Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 10 nr. 83
maggio 1980


Rivista Anarchica Online

A su poburo non descit studiai... descit traballai
di Ugo Dessy

"Per il povero non è decoro studiare, egli deve lavorare": questo detto dei contadini dell'Oristanese, che abbiamo scelto come titolo di questo saggio di Dessy, va letto anche come testimonianza della ritrosia (se non proprio del rifiuto cosciente) delle classi subalterne verso la cultura "ufficiale", quella istituzionalizzata nel sistema scolastico. Dietro questo atteggiamento, marchiato dal potere come "anticulturale", vi è tutta la vera cultura popolare, con i suoi valori, il suo linguaggio, la sua dignità. Purtroppo il potere è riuscito e riesce a far credere alla gente che solo la sua cultura (basata innanzitutto sull'erudizione) è degna di questo nome, mentre il resto è solo "ignoranza". Ma la realtà è ben diversa.

(...) Il sistema prospera sugli equivoci. È equivoco anche il concetto di cultura, cui si danno significati e contenuti idealistici, astratti e diversi secondo il settore d'impiego. Il concetto di cultura, perché abbia un significato univoco o comunque non mistificatorio, va riportato all'uso concreto che di essa si fa sul piano dello sviluppo umano e dei rapporti sociali.
Al di là delle definizioni di comodo, cultura è in pratica un insieme di nozioni, di capacità, tecniche e di moduli comportamentali acquisiti secondo un complesso processo di condizionamento, i cui contenuti - valori e fini - portano il crisma dell'autorità (specifica) costituita. Tale cultura consente all'uomo "moderno" di integrarsi "ordinatamente". Cultura diventa così condizione e titolo per accedere alle olimpiadi della scalata sociale - attributo illuminante del potere, moneta aggiuntiva a quella aurea per realizzare l'avere. Quanto più un uomo possiede e ha potere, tanto più passa per uomo colto. Le élites al potere, definendo il popolo incolto e rozzo dopo averlo degradato, tentano di dimostrare che tale stato di degradazione è dovuto all'ignoranza e non invece allo sfruttamento. Da qui non poca confusione, che torna utile alla conservazione del privilegio. Non sono pochi gli educatori, i sociologi, i politici - credo anche in buona fede - i quali, nell'entusiasmo della scoperta del binomio (artificioso) ignoranza-miseria, si sono battuti a spada tratta per sollevare il popolo dalla ignoranza, convinti che fosse sufficiente modificare il primo termine per modificare il secondo. Da qui, anche, l'allettamento che ha influenzato i meno resistenti alla integrazione: l'acquisizione di un modello di uomo colto, titolato, su cui combaciare, per poter poi accedere, con ulteriori crismi e apprendimenti, a livelli sociali "più alti", più prestigiosi e redditizi. Si vede, con l'attuale inflazione dei "titoli", quanto questo tipo di cultura abbia una reale utilità - non dico nella realizzazione di sé, ma nella stessa "carriera" sociale. Il figlio del contadino o del pastore, laureatosi in scienze politiche o in legge, si rende conto che pur possedendo lo stesso titolo di un Agnelli o di un Leone non è diventato né capitano dell'industria né presidente di repubblica. È rimasto miserabile e ignorante nonostante la quantità di cultura ingerita.
Nel popolo degli oppressi (umanità premuta da una necessità di liberazione) il concetto di cultura non può che essere diverso. È il patrimonio di esperienze e di capacità proprio di ciascun uomo; patrimonio che si sostituisce e si sviluppa nel realizzare se stesso in un rapporto di solidarietà con i propri simili, in armonia con il mondo della natura. È rilevabile nel popolo un sentimento misto di invidia diffidenza rifiuto nei confronti dell'intellettuale e della sua cultura. Invidia per quel legame esistente tra livello di istruzione e livello sociale ed economico; diffidenza e rifiuto per la consapevolezza che quella cultura non realizza l'uomo, non rende felice, anzi è malvagia portatrice di squilibrio e di ingiustizia, prostituta di un potere che utilizza sapere e scienza per sfruttare più sapientemente e scientificamente l'uomo. Illuminanti le parole di un pastore di Orgosolo, intervistato sulla situazione di oppressione in cui la sua comunità è tenuta dallo stato italiano: "abbiamo perfino paura a far studiare i nostri figli, perché domani anche essi potrebbero usare lo studio per imbrogliarci" (1). Conversando con contadini e pescatori dell'Oristanese, alla domanda "Perché non avete frequentato la scuola da piccoli?", essi immancabilmente rispondevano: A su poburo non descit studiai; ddi descit traballai (Al povero non è decoroso studiare; gli è di decoro lavorare). Pensavo allora che quel "non essere decoroso studiare" fosse un principio imposto al povero dal pregiudizio del padrone. Oggi sono più propenso a credere che il concetto esprima principalmente una cosciente valutazione popolare di "vanità" dello studio, contrapposto al "lavoro" che è decoroso in quanto realizza l'essere.
Una valutazione, questa, che non ha niente a che vedere con l'interessata apoteosi del lavoro che ne fa il sistema. Il lavoro è decoroso in quanto soddisfa l'esigenza umana di intervenire nell'ambiente e non sull'ambiente naturale in cui si vive. Decoroso, quando non è prostituzione di sé in cambio di mezzi di sussistenza ma è svolto per l'appagamento di bisogni autentici. Il bracciante agricolo, il manovale che dopo otto ore sotto il padrone coltiva il proprio pezzetto di terra o si costruisce un tetto, vivrà questo e non quello come "lavoro dignitoso", come espressione autentica di sé - per quanto tradizionali possano essere i moduli e gli strumenti che utilizza per raggiungere lo scopo.

