Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 9 nr. 76
estate 1979


Rivista Anarchica Online

Noi cooperiamo... loro comandano
di Franco Melandri

Parlare delle cooperative, soprattutto di quelle di ispirazione socialista/progressista più vicine quindi alla tematica autogestionaria, è sempre arduo soprattutto perché su ogni interessato al problema gravano decenni di propaganda tesi a presentare le cooperative come cellule della futura società socialista sempre in balia delle tempeste della repressione e del mercantilismo borghese. Questa oleografica immagine è senza dubbio in parte rispondente a realtà se si parla delle cooperative dell'inizio del secolo; delle piccole cooperative in gran parte formate da militanti di provata fede socialista, anarchica o repubblicana intransigente i quali cercavano, attraverso esse, da un lato di reagire allo strapotere padronale, dall'altro di metter in pratica per quanto possibile quell'utopia per la quale lottavano. Quelle piccole cooperative rappresentavano nella gran parte dei tentativi abbastanza ben riusciti di autogestione minimale: la piccola dimensione - in genere non più di 60/70 soci - lo stretto contatto con l'ambiente sociale in cui si trovavano ad operare cooperative contadine, edilizie, artigiane e la comune provenienza sociale, oltreché politica, dei soci permettevano ad esse di funzionare in maniera abbastanza soddisfacente dal punto di vista autogestionario.
La partecipazione dei soci (da tenere presente che nelle prime cooperative non vi erano dipendenti) alla vita sociale era costante ed effettiva ed anche le cariche sociali - presidente, consiglieri di amministrazione, ecc. - erano istituite più per non incappare nelle maglie delle leggi statali (subito istituite per imbrigliare la cooperazione) che per necessità o esigenze organizzative. Col passare degli anni la situazione è andata via via mutando sino a giungere, negli ultimi decenni, ad un totale capovolgimento del funzionamento interno, così come della funzione sociale, delle cooperative; le quali tuttavia, forse proprio per meglio mistificare l'attuale situazione, stanno intensificando l'opera di convincimento tendente a presentare ai soci ed ai lavoratori dipendenti l'attuale situazione come la miglior forma di autogestione possibile. Ma quanto questo sia falso lo si può facilmente desumere mettendo a raffronto l'attuale struttura interna delle cooperative con alcuni punti basilari dell'autogestione e cioè con la massima partecipazione dei soci alle decisioni sulla vita aziendale, che è possibile solo se accompagnata dalla massima circolazione delle informazioni e delle idee, sia infine con l'organizzazione non gerarchica del lavoro.
"In quanto soggetti economici, le cooperative sono imprese che operano sul mercato: misurano nel confronto concorrenziale con le altre forme di impresa (private e pubbliche) il grado di rigore produttivo che riescono ad impiegare nel perseguimento delle proprie finalità sociali". (da "Il movimento cooperativo nell'odierna realtà italiana" a cura della Lega Nazionale Cooperative e Mutue - Tesi per il XXX congresso - Gennaio 1978).
Questa "innocua" enunciazione contiene in nuce tutta la problematica connessa alla contrapposizione che, a mio avviso, attualmente esiste fra la stragrande massa delle cooperative, organizzate nelle tre grandi centrali (1) e nelle altre organizzazioni più piccole e di importanza marginale, ed un reale tentativo autogestionario.

