Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 10 nr. 80
febbraio 1980


Rivista Anarchica Online

I Necaev del leninismo
di Gianfranco Bertoli (carcere speciale di Nuoro)

L'immagine che mi faccio del lettore costante della stampa anarchica è quella di un individuo che si vuole capace e libero di pensare con la sua testa in ogni circostanza e si dispone ad affrontare la lettura di un qualsiasi articolo, quale ne sia il soggetto e l'autore, scevro da pregiudizi (favorevoli o sfavorevoli che siano), con attenzione e vigile spirito critico nell'intento di confrontarvicisi e trarne le sue personali deduzioni e considerazioni.
Ciò mi porta ad ipotizzare che molti di coloro che hanno letto alcuni miei interventi che i compagni della redazione hanno ritenuto, in periodi diversi, di pubblicare sulle pagine di "A", possano ritenere di aver riscontrato delle contraddizioni abbastanza stridenti tra alcuni giudizi ed opinioni da me sempre espresse sugli appartenenti alle organizzazioni di matrice leninista che oggi conducono pratiche di "lotta armata". Da parte mia credo di poter sostenere che queste "contraddizioni" sono più apparenti che sostanziali e che non si tratta in realtà che del frutto di ottiche e prospettive differenti perché determinate dalla necessità e dall'occasione di considerarne particolari aspetti nel quadro di uno stesso fenomeno.. Quello che vorrei chiarire è che uno sguardo all'"altra faccia della luna" non comporta modifica alcuna delle nostra opinione circa l'aspetto della faccia considerata in precedenza permettendo, però, una migliore comprensione morfologica complessiva.
Qualche lettore di "A" (se attento e... di buona memoria), dopo aver preso visione di quei due stralci che sono stati pubblicati sul numero di novembre (in merito all'assassinio di Cinieri, ndr) e nei quali facevo ricorso all'espressione "cosca mafiosa" parlando dei fautori della "potere rosso" nelle carceri speciali, qualche lettore - dicevo - potrà essere andato, con qualche perplessità, a considerare quanto da me scritto in una lettera che fu pubblicata sul n.62 (febbraio '78). In quella occasione, infatti, in indiretta polemica con uno scritto apparso su un'altra nostra pubblicazione, scrivevo testualmente: (...) militanti rivoluzionari dei quali si possono non condividere i metodi, si deve certo rifiutare l'ideologia autoritaria che professano, si possono anche, al limite, considerare degli avversari politici, ma che meritano tutto il nostro rispetto per l'onestà ed il coraggio con cui lottano contro un potere che è anche nostro nemico. Ebbene, anche se a qualcuno potrà apparire paradossale alla luce delle mie ultime prese di posizione, ancora oggi potrei sottoscrivere senza esitazione quelle mie parole di allora. Rimango convinto che i fautori della "partito armato" siano stati mossi nell'intraprendere la via della lotta violenta dalla aspirazione ad una società più giusta ed umana. Continuo a vedere la loro scelta di rottura con ogni forma di compromesso nella lotta contro il sistema come motivata da una volontà di agire in prima persona per modificare una realtà aberrante e uscire da una situazione di tragica impotenza di tutto il movimento rivoluzionario. Tutto questo va, secondo me, riconosciuto e torna a loro onore. Sotto questo punto di vista non posso negar loro quel rispetto e quella stima che spettano sempre a chi lotta, rischia e soffre per una causa che ritiene giusta. Quello che addolora è il fatto che, vittime della nefasta influenza della pressoché incontrastata egemonia del dogmatismo marxista (che ancora oggi condiziona, sotto il profilo culturale ed ideologico, tutti o quasi i movimenti rivoluzionari del mondo) non abbiano saputo trovare niente di meglio che rifugiarsi nella più fanatica e acritica adesione alla più cinica, gerarchica e illibertaria teoria che sia stata partorita dall'interpretazione del marxismo.
