Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 9 nr. 76
estate 1979


Rivista Anarchica Online

Sogni e menzogne dell'autogestione
di Carlos Semprun Maura

Il termine "autogestione" fa parte delle parole e dei concetti resi popolari dall'esplosione antiautoritaria del Maggio '68 e recuperati in seguito dalle istituzioni, dal potere, dai partiti e dai sindacati, anche se, beninteso, assolutamente svuotati dei loro contenuti. E d'altra parte, se essi avessero cominciato ad applicare queste idee, avrebbero dovuto, all'inizio del gioco, auto... dissolversi.
Il termine "autogestione" è senza dubbio quello che ha avuto più fortuna. Presente nei programmi di alcuni partiti detti di sinistra e di numerosi sindacati europei, esso viene fatto oggetto di innumerevoli studi, pubblicazioni, congressi, seminari e altre ciance. Altrettanto, se non di più, della linguistica o della psichiatria alternativa. Non si seppellisce niente né nessuno meglio che sotto tonnellate di fiori. Così, ad esempio, si sono fatte ponderose analisi sull'autogestione in Jugoslavia ed anche, colmo dell'umorismo nero, in Algeria. Ora, non c'è mai stata autogestione né in Jugoslavia né in Algeria anche se il termine è stato ufficializzato, poiché non vi può essere autogestione in uno stato gerarchizzato, con un partito unico e un piano autoritario. Ciò che vi è stato, invece, è una certa partecipazione dei lavoratori al loro autosfruttamento. Ecco ciò che nella maggior parte dei casi si intende per "autogestione": la partecipazione cosciente e disciplinata dei lavoratori al proprio sfruttamento sotto l'egida di uno stato forte e la bacchetta dei burocrati "operai".
A ben guardare in nessun luogo esiste l'autogestione in quanto sistema economico radicalmente opposto ai sistemi economici imperanti sull'universo, vale a dire i diversi sistemi capitalisti. Perché, malgrado le loro differenze, a volte sostanziali, tutti i regimi sociali esistenti oggi sul pianeta Terra sono capitalisti e quindi nessun "fronte anticapitalista" potrebbe comprendere alcuno Stato, né alcuna organizzazione assoggettata, apertamente o no, a qualunque stato.
Per parlare di vera autogestione, quindi, bisogna rivolgersi al passato. Fare... della storia. Vale a dire analizzare ciò che è stato e non è più e forse non sarà mai più (a meno che non si parli di autogestione delle lotte, a volte reale, ma non è questo che io mi propongo). L'autogestione come sistema economico di produzione e distribuzione, sistema democratico, non gerarchico, nel quale assemblee libere di lavoratori deciderebbero non soltanto quanto produrre ma cosa produrre, in cui sarebbero aboliti sia la contraddizione dirigenti/esecutori sia la specializzazione, e così via, conosciamo la canzone, non esiste quindi in nessun luogo. E di fatto non è mai esistita in nessun luogo. Anche se dei passi di estrema importanza sono stati fatti in questo senso in alcuni paesi e in alcune epoche. La prima constatazione che salta agli occhi quando si analizzano queste esperienze, spesso fantastiche, è che esse hanno avuto luogo in periodi torbidi, come direbbe la stampa statale. È in seno a movimenti sociali rivoluzionari di grande portata e di una certa durata che si è potuto, momentaneamente, cambiare la vita, per impiegare ancora un termine recuperato, ma qui nel suo senso pieno e vero. Si è potuto, sì, cambiare la vita, le abitudini, le mentalità e cambiare - sconvolgere - le norme capitaliste dello sfruttamento. Ciò potrebbe indurci a pensare che non vi può essere autogestione vera che non sia selvaggia, che si appoggi e appoggi un movimento rivoluzionario che tenta di rompere tutte le costrizioni gerarchiche e repressive della società moderna. Risulta quindi impossibile istituzionalizzare l'autogestione, rinchiuderla in un quadro di regole e di norme o di leggi.