La cultura "in giuste dosi"

La posizione del sistema sul principio secondo cui quanto più un popolo è ignorante tanto meglio si può dominare e sfruttare è stata riveduta nel secolo scorso e nel presente, con lo sviluppo industriale. Nel periodo del potere rozzo, assolutistico, i regnanti sostenevano scopertamente che soltanto gli ignoranti erano da considerarsi "sudditi fedeli". E di conseguenza programmavano la diffusione dell'analfabetismo e della ignoranza. In questa operazione, la chiesa cattolica reggeva egregiamente il sacco, falsando per cupidigia di potere il concetto cristiano sulla beatitudine dei poveri di spirito. Dirò più avanti come l'ignoranza (del sapere del sistema) possa costituire nel popolo un ottimo vaccino contro la manipolazione e il condizionamento, quindi anche contro lo sfruttamento scientifico, integrale. Il popolo viene deliberatamente e metodicamente costretto nella più assoluta ignoranza fino al momento in cui il potere economico passa da forme di sfruttamento grezze a forme tecnologicamente avanzate. Si dà una "giusta dose" di cultura al popolo quando, con il progresso tecnologico, il capitalismo deve mettere il lavoratore a contatto con macchine complesse, che abbisognano - per essere utilizzate con profitto - di conoscenze specifiche e di un certo grado di istruzione. Padronato imprenditoriale, borghesi "illuminati", dirigenti di partito e di sindacato, uniti nel medesimo disegno criminoso, premono sul popolo perché accetti di "bere" questa "giusta dose" di cultura. Vengono usati diversi allettamenti: "Migliorerai la tua posizione, avanzando nella scala sociale"; "Acquistando conoscenze tecniche aumenterai il tuo salario"; "Potrai aspirare a posti di responsabilità"; "È richiesto il titolo di studio per fare il capo-squadra"; "Potrai rivolgerti al padrone usando la stessa lingua". Una parte della consorteria al potere (chiamarla la parte più reazionaria sarebbe un immeritato complimento alla restante parte), quella per intenderci di stampo clericale-borbonico, dal canto suo si preoccupava del fatto che dando anche soltanto una ben dosata e annacquata istruzione agli straccioni, questi avrebbero potuto acquistare ma malizie tali da organizzarsi e mordere la mano al padrone.
Ma l'altra parte, la borghesia imprenditoriale, premuta dalla necessità di mettere in moto la nuova macchina di sfruttamento e di incassare, insisteva sbandierando da un lato lo spauracchio di maggiori possibilità di rivolta da parte di masse ignoranti e affamate e da un altro lato spiegando come con una appropriata istruzione e tenendo ben fermo il metodo del bastone e della carota, si sarebbe giunti alla integrazione di tutte le componenti popolari chiamate a produrre. Ribadisce Rosada: "Nel clima della cultura positivista, all'idea di una scuola che, aprendo gli occhi agli sfruttati sulle loro catene, ne avrebbe fatto dei ribelli, si era sostituita in molti la convinzione che proprio le masse incolte costituivano un pericoloso potenziale di irragionevoli rivolte, e che una giusta evoluzione culturale avrebbe garantito il diffondersi di un saggio spirito di collaborazione tra le classi" (2).

Pregiudizio razziale e inferiorità

C'è una lunga serie di luoghi comuni, di pregiudizi, di falsi nella cultura delle élites nei confronti della cultura del popolo. I teorizzatori del sistema, per giustificare "razionalmente" l'irrazionalità dello sfruttamento umano, hanno avuto bisogno di utilizzare la "scienza" cercando e indicando nello sfruttato caratteri di inferiorità rispetto a un modello ideale di uomo - presentato, e neppure rappresentato, dallo sfruttatore.
Definire "barbaro" e "incivile" qualunque popolo da assoggettare o assoggettato è un pregiudizio storico diffuso tra quei predoni che furono i Romani. Tutti gli invasori che si sono succeduti nel dominio della Sardegna hanno deliberatamente definito "criminali" gli oppositori politici. E quando mancava una vera e propria opposizione politica, si lamentavano fenomeni di banditismo: se in Sardegna ci sono "banditi", i Sardi sono "banditi"; ne consegue che sbarcarvi un esercito per debellare il "banditismo" diventa "un fatto di civiltà", e non, invece "un'aggressione". Il fascismo per giustificare l'invasione dell'Etiopia proclamò di voler abolire la schiavitù. Il colonizzatore maschera sempre i suoi disegni di assoggettamento assumendo il ruolo di "portatore di civiltà". In pratica, il pregiudizio razziale concorre a giustificare l'aggressione e ad aumentare gli interessi del capitale. Ma se è evidente che il pregiudizio razziale serve di copertura a un piano di sfruttamento il popolo "pregiudicato" finisce per acquistare una "inferiorità" obiettiva rispetto al suo oppressore. Il razzismo, anziché scomparire alla luce del progresso scientifico, si perpetua e si diffonde in forme più sottili. La scienza a servizio del potere, anziché diradare le nebbie dell'oscurantismo le ha infittite, dando al pregiudizio un carattere di maggiore attendibilità e rafforzandolo.
L'attuale sistema - come quelli precedenti su cui si è evoluto - è fondato sul falso sistematico. Le élites al potere distorcono l'immagine reale delle parti avverse; vengono date attribuzioni dispregiative, in chiave manichea, a gruppi etnici, a categorie sociali, a oppositori politici, perpetuando la discriminazione in "buoni" e in "cattivi". Il razzismo dell'oppressore suscita e alimenta un razzismo alla rovescia nell'oppresso - nel quale resta, comunque, sempre a livello di difesa, un disperato tentativo di affermarsi, di sopravvivere trovando in sé valori positivi da opporre a quelli dell'oppressore che lo annullano. Dice il falso chi dice che attualmente il pregiudizio razziale è stato superato. Il razzismo è sempre presente in ogni processo di assoggettamento e sfruttamento del popolo, in ogni forma di oppressione e sfruttamento dell'uomo. Le conseguenze del pregiudizio razziale furono e sono la discriminazione, la criminalizzazione, la degradazione, l'assassinio dell'uomo. Va ribadito che la situazione di coatta inferiorità dell'oppresso rispetto all'oppressore, produce una "effettiva" inferiorità, che serve a sua volta a rafforzare il pregiudizio. Pregiudizio del dominatore e basso livello di vita del dominato finiscono per determinarsi l'un l'altro, creando un circolo vizioso che non può spezzarsi se non con la rivolta dei popoli. Il razzismo scompare soltanto con la scomparsa dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