Certo si è trattato in una qualche misura di un approdo obbligato ove si consideri la loro necessità di conciliare il fatalismo deterministico dell'economicismo marziano con lo spirito volontaristico che li animava spingendoli a lottare per realizzare la profezia. È da questa scelta che prende corpo il loro volersi costituire in "rivoluzionari di professione", figura sostitutiva della "classe operaia" nel ruolo carismatico attribuito a quest'ultima da Marx di classe che detiene oggettivamente la funzione e il compito storico di liberare, liberando se stessa, dalla alienazione l'intero genere umano. Dall'ambizione, poi, di fare adeguare la realtà alla profezia trae origine la teorizzazione dell'ineluttabile attualità della lotta armata ed il tentativo di portarla avanti in prima persona, una volta accettato il presupposto che l'antagonismo tra "classe operaia" e "borghesia" non può non acuirsi fino ad arrivare, attraverso l'innalzamento progressivo del "livello di scontro", allo stadio della "guerra civile rivoluzionaria". Una volta dato per scontato che da questo scontro finale non potrà che realizzarsi il trionfo del proletariato, visto che ciò non avviene spontaneamente ed inevitabilmente come "dovrebbe", ecco intervenire il "partito" (composto di "avanguardie coscienti" perché il signor Lenin ha già stabilito una volta per tutte che il proletariato lasciato a se stesso è incapace di assumersi il suo "compito storico") a mettere in scena la rappresentazione spettacolare di una situazione che non si è verificata, nella speranza di forzare la realtà storica ad adeguarvisi.
Tutto ciò rappresenta aspetti patetici e commoventi e potrebbe farci guardare con tenerezza e con indulgente simpatia a tanto entusiasmo mal riposto e a tanta abnegazione sprecata, se non fosse che tutta la "scienza" rivoluzionaria del leninismo è riconducibile ad una strategia di conquista del potere politico e se dei risultati che il trionfo di questa dottrina ha prodotto, laddove si è verificato, non avessimo tante dolorose esperienze storiche e sotto gli occhi la sanguinosa evidenza. Certo il buon Vladimir Ilich ha sempre tenuto, a suo tempo, a rassicurarci garantendoci che il fine ultimo, "escatologico", verso cui tende la sua prassi rivoluzionaria è, pur sempre, il comunismo, la società senza classi e l'estinzione dello Stato. Sotto sotto (si veda la Stato e rivoluzione) ci dice che vuole anche lui l'anarchia. Basta aver pazienza, egli ci ammonisce. Lo Stato non può "abolirsi", esso dovrà "estinguersi" da sé e ciò avverrà naturalmente, in forza delle "sacre" leggi dell'economia, secondo quanto profetizzato dal genio incommensurabile della coppia tedesca che ha capito e previsto tutto. Intanto godetevi la "dittatura del proletariato", il gulag, la polizia politica che vi sbarazzerà dei "controrivoluzionari borghesi" (che devono essere piuttosto duri a morire se a più di sessant'anni dalla "rivoluzione d'ottobre" si è costretti a tenerne in carcere centinaia di migliaia).
Da questa concezione d'una rivoluzione in due fasi - l'una (quella della presa del potere politico da parte della "partito") da attuare come obiettivo immediato, l'altra è rinviata ad un mitico futuro indeterminato nel tempo e tanto lontano da poterlo paragonare alla "regno di dio, delle speranze cristiane - discende che l'evidenza della riducibilità di tutta la "scienza" del leninismo ad una strategia ed una tecnica finalizzate alla conquista del potere assoluto. Ora se consideriamo come nella figura del "rivoluzionario di professione" (quadro politico-militare di un partito gerarchicamente strutturato e rigidamente disciplinato) si realizza un genere d'uomo alienato (non molto dissimile da un membro dell'ordine dei gesuiti e del tipo di rivoluzionario reclamizzato da Necacev), un uomo cioè che ha un solo fine e una sola passione, una volta resosi conto che tutto il leninismo si riduce ad un progetto di conquista e di gestione del potere, finiremo, inevitabilmente, con il giungere alla conclusione che questo nuovo tipo di " monaco-soldato" ha interriorizzato una vera e propria "mistica del potere" e solo questo vede, sogna, adora. Il "rivoluzionario professionale" è perciò, al tempo stesso, un aspirante "gestore professionale" del potere e tale possiamo considerarlo a tutti gli effetti. Al concetto stesso di "potere" essi hanno finito con l'attribuire una valenza positiva, anche se si dice di volerlo per farne un mezzo per realizzare il "socialismo", questo mezzo diventa il fine.