È una cosa abbastanza normale, a mio umile avviso. Se l'autogestione è un'idea rivoluzionaria - e a volte è stata una pratica rivoluzionaria - come tutte le idee e le pratiche rivoluzionarie non può essere codificata nei "programmi" di qualche congresso, qualunque sia. Se l'autogestione, come realtà vivente, esistesse oggi in qualche parte del mondo, noi non staremmo a discutere su di essa. Tutt'al più cercheremo di informarci, di appoggiarla, di allargare il suo territorio. Siccome purtroppo non è così, facciamo dunque un briciolo di storia.

L'esperienza autogestionaria più importante si è sviluppata, credo, durante la rivoluzione spagnola del 1936-39 in tutta la zona repubblicana ma soprattutto in Catalogna, in Aragona e nel Levante (Valencia). Per ragioni di spazio non posso indicare che i tratti a mio avviso essenziali di questa esperienza.
La prima constatazione che si impone è il carattere spontaneo delle esperienze di collettivizzazione (non si parlava ancora di autogestione). Il 18 luglio i comitati dirigenti della C.N.T.-F.A.I. lanciarono la parola d'ordine sciopero generale rivoluzionario per fare fronte al sollevamento militare franchista. Il 26 dello stesso mese i comitati diedero semplicemente l'ordine di ripresa del lavoro. E poco dopo le altre organizzazioni "operaie" fecero lo stesso. Intanto dal 21 luglio avevano luogo i primi sequestri di aziende e lo stesso giorno i ferrovieri catalani collettivizzarono le ferrovie. Il 25 seguono i trasporti urbani. Il 26 l'elettricità. E così via. È evidente che le idee libertarie diffuse nel paese dalla C.N.T.-F.A.I. giocarono il loro ruolo in questa presa in carico di importanti settori dell'industria, dei servizi, del commercio, dell'agricoltura ad opera degli stessi lavoratori. Le idee e la spontaneità sono sempre andate d'accordo. Il fatto è che i lavoratori - e non soltanto i membri della C.N.T. - non attesero alcuna direttiva, alcuna parola d'ordine "venuta dall'alto" per scegliere e collettivizzare tutto quello che potevano. Il primo intervento dei dirigenti operai fu per limitare la spinta delle collettivizzazioni domandando e ottenendo che le imprese straniere non fossero collettivizzate al fine di non urtare le democrazie occidentali. Si vedrà in seguito che questo non fu il solo intervento dei signori dirigenti (compresi quelli della C.N.T.-F.A.I.) per limitare, controllare e tentare di snaturare le collettivizzazioni.
Dall'inizio le collettivizzazioni costituirono casi particolari, ma è possibile classificarle in tre settori principali:
a) Le imprese il cui proprietario resta teoricamente tale ma in cui i lavoratori eleggono un Comitato di Controllo Operaio i cui poteri, almeno all'inizio, sono molto estesi (si tratta soprattutto di imprese straniere). Non si può quindi qui parlare di collettivizzazione in senso stretto. D'altra parte col passare dei giorni e con l'affievolirsi della spinta rivoluzionaria a favore della burocrazia statale, i Comitati di Controllo Operaio sono spesso divenuti ciò che il loro nome annuncia implicitamente, cioè dei comitati per controllare gli operai, per imporre loro la disciplina e la produttività.
b) Le imprese il cui padrone è puramente e semplicemente rimpiazzato da un Comitato eletto e revocabile.
c) Le imprese socializzate.
La differenza fondamentale tra le imprese collettivizzate e quelle socializzate è che queste ultime raggruppano tutte le imprese di uno stesso settore d'attività. Ne è il migliore esempio, senza dubbio, l'industria del legno in Catalogna che, sotto l'egida della C.N.T., unificò tutte le attività relative al legno, dal taglio degli alberi al commercio, riorganizzando completamente fabbriche e negozi. Le imprese socializzate costituiscono comunque una minoranza. Le imprese collettivizzate troppo spesso si ignorano a vicenda, anche quelle dello stesso settore industriale. Queste collettivizzazioni, come ho già detto, si diffusero largamente in tutta la zona repubblicana e soprattutto in Catalogna "feudo" della C.N.T.-F.A.I. in cui più del 70% delle imprese industriali furono collettivizzate dai lavoratori sin dai primi giorni della rivoluzione. In alcune piccole città e borghi di Aragona, del Levante e in altri luoghi furono realizzate formule originali che unificavano le collettivizzazioni agricole e quelli industriali.