"Falli fottere, bevi!"

All'interno di un discorso sul razzismo - che è complesso, in quanto presente, e spesso in forme nascoste, in ogni aspetto della vita culturale (economica, sociale, politica, morale) - mi interessa qui fermare l'attenzione sulla definizione e sull'uso dei termini di "razionalità" e di "istintualità" che ne dà e ne fa il sistema. Per giustificare le leggi del patriarcato che tengono sottomessa la donna - per esempio - si sono attribuiti a questa diversi caratteri presunti "negativi": in primo luogo, e ricorrentemente, un carattere di "istintualità" (attributo "negativo") contrapposto alla "razionalità" (attributo "positivo") del maschio. La stessa affermazione è alla base del complesso di valutazioni denigratorie e discriminatorie nei confronti del popolo, della sua cultura. Anche studiosi di ideologia materialista marxista, tra questi Gramsci, parlando della cultura del popolo, sostengono che in essa domina l'irrazionalità e l'istintualità - remore a un processo di crescita civile e politica. Per colui che voglia fare una analisi corretta, direi "razionale" della realtà, c'è molto da demistificare e da chiarire. A cominciare dal significato volutamente equivoco nei vocaboli filosofici di uso comune e di fondamentale importanza in un dialogo tra uomini che vogliono capirsi.
I significati di "istinto" e di "ragione", ciò che precisamente significano, dovrebbero essere semplici e chiari. Invece non lo sono. Per la cultura ufficiale, istinto può voler dire un mucchio di cose - seppure tutte con carattere negativo. Ecco alcune definizioni da manuale: "Impulso naturale e irrazionale"; "Serie di atti spontanei, non volontari e tuttavia collegati, succedentisi con ordine inesorabile, rispondenti a un fine non conosciuto da chi li compie"; "Attività mentale spontanea adatta a uno scopo, e col carattere di una tendenza innata, come, ad es., l'istinto del ritmo nei poeti (sic!)"; "Il Bergson lo oppone alla intelligenza...". Le definizioni di "ragione" diventano meno sbrigative e più complesse ma niente affatto chiare: "Complesso di facoltà mentali che distinguono l'uomo dal bruto"; per Kant è "fonte di principi a priori dai quali deriva la legge della moralità"; per Platone è "la qualità più elevata dell'anima, quella che può rappresentarsi le idee eterne"; per Schopenhauer ce n'è di quattro specie: "Ratio essendi, ratio fiendi, ratio cagnoscendi, ratio agendi"; e così via. La teoretica del sistema distorce i significati dei termini per falsare la realtà, forte della somma di elaborazioni fornitegli da corti di filosofi e scienziati, e istituzionalizza solenni imbecillità su "istintualità" opposta a "razionalità". L'istintualità sarebbe propria del popolo, dell'ignorante, della donna, del bambino, del nero, del sardo e di tutte quelle componenti umane che necessiterebbero di un padrone "razionale" per poter vivere. Si possono portare infinite citazioni dotte e serissime sulla presunta inferiorità del bambino, del nero, del sardo, della donna, del popolo: inferiorità basata su una presunta loro precipua istintualità e mancanza di razionalità. "Razionalità" sarebbe in definitiva capacità di conoscere scientificamente la natura per dominarla; razionalità come fonte unica di progresso, quindi di benessere, e sinonimo di civiltà. Tutto ciò che è razionale verrebbe direttamente da Dio e dai membri della consorteria al potere. Lo stato e le istituzioni che concorrono a mantenerlo sarebbero creazioni sublimi della razionalità.
In contrapposizione, l'istintualità diventa sinonimo di ignoranza e rozzezza, di confusione e disordine (caos anarchico - dicono gli apprendisti stregoni); istintualità come fonte di arretratezza, di miseria, di abbrutimento. L'istintualità o irrazionalità verrebbe da Satana e sarebbe incoraggiata da pensatori demoniaci come Campanella, Fourier, Proudhon, Lawrence. Con un minimo di buon senso e di "ragione" è facilmente verificabile che non vi è nulla di irrazionale nell'istinto: nella economia del processo di sviluppo della personalità umana, la ragione è a servizio dell'istinto. Se istinto e stimolo vitale, pulsione alla naturale realizzazione di sé, la ragione non è altro che la capacità di elaborare le esperienze in funzione dell'io istintuale - in funzione cioè del soddisfacimento degli stimoli, dei bisogni naturali. Tanto più complessa è la realtà e complesse sono le esperienze, tanto più sviluppata sarà la ragione, il cui lavoro di elaborazione e valutazione ai fini della realizzazione dell'io-istintuale diventa correlativamente complesso - tuttavia la sua funzione resta immutata: la ragione a servizio dell'istinto.
Cerchiamo di essere chiari e semplici. Quando parlo di ragione non faccio riferimento a una categoria filosofica astratta ma a una attività pratica mentale, propria di ciascun uomo - e nulla, se non la presunzione e l'ignoranza, ci autorizza a negarla anche negli animali. Ciascun uomo è fornito di una propria ragione - indipendentemente dal fatto che qualcuno la usi poco o nulla. Pertanto, innanzitutto, direi che è sicuramente razionale pensare con la propria testa e decisamente irrazionale pensare con la testa di altri. Chi pretende - come fa il sistema - di farmi pensare con la testa di Aristotele, o di Hegel, o di Marx agisce in modo irrazionale e vuole che io mi comporti in modo irrazionale - anche ammesso che nella filosofia di quei signori la delega a pensare per gli altri sia un fatto razionale. Si potrebbe facilmente ridicolizzare l'istituto della delega - espressione razionale della falsa razionalità del sistema - allargandolo dal soddisfacimento di bisogni intellettuali (produrre in proprio, far politica, elaborare una propria morale, avere una propria visione del mondo) al soddisfacimento di altri bisogni primari, specificamente corporali, come il nutrirsi, il defecare, il chiavare.