Mercato, dimensione e organizzazione del lavoro

Inserimento nel mercato vuol dire infatti non libera sperimentazione e concorrenza fra i lavoratori liberamente associati al fine di rispondere a precise, e realmente economiche, richieste della collettività, ma accettazione delle regole che reggono il mercato capitalista e con esse la sempre maggiore importanza data alla necessità di aumentare ad ogni costo il fatturato annuo. La filosofia che un tempo ispirava le cooperative, e cioè produrre per soddisfare le esigenze espresse realmente e direttamente dalla collettività, è stata messa in soffitta ed il nuovo mito delle cooperative è produrre quanto più possibile: gli esperti di marketing penseranno poi a piazzare il prodotto. Questa volontà di inserimento in un mercato in cui fortissima è la concorrenza delle imprese pubbliche e private, unita alla volontà di "uscire dall'isolamento" della economia "povera", legata agli immediati bisogni popolari, ha fatto sì che negli ultimi lustri le cooperative mutassero volto e che da organismo creato e gestito dai lavoratori diventassero aziende (il cui peso nell'economia italiana è quasi pari a quello delle aziende pubbliche e delle grandi aziende private) in cui i lavoratori da gestori del loro lavoro sono tornati ad essere gli sfruttati e gli oppressi di sempre.
Per reggere efficacemente la concorrenza dei settori pubblico e privato la vecchia dimensione cooperativa era infatti inadeguata, troppo piccola e quindi troppo legata alle singole capacità dei suoi componenti, troppo irrigidita dalla volontà dei vecchi cooperatori di conoscere e controllare tutto.
Tutto andava perciò mutato ed i registi della cooperazione (quasi tutti provenienti dalle file dei partiti "popolari" e di sinistra) si sono buttati di buzzo buono in questa operazione. Con la scusa di rendere più economico il prodotto si sono introdotti macchinari sempre più sofisticati che escludono spesso l'intervento decisivo dell'individuo, la necessità di una maggiore flessibilità nella condizione degli affari è servita per giustificare una politica finalizzata a dare più potere agli amministratori, la volontà di operare su aree di mercato sempre più vaste è servita per creare apparati dirigenziali enormi e sempre meno controllabili dai singoli soci.
L'esigenza di rendere più "veloce e razionale" la produzione è servita per introdurre, come e anche più che nelle aziende private e statali, tecnici addetti ad organizzare il lavoro, che relegano quindi in una funzione sempre più subalterna i lavoratori manuali ed i tecnici di basso livello.
A fianco di tutto questo, per superare il problema della piccola dimensione, ritenuto un ostacolo, è stata portata a termine, "vittoriosamente", una campagna a favore della fusione delle cooperative.
Ingrandirsi, moltiplicarsi: il modernizzato ordine biblico è ora la parola d'ordine delle cooperative. Giorno dopo giorno esse si ingrandiscono, diventano dei mastodonti (vedi la C.M.C. Cooperativa Muratori Cementisti di Ravenna - la più grande azienda edile d'Italia) o, quando non possono fondersi direttamente, si creano dei consorzi i cui dirigenti hanno tutte le prerogative della direzione industriale, della ricerca del lavoro, dell'organizzazione dei vari settori.
La figura del cooperatore operaio specializzato di giorno ed amministratore la sera è ormai scomparsa così come è scomparso il rapporto di fiducia che esisteva fra la gente di una data zona e la "sua" cooperativa, alla quale rivolgersi sicuri di avere un buon lavoro ad un prezzo onesto.
Il tutto è stato ormai sostituito da asettici managers che hanno reso le cooperative luoghi in cui al posto della solidarietà impera il falso efficientismo dell'organizzazione gerarchica del lavoro, al rapporto fiduciario fra cooperatori e popolazione si è sostituito il marketing e la cooperativa è diventata solo un'azienda come le altre che "misurandosi nel confronto concorrenziale con le altre forme d'impresa" produce, allo stesso modo delle altre aziende, sempre più beni in tutto e per tutto simili a quelli delle altre aziende.