Bisogna notare che le collettivizzazioni furono oggettivamente favorite dalla fuga all'estero - o nel campo franchista - di numerosi padroni, gerenti o direttori di impresa. I padroni che restarono e che non furono "eliminati dalla sfera sociale" e che accettarono il nuovo regime, trovarono lavoro nella loro antica fabbrica in funzione della loro qualifica professionale (si calcola il loro numero nel 10%). Essi furono sia ingegneri, sia contabili sia semplici manovali. Il loro salario fu identico a quello degli altri lavoratori a parità di funzioni.

Se la guerra civile rivoluzionaria aveva permesso il fiorire di tutte queste esperienze autogestionarie va da sè che la stessa guerra poneva tutta una serie di problemi disarticolando i mercati tradizionali, necessitando della creazione di una industria bellica da un momento all'altro e l'approvvigionamento spesso gratuito delle milizie, e provocando l'abbandono di interi settori dell'industria e del commercio (diciamo "di lusso" per sintetizzare) che non si seppe, o almeno non sempre, riconvertire.
Poiché ciascuna collettivizzazione è un caso unico, affrontando contraddizioni generali e particolari e improvvisando soluzioni di giorno in giorno nel disordine creativo della rivoluzione e della guerra, non è possibile fare un bilancio contabile preciso e globale. Ma quanto meno si può indicare qualche tratto fondamentale valido se non per tutte almeno per un buon numero di collettività industriali o agricole.
All'attivo delle esperienze autogestionarie della Spagna rivoluzionaria io metterei innanzitutto la democrazia diretta. Che si trattasse di una impresa industriale, commerciale (tutto il commercio al dettaglio di Barcellona, per esempio, fu collettivizzato nel primo periodo), o agricola, la democrazia diretta era in effetti la legge. Anche se ciò non significa che questa legge implicita fu applicata dovunque nello stesso modo. Tutte le decisioni di qualsiasi tipo erano prese in assemblee sovrane dall'insieme dei lavoratori, sindacalizzati o no; i Comitati (eletti e revocabili) avevano il solo compito di vegliare sull'esecuzione delle decisioni prese nelle assemblee. Nelle comuni libertarie dell'Aragona, per esempio, queste decisioni assembleari delle collettività non riguardavano solo la produzione e la distribuzione ma tutta la vita sociale e culturale della comune (con delle incursioni autoritarie nella vita privata delle persone). Non idealizziamo le cose, tutto questo non era esente da conflitti, come è logico, a volte con pressioni armate per imporre questa o quella misura giudicata rivoluzionaria. Ma quello che è stato fatto è enorme. Questa vera democrazia diretta visse mesi e mesi e, in alcuni bastioni irriducibili, fino alla fine della guerra malgrado il dilagare della controrivoluzione burocratica che, soprattutto a partire dal maggio 1937, entrò in guerra aperta contro le collettivizzazioni. Ritornerò sull'argomento. L'uguaglianza praticamente generalizzata dei salari fu una conseguenza, non certo trascurabile, di questa ispirazione democratica.
Allo stesso modo vorrei mettere all'attivo dell'autogestione spagnola una sorta di rivoluzione culturale che si diffuse nella città e nelle campagne con la creazione di scuole, di biblioteche, di cinema e teatri, ecc. che (a volte non senza ingenuità) era al centro delle preoccupazioni dei collettivizzatori. L'uomo non vive solo di pane, avrebbe potuto essere uno dei loro motti. Anche nel settore della salute molte cose furono fatte, anche se io credo che i progressi furono più quantitativi che qualitativi.
Oggi "fa fine" beffarsi della produttività. Ma rimettendo il problema nel suo contesto, cioè in una Spagna povera e impoverita dalla guerra civile, il problema della produttività era semplicemente un problema di sopravvivenza e il fatto che in numerosi settori industriali e agricoli le collettivizzazioni mantennero e anche aumentarono la loro produzione, mi sembra possa meritare di essere messo nella colonna dell'attivo dell'autogestione.