In che senso, esisterebbero categorie umane "istintuali", "emotive" e "non razionali, quali i bambini, le donne e i popoli primitivi o sottosviluppati? Se in ciascun uomo - e in ogni creatura vivente - l'istinto necessita della ragione per potersi realizzare? Non è concepibile, in natura, l'appagamento dell'istinto senza un rapporto con la realtà esterna, senza conoscenza, senza elaborazione della conoscenza, senza l'uso quindi della ragione. Il fatto è che il sistema privilegia sul piano della propria morale la razionalità, perché è attraverso questa che può portare avanti il suo disegno di condizionamento e di assoggettamento dell'uomo. La razionalità distorta, non più in funzione della istintualità, della naturale realizzazione dell'io, ma in funzione dei fini di potere del sistema, è attualizzata nella repressione e nella rimozione, nella deviazione e nella sublimazione dei desideri, dei bisogni istintuali. Non la ragione in funzione dell'essere, ma in funzione dell'avere.
L'istintualità - la pulsione alla vita, l'esigenza della libertà di essere in naturale armonico con il mondo vivente - non è facilmente sopprimibile nell'uomo. E non è neppure facilmente manipolabile, in modo diretto. È infatti attraverso la ragione, con un processo di condizionamento culturale, opportunamente dosato per ciascun gruppo umano se non per ciascun uomo, che si arriva alla repressione e allo snaturamento della istintualità. Tuttavia, e nonostante l'evidente situazione di massificazione e di degradazione in cui versano i popoli, io affermo che non c'è lavaggio di cervello, non ci sono processi di repressione o di deviazione o di sublimazione totali e irreversibili. Io credo e affermo che in ogni uomo la spinta alla libera realizzazione di sé è irresistibile e insopprimibile come la vita stessa. Intanto va sottolineato che un sistema sociale che teorizza e applica sistematicamente lo sfruttamento del lavoro umano, l'assassinio di massa, la repressione delle galere e dei ghetti, l'alienazione e la follia può essere scientifico, può anche essere matematico ma è certamente irrazionale. E va anche sottolineato che l'affermazione dell'uso individuale della ragione è una affermazione estremamente eversiva e destabilizzante per le sue implicazioni - nulla fa più paura al sistema degli uomini che pensano con la propria testa.
Tolstoi - come altri pensatori libertari - prefigurando una nuova società umana fondata sul rapporto "ragione-natura", traccia alcune importanti linee di azione rivoluzionaria. "Come Godwin e, in larga misura, Proudhon, ritiene necessaria una rivoluzione morale e non politica: la rivoluzione politica, infatti, attacca lo stato e la proprietà dal di fuori, mentre la rivoluzione morale opera all'interno della società ne mina le basi stesse.... (Egli) vede un solo mezzo efficace per trasformare la società: il ricorso alla ragione e, in ultima istanza, alla persuasione e all'esempio. Chi desidera abolire lo stato deve cessare di cooperare con esso, rifiutarsi di servire nell'esercito, nella polizia, nei tribunali, rifiutarsi di pagare le tasse. Il rifiuto all'obbedienza è, in altre parole, la grande arma" (3).
L'idea di Tolstoi del rifiuto al sistema come la "grande arma" della rivoluzione deriva da esperienze concrete, dalla conoscenza diretta della vita e della cultura contadina del suo popolo, e delle risposte di questo alla oppressione zarista. C'è nella resistenza passiva delle nostre comunità contadine - liquidata settariamente e semplicisticamente dai paleomarxisti come immaturità e fatalismo - una ben precisa forma di rifiuto nei confronti del sistema di potere esterno: è una razionale, storica, efficace forma di lotta per evitare con l'alienazione (cioè con la totale degradazione della propria cultura) quel processo di acculturazione strumentale necessario ai padroni per lo sfruttamento intensivo dell'uomo. È una forma di lotta, io credo, che se fosse stata stimolata e generalizzata avrebbe già portato al crollo del sistema di potere statalista - ed è una forma di lotta ovviamente o frenata o calunniata o repressa tanto dal potere borghese quanto da quello marxista, che hanno ambedue bisogno, per esistere, dello stato e delle sue istituzioni coercitive.
Ci sono nel popolo atteggiamenti culturali di sprezzante indifferenza per le "magnifiche" invenzioni del sistema - atteggiamenti che rappresentano chiaramente scelte ideologiche e politiche rivoluzionarie. Illuminante una definizione, diffusa nell'oristanese, che di sé dà un contadino: "Di podis chistionai de sa mellus cosa, de Deus o de Filosofia; t'ad a rispondi sempri: mrinca tua a issus, buffa!" (Gli puoi parlare delle cose più nobili, di Dio o di Filosofia; ti risponderà sempre: "falli fottere, bevi!).
Mi viene a mente, seguendo la logica di questo discorso, la naturale ritrosia di Cartesio a pubblicare i suoi scritti, e più in particolare ciò che egli scrive a Chanut in una lettera del 1° novembre del 1646: "... se fossi stato solamente così accorto come i selvaggi ritengono - a quel che si dice - che siano le scimmie, non sarei mai stato conosciuto da chicchessia come facitore di libri: essi pensano che le scimmie potrebbero parlare se volessero, ma se ne astengono per non essere costrette a lavorare. Ora per non avere avuto la stessa prudenza ad astenermi dallo scrivere, non ho più quel tempo libero e quel riposo di cui disporrei se avessi saputo tacere" (4).
Il rifiuto permanente, sottile, ironico presente nel popolo (umanità ancora e nonostante tutto "autentica") nei confronti dell'autore, dell'ordine, della cultura del sistema è un rifiuto istintuale e razionale insieme. La crescita naturale dell'uomo - che chiamo processo razionale di realizzazione delle istintualità - passa evidentemente attraverso linee che sono esattamente all'opposto di quelle violentemente imposte dal sistema.