La dimensione sempre più elefantiaca assunta dalle cooperative ha reso risibile la partecipazione dei soci (i dipendenti, sempre più numerosi, sono esclusi da ogni diritto, godendo solo relativamente dei diritti sindacali. Sindacati e cooperative agiscono spesso di conserva e, come si sa, cane non mangia cane) che da un lato non possono più controllare strutture sempre più grandi, diffuse ed articolate a livello nazionale ed internazionale, dall'altro vengono sempre più spinti a delegare ai "più capaci", a quelli "che hanno studiato" ogni responsabilità, ogni potere decisionale, ogni forma di controllo. La mutata organizzazione del lavoro ha fatto sì che al cooperatore padrone delle conoscenze relative al proprio lavoro, cosciente delle finalità di questo e fiero dell'apporto che la sua opera dava al maggior benessere della collettività, si sostituisse la figura dell'operaio-massa, asservito alla catena di montaggio (ormai regina incontrastata della gran parte delle cooperative industriali), parcellizzata in mansioni sempre più ripetitive ed incapace quindi di acquisire la dimensione generale del suo lavoro, così come di conoscerne la finalità e l'impiego, espropriato di fatto e statutariamente, di ogni possibilità reale di intervento. Credere, obbedire (ciecamente soprattutto), produrre, questo è il motto delle cooperative degli anni 80.
Corollario di tutto questo è stata l'apparizione di figure che avrebbero fatto rizzare i capelli in testa ad un cooperatore di 80 e 90 anni fa: capi, capetti, marcatempo, controllori vari sono ormai i regnanti incontrastati delle officine, dei cantieri, dei campi, gli unici che possono, unitamente ai massimi dirigenti, decidere il come, quando, perché eseguire un lavoro o qualsiasi altra cosa. Il circolo vizioso dello sfruttamento si è così, in nome della funzionalità e dell'inserimento nel mercato, ricreato.
La divisione del lavoro in manuale/subordinato e intellettuale/dirigente si è ora imposta nelle cooperative nate con lo scopo, fra gli altri, di impedire che questo avvenisse, perché in questa divisione veniva giustamente individuato uno dei motivi fondamentali dell'esistenza dello sfruttamento e dell'oppressione.
I dirigenti non sono più dei paraventi per eludere le leggi ma i soli, reali gestori delle cooperative, ma costituiscono una classe di tecnocrati che, facendo leva sulle proprie conoscenze, detiene un potere e gode di privilegi in nulla inferiori a quelli detenuti e goduti dai managers delle imprese pubbliche e private. Godono anzi di un maggior potere, perché governano una massa di cooperatori abbrutiti dalla propaganda demagogica e falsificante delle organizzazioni cooperative e dei partiti ad esse legati. Una massa impossibilitata a ribellarsi perché legata al carro dell'azienda come sempre viene ricordato: loro non sono operai, anche se dell'operaio hanno tutti gli svantaggi, sono "soci", cioè "padroni".
L'ultima conseguenza della "nuova" organizzazione del lavoro e della grande dimensione è l'estrema frammentazione che i managers hanno introdotto fra i cooperatori. Chi lavora di più e protesta di meno è portato ad esempio, novello Stakanov, agli altri, egli non è più il "pirla" che si ammazza per il padrone ma un benemerito che si preoccupa di "far avanzare la cooperativa" ed a cui i soci (più riottosi o dubbiosi che la mini "Eurasia" sia realmente autogestione) dovrebbero ispirarsi.
E se per questi ultimi è sempre pronto il rimbrotto, la minaccia, la sospensione, il licenziamento, per i nuovi "uomini di marmo" crescono gli aumenti salariali, i premi di produttività, le onorificenze al "merito cooperativo".