Ma anche il passivo è pesante. Anche se bisogna sempre tenere presente il contesto della guerra civile, tener conto della necessità di improvvisare giorno per giorno le soluzioni agli innumerevoli problemi e segnalare la guerra, sorda all'inizio e poi sempre più aperta, che i nemici delle collettivizzazioni, P.C.E. in testa, fecero loro.
Certo gli operai e i contadini si appropriarono delle aziende in cui lavoravano nello stato in cui erano. Si può dire in questo senso che essi collettivizzarono anche la siccità, i suoli poveri, le casse vuote, i mercati spariti e così via. Si collettivizzò la povertà. Alcune collettivizzazioni seppero uscire da questa situazione grazie all'immaginazione e allo sforzo, ma spesso anche perché i loro prodotti trovavano facilmente acquirenti. Altre non vi riuscirono, o debolmente.
Ho già avuto occasione di raccontare un aneddoto che, benché caricaturale, illustra bene il problema: i cappelli erano scomparsi in quanto segni esteriori della borghesia - anche i borghesi si vestivano da operai per passare inosservati -. Gli operai cappellieri che avevano collettivizzato la loro attività - almeno in Catalogna - continuarono malgrado ciò a fabbricare cappelli, sempre gli stessi, che non trovavano acquirenti. Invece di riconvertire l'attività essi lanciarono S.O.S. sulla stampa della C.N.T. supplicando i compagni di acquistare cappelli perché altrimenti essi sarebbero morti di fame....
Questa situazione caotica fece nascere ineguaglianze e ingiustizie che si concretizzarono in due tipi di collettivizzazioni, le "povere" e le "ricche". Vale a dire quelle che erano riuscite, per diversi motivi, ad aumentare la loro produzione e i loro salari riuscendo anche ad "aiutare il fronte" e quelle che vegetavano miserabilmente grazie a magri crediti.
L'assenza della necessaria riconversione di numerosi settori industriali e l'assenza di solidarietà e di coordinamento tra le collettività, troppo spesso isolate e viventi in un ambito chiuso, non sfuggì ai sindacati, soprattutto alla C.N.T. che propose dei rimedi peggiori della malattia, come vedremo.
Ma non sono solo questi i difetti delle collettivizzazioni. A volte misure presentate come progressiste o rivoluzionarie erano in realtà profondamente reazionarie. Darò un solo esempio: il salario familiare. In numerose comuni libertarie dell'Aragona, ad esempio, era il padre di famiglia che riceveva tutto il salario, anche se la sua donna e i suoi figli o nipoti lavoravano. È evidente quanto sia retrograda questa misura che non faceva che rafforzare il ruolo tradizionale autoritario del pater familias.
Che tali misure retrograde coesistessero con altre nettamente libertarie (democrazia diretta, uguaglianza dei salari, ecc.) può forse provare, come pensava Kaminski, l'arretratezza del paese, ma si sarebbe ben ingenui se si pensasse che oggi le cose avrebbero un corso diverso. Vi sarebbe semplicemente un trasferimento di ancoraggi reazionari in seno alle lotte per la libertà. Basta vedere le pulsioni totalitarie, l'intolleranza, la sacralizzazione del mitra - o della P.38 - in seno ai diversi gauchismes europei per convincersene.
Stranamente il movimento delle collettivizzazioni non toccò le banche - grave errore già commesso, come si sa, dalla Comune di Parigi. Tutto il sistema bancario e di credito fu controllato dalle autorità governative repubblicane. Si immagina facilmente il peso del ricatto del credito che queste autorità potevano esercitare sulle collettivizzazioni, soprattutto le "povere", ma anche le "ricche" che potevano aver bisogno di crediti per acquistare, all'estero o no, macchine, utensili, materie prime, ecc.. Il rifiuto di crediti costituì uno dei mezzi più sottili e più gravi nella lotta della Santa Alleanza burocratica e statale contro le collettivizzazioni (ve ne erano altri, come il fucilare, semplicemente, i collettivizzatori come fecero i comunisti in Aragona e altrove).