Ma quale ignoranza?

Lo stesso concetto comune di "ignoranza" ma visto e valutato sulla sostanza dei fatti, in particolare sull'uso che il sistema ne fa contrapponendolo al concetto di "cultura". C'è già una matrice politica nella errata contrapposizione di "ignoranza" a "cultura". L'uso ambiguo di "ignoranza" che ne fa il sistema ricalca l'anfibolia classica. L'opposto di "colto" e "incolto", uomo senza cultura - una valutazione dispregiativa diffusa tra i tedeschi per indicare l'Ausländer. Dove "uomo senza cultura" vuol dire precisamente "senza la cultura della classe egemone". "Ignoranza" è l'opposto di "conoscenza"; ed è una forzatura politica, un pregiudizio razzistico voler intendere la "conoscenza" sempre e soltanto correlata alla cultura egemone, unica depositaria di verità e scientificità.
"Ignoranza" significa semplicemente non conoscere qualcosa - o anche rifiutarsi di conoscerla per non doverla accettare. Tuttavia non c'è uomo, in condizioni di esserlo, che non conosca o non accetti tutto ciò che gli occorre per poter vivere e crescere, in un dato ambiente, in un dato momento storico. Conoscere è un processo naturale di crescita, proprio di ogni creatura vivente. In pratica io non conosco - né posso concepire in teoria - alcun uomo "ignorante". Se vogliamo quantificare e gerarchizzare in rapporto a un modello di uomo e di ambiente (ma è sempre una valutazione politico-morale e quindi soggettiva), si potrà dire che esistono diversi livelli di conoscenza, in quantità e in qualità, in rapporto agli interessi di ciascun uomo e in rapporto alla realtà più o meno complessa del mondo in cui ciascun uomo vive e si realizza. E poiché la conoscenza è un fatto di scelte - libere o necessarie o imposte - i diversi livelli di conoscenza sono correlati alle possibilità di scelta che ha ciascun uomo.
Se vogliamo parlare di "vera conoscenza", direi che essa non deriva dalle scelte moralistiche quando non scopertamente politiche (in senso deteriore) imposte dal sistema, ma scaturisce sempre e soltanto dalle scelte "libere", individuali, armonizzate con le scelte "necessarie", volute dalla natura - di cui l'uomo è componente, le cui leggi non possono contrastare con la libertà dell'uomo. Il concetto comune di "ignoranza", nel sistema, è fondato su una serie di pregiudizi razzistici tendenti a canalizzare e a strumentalizzare l'uomo per mezzo della sua esigenza di conoscere. Conoscere non è più ciò che realizza l'uomo, ma diventa un processo di condizionamento che torna utile alla economia del sistema - o più precisamente della consorteria al potere. In pratica sarebbe "ignorante" il cittadino che non conosca o non accetti le regole del sistema. Ho detto "regole" perché in definitiva tutto il sapere riservato al popolo è costituito da un ben dosato complesso di precetti pseudomorali.
La conoscenza di un sapere politicizzato è falsa e artificiosa e va ovviamente a scapito di una conoscenza basata sulla ragione individuale e sulla verità. Una persona "colta" in senso distorto è facile preda dei condizionamenti del potere connesso o innestabile a quel tipo di cultura. Al contrario, l'ignoranza di quella cultura è una formidabile difesa per evitare i condizionamenti che passano attraverso la stessa. Ciò tenendo presente che l'"ignorante", lo stesso analfabeta strumentale, è più colto dell'acculturato integrato nel sistema, se dimostra di aver acquistato strumenti e capacità di conoscere e modificare (far crescere) se stesso nel mondo in cui vive.
Il popolo - si dice - è ignorante, "non ha cultura". Perciò bisogna istruirlo e dargli una cultura. Inizia da qui, da un falso, il cancan degli interventi di educazione degli adulti. C'è comunque una resistenza nell'uomo alla manipolazione dall'esterno della propria personalità, in definitiva del proprio equilibrio socio-culturale: questa resistenza è la causa logica del fallimento di tutte le iniziative educative promosse dal sistema. Un fallimento però che purtroppo è parziale, perché un minimo di condizionamento qualitativo, in generale, e un minimo di condizionamento qualitativo, in particolare, ciascuna di tali iniziative riesce sempre a ottenere. Devo dire - per averle vissute dall'interno - che le malizie tecniche del processo di condizionamento attraverso l'educazione sono infinite. E aggiungo, ottimisticamente: quanto infinite sono le malizie umane, individuali e di gruppo, per evitarlo.
È di recente data la riedizione, in termini più scientifici e tecniche e strumenti più sofisticati, di interventi educativi riservati al popolo, passando attraverso i punti chiave, utilizzando i moduli più significativi della cultura del popolo (ammettendone quindi l'esistenza) per vuotarla di contenuti vivi, degradarla e disgregarla, riproporla poi folclorizzata, inerte. Viene fatto di credere, a questo proposito, che gli studi antropologici dei marxisti in Italia sembrerebbero avere come scopo una sempre più efficiente organizzazione di "feste dell'Unità" - nel senso di voler operare un innesto (già operato dal cattolicesimo) di una ideologia riformistica statalista ed elitaria sul ceppo popolare di tradizioni comunitarie autoctone.