La vita sociale e gli organi statutari

Chi entrasse dall'ingresso della direzione in una delle grandi cooperative attuali si troverebbe immediatamente immerso in un ambiente asettico, dall'aspetto efficiente e, soprattutto, rigidamente compartimentato: di qua gli uffici tecnici con i tecnigrafi tutti in fila ordinata, di là gli uffici amministrativi posti nello stesso militaresco ordine e, molto più distaccati ed esclusivi, gli uffici del presidente, del direttore, del direttore commerciale e via gerarchizzando.
Da nessuna parte è possibile intravedere la tuta blu di un operaio ed i camici bianchi e neri dei tecnici e dei ragionieri formano un tutt'uno con i loro piani di lavoro.
Ma dov'è finito il piacevole, stimolante, vivificante "casino" delle piccole cooperative di qualche decennio fa? dove sono gli operai che discutono e si incazzano col presidente per una qualche decisione che questi ha preso di testa sua, senza prima consultare l'assemblea dei soci? Tutto finito, il gigantismo dimensionale e la nuova organizzazione del lavoro hanno avuto il loro corrispettivo nella rigida gerarchizzazione di tutto l'apparato sociale ed amministrativo. Se un tempo le cariche sociali erano solo un paravento per eludere le leggi statali, o poco più, e tutte le funzioni erano controllate da tutti i soci e sempre revocabili, oggi il rapporto è rovesciato: sono i dirigenti che controllano che i soci applichino scrupolosamente le decisioni che non hanno contribuito a prendere ed i vari presidenti, vice-presidenti ecc. non sono più degli operai o dei braccianti che ogni tanto lasciano il loro lavoro per siglare un contratto e che devono rendere conto ai soci di ogni loro mossa, ma sono dei regnanti che è raro poter vedere di persona e che trattano affari di ogni specie senza che nessuno possa realmente controllare o censurare il loro operato.
Come può accadere tutto ciò nelle cooperative, veri esempi di autogestione e di democrazia industriale (stando a sentire i tromboni dei vari partiti "operai" e dei sindacati)? Tutto questo può accadere perché piano piano, sull'onda della reintrodotta divisione del lavoro, dell'esigenza di "efficienza", e delle mutate dimensioni, si sono messi in soffitta alcuni dei capisaldi del primo spirito cooperativo e cioè l'informazione accessibile a tutti, la rotatività delle funzioni, il cosciente contributo di tutti alla vita sociale.
L'operazione è cominciata con una campagna capillare promossa dai partiti "operai e popolari", tradizionali protettori e "portavoce" delle cooperative, tesa ad aumentare la "coscienza cooperativa", a convincere cioè i soci che, per meglio esplicare le funzioni sociali, erano necessari degli esperti, degli individui che sapessero muoversi a proprio agio nel moderno mondo degli affari, ricchi di "cultura", di "conoscenze", di esperienza nel mondo politico ed economico. E chi meglio dei funzionari di partito, allevati apposta, avrebbe potuto avere questi requisiti? Ecco quindi che nelle varie cooperative è piombata una pletora di ex funzionari di partito (ricordo che, ad es., è il PCI che dal dopoguerra nomina il presidente e la maggior parte dei membri del consiglio di presidenza della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue) tutti tesi alla riorganizzazione dell'azienda e con loro è entrata, o si è accresciuta a dismisura, la burocrazia. In questo nuovo clima, propagandisticamente montato ad arte, i soci non potevano che fare la parte del gregge ed hanno approvato allegramente - "lo vuole il partito" - la nomina dei nuovi membri degli organi sociali, sicuri che essi avrebbero migliorato le cooperative e le condizioni di lavoro.
Appena insediati ai loro posti invece i nuovi dirigenti si sono subito cautelati contro possibili "scosse", cioè contro la possibilità di non essere rieletti. Hanno introdotto organi non eletti e non eleggibili, di cui si entra a far parte per cooptazione, quali la Direzione (in genere composta da presidente, vicepresidente, direttore tecnico, direttore commerciale, direttore amministrativo, capo officina) che ha in via esclusiva tutte le informazioni ed è l'unico luogo in cui, pur senza attributi statutari precisi, si prendono le decisioni. Ed è la Direzione che, tramite il presidente, sottopone al Consiglio di Amministrazione i problemi da discutere e le "possibili" soluzioni da adottare. In questo nuovo sistema di gestione è mutata anche la funzione e la composizione del Consiglio di Amministrazione, massimo organo statutario eletto dai soci. Se, sino a qualche tempo fa, esso era una sorta di "consiglio dei delegati" dei soci, che ne controllavano le mosse, oggi è diventato una specie di consorteria chiusa. La sua eleggibilità esiste infatti solo sulla carta poiché i cooperatori vengono spinti - dai dirigenti