Per contro in alcune comunità libertarie si soppresse il denaro che si bruciò in simbolici fuochi di gioia sulle piazze dei villaggi. Ma ciò fu poco utile perché si rimpiazzò la moneta con dei buoni, questi non avevano valore che all'interno di quella collettività, non avendo le altre abolito la moneta. Di fatto ciò non fece che complicare le cose poiché per dei gesti tanto semplici come prendere l'autobus per andare al villaggio vicino bisognava prima passare dal Comitato e cambiare questi buoni con della moneta. Gli autobus, anch'essi collettivizzati, non accettavano i buoni. Gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Queste poche informazioni mi sembra possano dimostrare che l'autogestione sarà generalizzata o non sarà affatto. Quelle che abbiamo visto in Spagna sono esperienze autogestionarie molto importanti ma che si sono sviluppate in una lotta costante non solo contro i nemici politici dell'autogestione ma anche, essendo le due cose legate, contro l'altro sistema che coesisteva conflittualmente con essa: il sistema capitalista. Ma un capitalismo sempre più statale e burocratico, una brutta copia di quello dei paesi dell'Est, detti socialisti.
Perché tutto il mondo era contro le collettivizzazioni salvo i loro membri che diedero prova, anche con le armi, del loro attaccamento a queste esperienze rivoluzionarie. Ma se tutti i politicanti e i burocrati erano contro l'autogestione il loro comportamento e la loro pratica nei suoi confronti erano diverse. Il comportamento e la pratica più coerente è quella del Partito Comunista. Esso è radicalmente contro, con il pretesto che esse non corrispondono alla "tappa democratico-borghese" nella quale il P.C.E. tenta di fermare la rivoluzione. Ma più profondamente esso è contro l'autogestione e l'autonomia operaia come è sempre stato e sempre sarà. La sua posizione è riassunta da José Diaz, il segretario generale di allora, in un discorso pronunciato il 2 febbraio 1937 al Teatro Olympia di Valencia in occasione di un meeting in omaggio a... Maurice Thorez: "Bisogna curare quella che potremmo chiamare il morbillo delle espropriazioni, di queste espropriazioni di beni di piccoli industriali, della "socializzazione" di piccole industrie, di tutti gli abusi di questa natura. E nel frattempo noi dobbiamo porre il problema francamente e fare tutto ciò che è possibile per arrivare alla nazionalizzazione delle grandi industrie, che le industrie di base passino, come devono passare, nelle mani dello stato, che si decreti la nazionalizzazione di tutte le industrie necessarie alla guerra...".
Linguaggio trasparente: niente autogestione, ma capitalismo burocratico di stato. Niente democrazia, ma totalitarismo democratico. Nelle campagne il P.C.E. diviene ancor più l'alleato dei piccoli e medi proprietari (i grandi, come i grandi industriali o banchieri sono praticamente tutti passati dalla parte di Franco o sono fuggiti all'estero). Vicente Uribe, dirigente del P.C.E. e ministro dell'agricoltura offre anche i fucili del partito per difendere la proprietà terriera contro i collettivisti, questi demoni: "Nei primi momenti il problema fondamentale, per alcuni, non era di creare le basi di una nuova economia agraria, ma di effettuare un tentativo folle, forgiato nella testa della gente che aveva perso completamente il senso della realtà. Essi volevano risolvere il problema agricolo per mezzo delle collettivizzazioni!". (Non dispiaccia al signor ministro, non solamente essi lo vollero, ma molto spesso essi lo fecero).
Il P.C.E., che era un piccolo partito di 30.000 militanti nel 1936, vide i suoi ranghi ingrossarsi durante la guerra proprio grazie alla sua politica controrivoluzionaria che rassicurava i timorati e i moderati, e grazie anche al ricatto dell'aiuto militare russo (acquistato a caro prezzo con l'oro della repubblica). Esso non si contentò dunque di una violenta campagna anti-collettivista ma, infiltrato ai differenti posti di comando dello stato, organizzò anche il sabotaggio delle esperienze autogestionarie. Per esempio Lister e le sue truppe che tentarono nell'agosto 1937 di liquidare con le armi le comunità libere dell'Aragona non riuscendovi che in parte grazie alla feroce resistenza dei "comunardi".