Potere "rosso" e potere mafioso

Nulla di strano né difficile da spiegarsi, quindi, se e quando le alterne vicende di una lotta senza esclusione di colpi con chi detiene oggi il potere statale portano qualcuno di loro, nelle prigioni del regime, questi militanti, nella manifesta impossibilità di proporsi come obiettivo la conquista e la gestione del potere statale, si consolino con quello della costruzione, all'interno della stessa istituzione che reprime e sottomette alle sue esigenze, di una sottospecie di potere, quel potere rosso appunto che è divenuto ora la parola d'ordine ed il leit-motiv di tutti i loro "documenti di lotta", "analisi ", "comunicati", nelle e dalle carceri. Una qualsiasi forma di potere, però, che si voglia costruire ed esercitare, in forma più o meno sotterranea, nella stessa dimensione spazio-temporale che è già tenuta da un potere ufficiale e consolidato, non può non assumere aspetti e modalità di funzionamento che rappresentano oggettive analogie con il più tradizionale dei poteri sommersi, quello che viene appunto definito "mafioso".
Ed è proprio in questo senso e non in quello di un giudizio morale di disprezzo verso tutti loro (vi sono tra essi persone verso le quali sento soggettivamente la massima stima), che ho ritenuto parlare di loro chiamandoli "cosca mafiosa". Il mio discorso, oggi, a questa espressione non costituisce una atteggiamento contraddittorio con il mio modo di considerarli quando scrivevo che hanno diritto al nostro rispetto. Continuo a vedere nei brigatisti rossi degli autentici rivoluzionari, coerenti con la loro interpretazione dell'ideologia cui aderiscono, coraggiosi ed onesti, quindi, sotto questo punto di vista.
La loro accettazione del leninismo, però, implica una concezione dell'idea di rivoluzione che è antitetica ed inconciliabile con quella che ne ho io ed è proprio dal doveroso riconoscimento che essi sanno essere coerenti fino alle estreme conseguenze con i fini che si propongono che, essendo loro fine il potere, non posso fare a meno di considerarli degli avversari con i quali sarebbe, per un anarchico, incoerente ed illusorio dare per ipotizzabile qualsiasi forma di collaborazione che vada oltre qualche sporadica e contingente situazione particolare.
Oltre a questo, nel cercar di comprendere come e perché si sia determinata tra molti dei militanti delle organizzazioni comuniste combattenti incarcerati una disponibilità al ricorso a metodi che sono stati, da sempre, appannaggio di ben altro tipo di detenuti (quelli appunto che aspirano ad esercitare all'interno dell'istituzione carceraria una supremazia di tipo mafioso), non può venir sottovalutato un certo determinismo ambientale. Dal processo di acculturazione accelerata alla loro "vulgata" del verbo marxiano del maggior numero di persone possibile, si è venuta a formare tutta una schiera di neo-militanti e di simpatizzanti del "partito armato" che lungi dall'essersi liberata dalla sua vecchia mentalità e dal suo vecchio metro di valori, li ha portati con sé, amalgamandoli con quanto hanno acquisito della nuova "rivelazione" così com'è stata loro trasmessa. Fatto non nuovo nella storia di tante colonizzazioni ed "evangelizzazioni" il condizionamento non è stato a senso unico e gli stessi facitori di proseliti hanno finito col restarne influenzati, sino ad assimilarne certe prassi comportamentali.
Credere di avere individuato la presenza di alcune analogie in due fenomeni diversi non ci autorizza però ad una classificazione semplicistica che li ponga sullo stesso piano. Sarebbe pertanto metodologicamente scorretto non prende in considerazione quelle caratteristiche peculiari che, nel caso specifico, diversificano tra loro "potere rosso" e "potere mafioso" sino a farci apparire, a prima vista, addirittura assurdo ed improponibile qualsiasi parallelo. La differenza fondamentale può, secondo me, venir indicata nel fatto che, mentre ogni tipo di potere mafioso si realizza come un "sottopotere", parallelo e coesistente con un potere ufficiale che non viene contestato, né combattuto, nelle intenzioni dei suoi fautori il cosiddetto "potere rosso" è visto e voluto come contropotere, negazione antagonista di uno Stato nei confronti del quale ci si dichiara in guerra aperta e si dà per scontata la reciproca accettazione di una logica di annientamento.