stessi, dai sindacati, dai partiti - ad eleggere i membri "più preparati, più autorevoli ", e cioè coloro che ricoprono già posti di "responsabilità" e quindi, ancora una volta, presidenti (di fatto inamovibili una volta entrati in carica), direttori, capi, attivisti di partito ecc. (fatto questo che, in molte cooperative, ha reso automatica e "legalizzata" la funzione della direzione). Nelle poche cooperative in cui i soci tendono ancora ad eleggere persone di loro conoscenza diretta e di loro fiducia si assiste invece al fenomeno per cui la Direzione rende obsoleto il Consiglio di Amministrazione presentando ad esso solo i problemi che vuole ed esponendoli in maniera tale per cui i vari consiglieri operai, non disponendo né di tutte le informazioni necessarie ad inquadrare il problema nella sua reale prospettiva né del tempo necessario per valutare attentamente le soluzioni "suggerite", finiscono sempre per approvare le proposte fatte dalla Direzione stessa. Riguardo sempre alla tanto sbandierata eleggibilità del Consiglio di Amministrazione c'è da aggiungere anche che a renderla oltremodo fittizia è la scarsità di informazioni che i soci dispongono riguardo alla cooperativa in cui si trovano a lavorare. L'ignoranza in cui vengono tenuti li porta spesso a credere che quanto il Consiglio dimissionario ha fatto era quanto si doveva fare per cui lo riconfermano quasi sempre al completo.
Non c'è niente di più squallido dell'assemblea dei soci in cui si approva il bilancio e si elegge il Consiglio di Amministrazione. La stragrande maggioranza dei cooperatori vi si presenta convinta, da mesi di propaganda preparatoria (2), di esercitare il controllo sulla cooperativa, viene addormentata da alcune ore di relazione amministrativa, con miriadi di dati spiattellati a più non posso (e dei quali non capisce niente sia per come questi dati vengono presentati sia perché le assemblee del bilancio sono congeniate in maniera tale per cui il socio si sente, davanti alle colonne di numeri ed al linguaggio specialistico che li "spiega", in stato di inferiorità), dopo di che approva, quasi sempre all'unanimità, sia il bilancio dell'anno passato sia il bilancio di previsione.
A quel punto il presidente, supportato dal presidente della locale organizzazione delle cooperative, si esibisce nella scena madre consistente nel sottolineare: che il consiglio dimissionario ha fatto il meglio possibile, che molte delle critiche mossegli durante l'anno erano ingiuste ed infondate, che il dirigere una cooperativa è compito gravoso e che richiede un impegno continuo e mal retribuito e conclude invitando i soci a collaborare col consiglio che sarà eletto.
Il finale dell'assemblea è in crescendo: il presidente dell'organizzazione cooperativa prende la parola per invitare i soci alla responsabilità, invita ad eleggere persone che facciano progredire "senza scosse" la cooperativa e quindi critica coloro che hanno manifestato l'idea di non votare o di votare per dei "candidati protesta" (cioè per quei pochi che non accettano di farsi beatamente menare per il naso) e conclude ringraziando "a nome di tutti" il Consiglio uscente "per l'insostituibile opera prestata". Pochi gli interventi critici subito zittiti dalla presentazione di una caterva di dati (quelli che durante l'anno non si sono mai potuti vedere) che in genere non smentiscono la sostanza delle critiche mosse ma hanno l'effetto di frastornare ancor di più i soci presenti già in preda, ormai, al sonno.
Dopo tutto questo i soci votano e, quando è finito lo spoglio delle schede, la lista dei componenti il nuovo Consiglio è identica a quella del Consiglio dimissionario.
Una conseguenza dell'attuale criterio di gestione è, e non potrebbe essere diversamente, l'abulia ed il disinteresse crescente dei soci rispetto alla vita della cooperativa. La propaganda dei partiti interessati a mantenere il controllo sulla cooperativa unita all'azione dei dirigenti li rende obbedienti e manovrabili ma l'insoddisfazione individuale che nasce, quasi sempre inconsciamente, da questo stato di cose li rende, con gran gioia dei dirigenti, sempre più disinteressati di tutto, preoccupati unicamente di avere la paga a fine mese e di non dover perdere troppo tempo in riunioni ed assemblee in cui sentono, ma troppo spesso non capiscono, di non poter contare nulla. In fondo anche se volessero nella nuova strutturazione non potrebbero contare niente: a decidere di tutto, come abbiamo visto, sono solo le varie organizzazioni delle cooperative, i partiti cui esse fanno capo, i loro fiduciari che dirigono le singole cooperative. L'unica alternativa per chi ancora vuole autogestire il proprio lavoro, e non l'autosfruttamento, è quindi quella di andarsene per riprendere su basi nuove l'esperimento cooperativo.