Le forze repubblicane borghesi o moderate erano d'accordo con il P.C.E. su questo problema, come su molti altri.
Il partito socialista e il suo potente sindacato U.G.T. avevano un comportamento più ambiguo. Se ufficialmente essi erano più a favore del controllo operaio che non delle collettivizzazioni, alla base numerosi militanti dell'U.G.T. collaborarono alle esperienze autogestionarie con i militanti della C.N.T. o non sindacalizzati. (Almeno all'inizio, perché in seguito la sindacalizzazione divenne obbligatoria non foss'altro perché bisognava mostrare la tessera di un partito o di un sindacato "antifascista" per ricevere la tessera di razionamento. Tra l'altro il non possesso di una di queste tessere vi faceva sembrare automaticamente losco politicamente e dunque vittima probabile di repressione poliziesca. Cosa che pone alcuni piccoli problemi sul piano della democrazia).
Ma la palma dell'ambiguità in questo settore, come in tutti gli altri, tocca alla C.N.T.-F.A.I.. Certo, queste organizzazioni rivendicano le collettivizzazioni come "loro" creazione e nella maggior parte dei casi sono stati militanti cenetisti a prenderne l'iniziativa. Ma il decreto che legalizzava le collettivizzazioni, e nei fatti le snaturava, è anch'esso in gran parte opera della C.N.T.. E tutte le misure successive al decreto, amministrative e burocratiche, aventi lo scopo di liquidare l'autonomia operaia saranno prese con la partecipazione attiva della C.N.T.-F.A.I.. E quando nel maggio 1937 a Barcellona i comunisti e i loro alleati cercano di liquidare con le armi la "dittatura anarchica" cioè le collettivizzazione e la democrazia operaia in generale), la C.N.T. andrà a difenderli sulle barricate e la C.N.T. - i ministri, i dirigenti, i burocrati, grandi e piccoli - predicherà il compromesso, la pace civile, in una parola la capitolazione. La C.N.T. è doppia lungo tutto il corso degli avvenimenti rivoluzionari 1936-1939. Dire che i dirigenti tradirono lo slancio libertario della "base" (militarizzando le milizie, un altro esempio), senza essere falso non spiega nulla. Perché, bisogna domandarsi, essi furono generalmente seguiti, in una organizzazione che per principio non accettava la "disciplina di ferro", né il "culto dei capi"?
Alla base, dunque, gli operai e i contadini libertari collettivizzano quasi tutto sin dai primi giorni della rivoluzione. A fronte di risultati notevoli io ho notato un difetto di coordinamento e di solidarietà tra collettività "ricche" e "povere". Non è il solo difetto, intendiamoci. Ma tutto questo è, si può dire, normale in una prima tappa il cui senso generale può essere così riassunto: i lavoratori prendono in mano le loro imprese. Le esperienze più spinte si sono sviluppate nei villaggi dell'Aragona o altrove, dove le assemblee di lavoratori potevano riunirsi periodicamente e decidere tutte le misure necessarie. Nell'industria il problema è più complesso: si pone il problema della "delega di poteri", i sindacati intervengono (la burocrazia sindacale appare con i suoi propri scopi) ecc.. Tutti questi fenomeni assumono una grande importanza quando si esce da ciascuna impresa. All'interno, infatti, la democrazia diretta è possibile, ma all'esterno è in agguato la "pianificazione", "l'organizzazione", la "produttività", in una parola la burocrazia. Troppo spesso i lavoratori non seppero lottare contro questo fenomeno mal compreso - se non volendo restare "padroni di se stessi" e in questo modo isolandosi.