Operazione "supercarceri"

Ora, a parte un certo aspetto propagandistico per cui affermare la precisa e deliberata volontà di eliminazione fisica nel progetto governativo da cui sono nate le carceri speciali, permette di esibire come una grande "vittoria" sul regime il fatto stesso di sopravvivere, rimane da vedere se e in quale misura la gestione egemonica di tutte le forme di resistenza e di lotta nelle supercarceri da parte dei militanti marxisti-leninisti non fosse già stata preventivata e giudicata come perfettamente compatibile (e anzi funzionale) al successo sotto il profilo politico del progetto repressivo che ha avuto un suo cardine nell'istituzione del sistema carcerario differenziato.
Anche se l'operazione "carceri speciali" (come del resto un po' tutta la decantata riforma penitenziaria) presenta aspetti grotteschi e tali punte di abissale stupidità da farci prevedere che finirà per rivelarsi come controproducente rispetto agli obiettivi dichiarati (ma questo è un po' il destino di tutte le scelte operative dell'attuale regime e basterebbe, a titolo di esempio, considerare nel campo della programmazione economica la vicenda del centro siderurgico di Gioia Tauro), essere stata predisposta ed attuata con uno zelo ed un accurato calcolo preventivo delle possibili ripercussioni che ne fanno un capolavoro nel suo genere.
Basterebbe osservare, per rendersene conto, come oltre ad averne, attraverso una lunga, articolata e abilmente dosata campagna psicologica, predisposto all'accettazione l'opinione pubblica, si ha avuto cura perfino di scegliere per dare il via alla realizzazione pratica del progetto il periodo dell'anno (si era la fine del luglio '77) in cui si era certi di poter più facilmente evitare di trovarsi di fronte ad un tentativo di sensibilizzazione e mobilitazione dell'opinione pubblica che si opponesse a questa innovazione. A questo punto, sia che il trasferimento nelle supercarceri venisse, come si è in pratica verificato, subìto passivamente dai diretti interessati, sia che per caso si fossero verificate delle reazioni da soffocare violentemente e fors'anche crudelmente, il gioco era fatto e risultava sempre vincente. Lo svolgimento "tranquillo" dell'operazione l'avrebbe legittimata in nome della raggiunta sicurezza e normalizzazione. L'eventuale scoppio di rivolte avrebbe dato egualmente ragione ai sostenitori della necessità ed improrogabile urgenza di quell'operazione, che avrebbe potuto esser presentata come una misura preventiva idonea a limitare i danni di ben più gravi avvenimenti che si era saputo essere in preparazione. Nel contesto di tanto perfezionismo è possibile pensare, allora, che le alte sfere ministeriali non abbiano già previsto che la creazione di un circuito carcerario speciale in cui rinchiudere una parte della popolazione detenuta avrebbe posto questa parte in una condizione psicologica tale da essere disponibile ad accettare la guida di qualsiasi gruppo organizzato riuscisse a proporsi come polo di aggregazione.
Che per il potere statale l'assunzione del ruolo di controparte esclusiva nell'ambito delle supercarceri da parte dei militanti del partito armato sia ritenuto un fenomeno utile e strumentalizzabile al fine di rendere irreversibile una situazione che si era dapprima dovuto presentare come provvisorie d'emergenza, appare in tutta la sua evidenza ove si consideri come il poter dare, attraverso i mass-media di regime, l'immagine di tutta la questione come riconducibile ad un aspetto della lotta privata tra lo Stato e le Brigate Rosse ed ogni eventuale iniziativa di lotta contro le carceri speciali come ispirata, diretta e voluta dagli uomini del partito armato, permetta di poter criminalizzare con maggior facilità ogni forma di dissenso nei confronti di questa specifica forma di repressione, e etichettando chiunque vi si impegni di "fiancheggiatore" e come tale perseguitarlo.
Nonostante le apparenze, non è che l'attuale classe politica italiana, a livello di governo, sia molto più stupida, incapace e corrotta di quelle che l'hanno preceduta in altri periodi storici, né di quelle che gestiscono oggi potere in altri paesi. Se essa si comporta assai spesso in un modo che può farcelo pensare ciò è dovuto alle circostanze storiche che la condizionano. Non è né semplice né facile riuscire a barcamenarsi per sopravvivere quando l'unica possibilità di poterlo fare è quella di accettare di gestire il proprio superamento e l'ascesa al potere di una classe di "nuovi padroni". Ancora più arduo, poi, quando ciò avviene nel contesto particolare di una società di tipo "tardo-capitalistico" che presenta notevoli e quasi incredibili disarmonie di sviluppo e nella quale sopravvivono addirittura sacche di sottosviluppo di economia pre-capitalistica. In una realtà sociale, quindi, che obbliga ad un continuo sforzo di mediazione tra interessi e pressioni contrastanti, può ben spiegarsi la scelta degli uomini di governo attuali di far continuamente appello alla sbandierata situazione di "emergenza" per garantirsi l'indispensabile consenso di massa e per poter portare avanti quegli espedienti per sopravvivere che, paradossalmente, si risolvono in iniziative idonee a predisporre le condizioni migliori per il passaggio al tipo di ordinamenti sociali che sono congeniali alla nuova classe dirigente che gli sostituirà.
Questa scelta finisce, d'altra parte, per condannare l'attuale potere a far di tutto per perpetuare quella stessa "emergenza" che pur deve mostrare di combattere con energia, efficienza, capacità. Da ciò derivano anche molte delle sue truculenze e lo sfoggio di durezza con le quali cerca di mostrare una vitalità ed una "forza" che non può possedere se non come simulazione.