Criminalità e educazione

Anche dopo l'acculturazione e l'integrazione della classe operaia - che ha imparato a usare la cravatta con disinvoltura a fare propria la concezione borghese dello stato e del potere e a sostituirsi alla polizia nei servizi d'ordine - resta ancora diffuso il luogo comune di un popolo ignorante, rozzo e tendenzialmente delinquente, contrapposto alla classe borghese (cui si aggiunge la classe operaia integrata), colta, di modi distinti, tendenzialmente onesta. Questa volta è di turno il binomio ignoranza-criminalità. Le due parti del binomio (artificioso) vengono fatte apparire sempre in stretta correlazione tra loro, tanto che finiscono per confondersi l'una con l'altra.
Il binomio ignoranza-criminalità è presente in tutti gli studi sociologici che io conosco sulla Sardegna. Altrove e più volte, ho rilevato che ogni cultura (e nel suo interno ciascun individuo) ha peculiari forme di risposta nel rifiutare le leggi che le (gli) vengono imposte. Cosicché i fenomeni di criminalità si possono correlare alla "ignoranza" come alla "conoscenza", alla povertà come alla ricchezza - senza però dimenticare che è il potere a decidere quale azione è criminale ma chi è criminale. Ed è evidente che criminalizzando soltanto il popolo, il ventilato stato di diritto o è un'utopia o è una solenne truffa. Far derivare la criminalità dalla ignoranza ha portato molti studiosi, anche in buona fede (nel senso che credevano nel riscatto civile del popolo) a battersi per la promozione di interventi e campagne portati avanti poi dagli "esperti" del settore appositamente creato dal sistema, secondo un piano che abbiamo già visto: la dissoluzione della cultura autoctona per sostituirla con un rudimento di cultura, alienante, necessaria per lo sfruttamento integrale dell'uomo.
L'equivoco nasce dal fideismo, tipico del paleo-marxismo, sulla redenzione dell'umanità sfruttata mediante l'espropriazione e l'acquisizione degli strumenti di produzione e culturali della classe al potere. La lotta rivoluzionaria per la espropriazione e l'acquisizione degli strumenti di produzione, ha visto i marxisti ripiegare sempre più su posizioni riformistiche e di compromesso. Non più espropriazione ma semplicemente acquisizione per imitazione del modello culturale e politico della borghesia: nella assunzione di privilegi, nel modo di vivere, nel linguaggio, nel fare proprie le istituzioni stataliste - fino ad integrarsi, come assimilati, nella realtà dell'antagonista di classe, mercanteggiando una cogestione del potere in posizione subalterna. Non si tratta solo di rivoluzione mancata ma di mancanza di rivoluzione. Già sul piano della ideologia, le trasformazioni del marxismo portano a immagini grottesche di un sistema "modificato per capovolgimento". Hegel è un idealista-reazionario. Tuttavia Marx riconosce che la teoria di Hegel sulla dialettica è perfetta. Ma la perfezione di un idealista-reazionario è necessariamente una perfezione idealista-reazionaria. Per farla diventare materialista-progressista bisogna "capovolgerla": anziché sulla testa farla poggiare sui piedi. Questo dice Marx, se ho ben capito (7).