Conclusioni

Spero, con la frammentaria e caotica esposizione fin qui fatta di aver reso l'immagine delle attuali cooperative; sono cosciente che altri, e meglio di me, avrebbero potuto illustrare la problematica autogestionaria nel campo specifico della cooperazione. Le note precedenti sono solo lo sfogo di uno sfruttato che avendo la sventura di lavorare in una cooperativa (una cooperativa "rossa" del forlivese) ed essendosi illuso al suo nascere (1971) di poter vivere all'interno di essa una forma di autogestione minimale si ritrova oggi a dover constatare che non esiste nulla di più distante dall'autogestione delle attuali cooperative, siano esse "bianche", "rosse", "rosa" o di qualsiasi altro colore le si voglia dipingere.
Anche il richiamo da me fatto in positivo alle prime cooperative, pur se può essere valido in linea generale, non è scevro da critiche poiché molto di quanto accade ora ha proprio in esse le sue lontane radici. Radici rappresentate soprattutto dalla fiducia che i cooperatori han sempre, purtroppo, riposto nei partiti "operai" e nelle burocrazie da essi emanate, fiducia che li ha portati, e li porta, a seguire - pecorilmente o a malincuore a seconda dei casi - le indicazioni ed i voleri di questi stessi partiti. Anche il desiderio di molti cooperatori di far avanzare nel mercato la "loro" azienda è servito da base per l'attuale involuzione poiché ha impedito a molti di capire che scendere sullo stesso piano delle aziende private o statali voleva dire magari vincere una battaglia - cioè affermarsi, come è successo, all'interno di questo mercato - ma perdere la guerra, cioè rinunciare a costituire una "cellula di socialismo" all'interno (ma in lotta contro) della società capitalista o tardo capitalista.
Nonostante tutto credo che chiunque si ponga il problema dell'autogestione - cioè dell'autogoverno individuale e collettivo - non possa fare a meno di prendere in esame la forma cooperativa come uno dei possibili mezzi per realizzarla. Chiaramente non la forma di cooperazione attualmente istituzionalizzata ma quella costantemente in evoluzione che molti compagni, giovani, lavoratori cercano di costruire e di migliorare costantemente.
I problemi che loro si presentano sono grandi e molteplici ma, dalle nuove cooperative agricole nate un po' dovunque (e soprattutto in meridione in seguito alle ultime occupazioni di terre), alle piccole cooperative di editoria militante alle altrettanto (fortunatamente!!) piccole cooperative di produzione sorte anch'esse un po' dovunque, lo spirito che le anima è nuovo, iconoclasta, cosciente che non si può progredire di un passo sulla via dell'autogestione se manca ai cooperatori la conoscenza approfondita dei problemi e delle situazioni - da cui dipende il contributo attivo e cosciente di ognuno - e se ad essi non è possibile partecipare attivamente in prima persona ad ogni istanza della vita aziendale. Tutto questo porta con sé, almeno in potenza, la scomparsa della divisione del lavoro, dei ruoli fissi ed immutabili, della fabbrica-caserma, ed apre la via ad una maniera di produrre non più subordinata ed alienante ma "partecipata" cioè vissuta come momento in cui ognuno possa applicare la propria intelligenza, la propria inventiva, la propria iniziativa per collaborare allo scopo comune.

(1) Confederazione delle Coop. Italiane a maggioranza cattolica; Associazione Generale delle Coop. Italiane - repubblicani e socialdemocratici; Lega Naz. delle Coop. e Mutue, la più grande, a maggioranza comunista ma con consistenti minoranze socialiste e repubblicane.

(2) Quando si avvicinano le elezioni degli organi sociali il partito egemone all'interno della singola cooperativa chiama a raccolta i suoi iscritti e li invita, di fatto gli ordina, a votare per i suoi fiduciari; in genere già facenti parte, o comunque molto influenti, delle istanze gerarchiche.