Stato-partito armato: una guerra inutile

Quello che non è possibile rifiutarsi di capire è come, pur con ben diverse intenzioni e motivazioni, sia il potere ufficiale sia i militanti della lotta armata che si richiamano alla concezione leninista della rivoluzione agiscono in oggettivo concorso tra di loro per progressivamente drammatizzare lo spettacolo di una "lotta di classe" fittizia, simulacro sostitutivo della vera contrapposizione sociale ed idonea a paralizzare il potenziale sviluppo di un'autentica alternativa rivoluzionaria. È necessario, secondo me, rendersi conto che, anche se cruento e tragico l'attuale scontro che oppone tra loro i leninisti del partito armato e l'apparato repressivo dello Stato è che una guerra inutile in cui ogni azione dell'una e dell'altra parte finisce con il contribuire alla marcia in avanti di quella nuova classe dominante da cui non può che venir realizzata la più mostruosa forma di dominazione totalitaria ed assoluta che mai il genere umano abbia conosciuto. Mai come oggi si pone con drammatica urgenza per l'intera umanità la necessità di avviarsi verso forme di società fondate su principi opposti a quelli di autorità e di gerarchia sui quali si sono finora erette tutte le forme di convivenza umana storicamente conosciute.
Da parte del movimento anarchico è poi necessario evitare nel modo più assoluto di lasciarsi invischiare nel gioco di false contrapposizioni e di una fittizia "solidarietà di classe" di chi conduce una lotta che non è la nostra, finendo per cadere nella trappola di pseudo-scelte di campo del tutto ambigue e di fatto suicide. L'arrogante "aut aut", ipocrita e insignificante, avanzato al tempo del rapimento di Moro "o con lo Stato o con le B.R." non riguarda noi, per la semplice ragione che non possiamo essere che contro l'uno e contro le altre.