Dove ci porta il "progresso"

Le considerazioni fin qui esposte ci aiutano a mettere a fuoco un sistema che si definisce civile, scientifico, efficiente ma che lo è soltanto nella facciata. Computers, astronavi, missili intercontinentali, mezzi di locomozione a propulsione nucleare, centrali atomiche... tutto questo non è che la moderna "progressista" facciata di un edificio nel cui interno l'umanità è prigioniera come in un lager, incasellata, snaturata, alienata. Il sistema ha potenziato e perfezionato oltre ogni limite la scienza e la tecnica ai soli fini del profitto, del privilegio - rapinando il patrimonio naturale comune fino al depauperamento, sfruttando l'uomo fino al totale abbrutimento. Nel contempo, il sistema è rimasto grezzo, ignorante su tutto ciò che riguarda la conoscenza vera della natura, la creazione di strumenti che proteggano l'uomo dalle avversità ambientali, dai propri limiti fisiologici, che lo aiutino a crescere e a realizzarsi più liberamente possibile.
Sempre più chiaramente e con forza dobbiamo dire che il tanto decantato progresso è in funzione dello sviluppo e perfezionamento della macchina bellica per tenere assoggettati i popoli e della macchina produttiva per realizzare lo sfruttamento dei popoli. Non ci sono eccezioni a questa regola: le briciole di progresso che in "giuste dosi" e "una tantum" cadono sui lavoratori rientrano nella fase di adescamento reiterato, che fa parte del gioco. La liberazione dell'uomo dagli ingranaggi della mostruosa macchina è in una rivoluzione culturale, prima ancora che politica. La presa di coscienza di sé, dell'insanabile conflitto esistente tra la natura umana, le esigenze dell'essere e del divenire liberi, e la sostanza disumana, meccanicistica del sistema che le esigenze snatura e devia per schiavizzare e sfruttare.
Presa di coscienza è riappropriazione di sé e rifiuto di tutto ciò che non è autentico - un lavoro lungo difficile di continue piccole scelte alla ricerca di sé contro il millenario sottile ininterrotto processo di condizionamento cui ci ha sottoposto con ogni mezzo il potere. Una ricerca nel passato storico, nella cultura nostra, come popolo e come individui, per ritrovare e scegliere gli strumenti con cui opporci e lottare contro la degradazione e l'alienazione.

L'utopia anarchica cresce

Nel momento stesso in cui il sistema mostra tutta la sua efficienza oppressiva e sfruttatrice e dispiega tutta la sua potenza repressiva, mostra anche la sua debolezza, la paura che il binomio oppressori-oppressi stia per giungere al limite di rottura.
Il processo di assoggettamento e di sfruttamento non può proseguire indefinitamente: ha dei limiti obiettivi di rottura. Il sistema conosce bene il gioco del tirare la corda senza romperla, allentandola al momento opportuno - ma proprio per questo, per presunzione, commette l'errore di sottovalutare la forza della controparte, degli oppressi. Il gioco è incerto, rischioso; prima o poi la corda si spezza. E non ci saranno fiancheggiatori e persuasori, non ci saranno partiti e sindacati, non ci saranno preti e maestri di scuola che potranno riannodarla. Sempre più il popolo viene truffato, affamato, rapinato, sfruttato. Disoccupazione, miseria, fame, galera non sono una temuta prospettiva ma una realtà del nostro tempo. Non è rimasta nessuna forza politica che abbia conservato credibilità, che possa opporsi a una simile degradazione della vita civile. Il sistema ha saputo in questi ultimi anni inglobare tutte le opposizioni, creando la situazione favorevole per ristrutturare in forme più razionali e scientifiche la macchina di oppressione e sfruttamento.
Il dio Marx è miseramente fallito. Non c'è stata la profetizzata rivoluzione proletaria in seguito al generale processo di industrializzazione. Non c'è stata presa di potere del proletariato conseguente all'accumulo delle contraddizioni del sistema borghese. C'è stata sì l'industrializzazione, con alti costi e poca occupazione - non cattedrali in un deserto, ma cattedrali che hanno prodotto il deserto. Ci sono state sì le contraddizioni, a montagne, e non poche volute e prodotte in anticipo dallo stesso sistema per meglio controllarle; contraddizioni che il sistema ha saputo fagocitare ingrassando, che ha perfino mercificato, facendone sempre ricadere i costi sul popolo. La sinistra marxista non è arrivata al potere con la rivoluzione, con il popolo. Ci è arrivata e ci sta arrivando con la prassi borghese dell'intrigo, del compromesso, con la svendita sottobanco dell'ideologia, con il tradimento quotidiano della rivoluzione e del popolo.
La sinistra di classe è ormai irrimediabilmente coinvolta nei giochi di potere dei padroni. Il PCI - dopo il PSI, ma in modo più grezzo e senza riserve - compartecipa al potere assumendo responsabilità e con la forza che gli viene dal suo passato rivoluzionario dando credito a un governo reazionario, fascista, clericale: approvando la politica andreottiana dei sacrifici, la politica di riconversione industriale sulla pelle dei salariati, la politica clericale della revisione del concordato che dà nuovi e maggiori privilegi al Vaticano, la politica atlantista che ha venduto la nostra Terra al militarismo yankee, la politica della deportazione degli oppositori nei lager e dell'assassinio legalizzato. Il parlamento, che si definisce "rappresentanza del popolo" e che in nome del popolo osa legiferare, oggi come ieri è soltanto una consorteria di ruffiani che tengono il sacco ai ladri che derubano il lavoratore.
Per mascherare il dilagare della corruzione e del ladrocinio - connaturati al potere - il sistema aizza con la violenza e con ogni provocazione il popolo, provocando risposte rabbiose nei ceti più sprovveduti; il sistema dilata e drammatizza anche banali episodi di violenza popolare, quando anche non li produce in proprio o non se li inventa, per avere l'alibi di turpi interventi repressivi.
Il preciso scopo dell'ondata di violenza in atto in Italia non è la destabilizzazione dell'attuale regime, non è lo scardinamento dello stato - artefice e beneficiario unico di questa e di ogni violenza è il sistema statalista. Il preciso scopo della violenza è quello di mettere a tacere ogni opposizione popolare, con la eliminazione anche fisica dei cittadini che turbano "l'ordine costituito". Ordine che significa nella sua espressione ottimale l'autocastrazione del cittadino: il consenso dell'oppresso a farsi continuare a opprimere.
Nella colonia Sardegna, area di servizi militari e petrolchimici, terra di lager e di criminali sperimentazioni, la strategia della tensione assume forme e dimensioni eccezionali, che travalicano perfino le stesse leggi fasciste dello stato "democratico". Oltre che ai pastori-banditi, l'apparato repressivo rivolge da tempo la sua attenzione ai compagni-banditi, sfogando la sua rabbia specialmente sui giovani, capaci di sbocchi creativi. Sui giovani si spara a vista. I giovani di oggi sono i pericolosi eversori di domani, la parola d'ordine e di eliminarli - giusta la teoria dell'igiene preventiva.
È ipocrisia o malafede richiamare le "forze dell'ordine" al rispetto dello stato di diritto, delle libertà sancite dalla costituzione o dall'elementare buonsenso. Il popolo sa, per averlo sempre sperimentato sulla propria pelle, che lo stato di diritto non è mai esistito, che la carta costituzionale è carta da cesso, che non può esserci buonsenso in killer addestrati a colpire il bersaglio - sagome di cartone o ragazzini di sedici anni come Wilson Spiga, come Giuliano Marras. Eppure - non lo dimentichino i signori della consorteria - tanto più il sistema aumenta l'oppressione e la repressione, tanto più aumenta la resistenza del popolo - così come, tanto più la resistenza nel popolo tende a esprimersi in forme organizzate, tanto più il sistema dispiega gli strumenti della repressione.

