricordare Fantazzini e le sue parole pubblicate su "A" e anche quei compagni che hanno rifiutato di vestire in grigio-verde affrontando consapevolmente la prospettiva della galera (e c'è qualcuno che dice che sono stronzi). Ho citato due atteggiamenti diversi ma che ben illuminano l'etica anarchica e non nell'astratto delle enunciazioni ma nel vivo della lotta. Di queste cose si preferisce non parlare, probabilmente perché, come ha scritto il compagno Finzi, "sotto sotto si sente puzza d'anarchia". Ebbene, sì.