Questa è la situazione - estremamente dura, difficile, dolorosa. Ed è questo il momento ideale per affermarsi nel popolo la rivoluzione libertaria - la presa di coscienza individuale e di gruppo, la riappropriazione di sé come uomo e come umanità: contro i miti delle grandi teorie rivoluzionarie che hanno tutte come obiettivo la presa del potere e quindi la conservazione del sistema statalista, della oppressione e dello sfruttamento.
Sembra che a qualcuno che milita sul fronte del popolo faccia paura ammettere che l'utopia anarchica non è più utopia, che è nata e cresce. (...)

(1) U. Dessy - "Il mitra puntato male", in "Sardegna Oggi" n° 19 del 1.2.1963, pag. 17.

(2) M.G. Rosada - "Le università popolari" - Ed. Riuniti, 1975, pag. 16.

(3) G. Woodcock - "L'anarchia: storia delle idee e dei movimenti libertari" - Feltrinelli, 1967 - pagg. 204/205.

(4) "Il pensiero di René Descartes" a cura di G. Crapulli - Torino 1972 - pagg. XIX nota 2.



Ugo Dessy (Terralba, 1926) ha sempre partecipato attivamente alle lotte sociali del popolo sardo, tra le quali l'occupazione delle terre incolte e le lotte antifeudali dei pescatori e della popolazione di Cabras. Tra gli anni '50 e '60 ha costituito in Sardegna i primi centri di cultura laici e libertari, muovendo dall'esperienza di educazione popolare fatta con i gruppi di Ignazio Silone nell'Associazione italiana per la libertà della cultura. È stato tra i relatori al 1° Congresso Antimilitarista (Milano, 4 novembre 1969) promosso da radicali, anarchici, antimilitaristi, nonviolenti: la sua relazione documenta per la prima volta il processo di militarizzazione in atto in Sardegna e l'entità delle superfici occupate per usi bellici. Umanità Nova pubblica questa relazione e Dessy collabora con numerosi scritti alla redazione del settimanale anarchico, per due anni.

Attualmente redattore delle riviste Hérodote e L'arma propria, nonché direttore responsabile di Sa Repubblica Sarda e Sardegna libertaria, Dessy ha collaborato e tuttora collabora con numerosi periodici. Narratore e saggista, ha scritto vari libri, tra i quali ricordiamo: Il testimone (Fossataro, Cagliari 1967), L'invasione della Sardegna (Feltrinelli, Milano 1969), Stato di polizia, giustizia e repressione in Sardegna (Feltrinelli, Milano 1970, scritto sotto pseudonimo), Un'isola per i militari (Marsilio, Padova 1972), Il diario dello stregone di Iknusu (Marsilio, Padova 1973), Le lotte dei pescatori di Cabras (Marsilio, Padova 1973), Quali banditi? (Bertani, Verona 1977), La Maddalena, morte atomica nel Mediterraneo (Bertani, Verona 1978), I galli non cantano più (Bertani, Verona 1978). Ha in preparazione il romanzo Iknusu 74, nonché il volume Educazione popolare e movimento di liberazione (ampi stralci della cui prefazione pubblichiamo in queste pagine). Dessy ha in via di stesura il saggio Contro la barbarie della civiltà e il romanzo autobiografico Una vita come tante.