Nelle sfere dirigenti della C.N.T., per tentare di correggere i difetti e di "proteggere" le collettivizzazioni - di fatto per dirigerle - si propose una organizzazione la cui espressione più chiara e burocratica è il Decreto del 24 ottobre 1936 che legalizzava le collettivizzazioni in Catalogna. Questo decreto pone un limite escludendo le imprese straniere e le imprese con meno di 100 operai. Un settore industriale importante (visto il basso livello di concentrazione industriale di allora in Catalogna ma anche in tutta la Spagna) era stato reso al settore privato. In realtà non se ne fece nulla, salvo per quanto riguarda le imprese straniere. Inoltre il decreto ristabilì la piramide gerarchica della produzione in cima alla quale si trova lo stato il cui ruolo nell'economia diviene determinante per la prima volta in Spagna. A livello dell'impresa il decreto prevede la nomina di un direttore, mettendo così fine alle funzioni dei comitati eletti e revocabili. In alcuni casi si designò come direttore l'antico proprietario... nientemeno. Se fosse stato applicato - e non lo fu che parzialmente grazie alla resistenza dei collettivisti - il decreto "legalizzando" l'autogestione l'avrebbe uccisa e avrebbe posto le basi di un capitalismo di stato burocratico. E la C.N.T. mise fermamente il suo contributo in questa impresa contro-rivoluzionaria.
Parallelamente al tentativo di stabilire una autorità statale "di nuovo tipo" sull'economia, i dirigenti anarcosindacalisti cercano di impiantare una autorità sindacale sulle collettivizzazioni. Il decreto, in effetti, lasciava mano libera ai sindacati nella gestione dell'economia, ma il loro ruolo era subordinato al governo catalano, l'autorità suprema (almeno sulla carta, poiché il governo centrale non accetterà mai l'autonomia catalana e riuscirà, a partire dal giugno 1937, a liquidarla sia nel settore economico che in quello militare o politico). Ma ci fu sempre nella C.N.T. una forte tendenza che voleva la gestione diretta dell'economia da parte dei sindacati, senza l'ingerenza dello stato. È inutile precisare che questa tendenza si rafforzerà nei periodi in cui la C.N.T. non è rappresentata nei governi centrale e catalano per affievolirsi nei periodi in cui è fortemente rappresentata, come nel caso - al governo catalano - della pubblicazione del decreto. Questa tendenza, diciamo "sindacale", mai preponderante, non lotterà, contrariamente a quanto si potrebbe credere, contro il fenomeno burocratico, ma a suo modo vi contribuirà.
Un chiaro esempio di questa tendenza burocratico-sindacale è la dichiarazione fatta da Juan Peiró, leader sindacalista e nello stesso tempo ministro del governo centrale (non siamo vicini a una contraddizione!): "Ciò che ho sempre voluto dire e che ripeto anche oggi, è che prima di progettare collettivizzazioni e socializzazioni che hanno oggi il cattivo sapore del corporativismo (sic!) bisogna dare la priorità alla creazione di organismi capaci di dirigere e amministrare (la sottolineatura è mia) la nuova economia, senza alcuna tutela dello stato e delle sue istituzioni". "Le collettivizzazioni non decise dall'alto distruggono l'economia" aggiunge ancora.
La priorità, secondo il nostro teorico, deve essere data alla creazione di organismi dirigenti e amministrativi. Beninteso, la burocrazia non è nominata, ma sotto la maschera dell'efficienza si tratta proprio di questo. Divieto di socializzare, di espropriare, di collettivizzare fintanto che non sia in funzione la nuova gerarchia. In quanto rappresentante della tendenza "sindacale" il compagno ministro rifiuta allo stato qualsiasi intervento nella "nuova economia".
Malgrado la specificità di questa tendenza burocratico-sindacale, che non ho fatto che segnalare ma che meriterebbe un esame più approfondito, la lotta in seno al campo repubblicano è chiaramente delimitata: sostenitori dell'autogestione contro sostenitori del capitalismo burocratico di stato. La C.N.T. era in tutti e due i campi.
Come ho detto, i collettivisti resistettero ferocemente rifiutando il ritorno al capitalismo tradizionale o al capitalismo di stato. Ma la loro resistenza fu, per così dire, passiva, essi non passarono all'attacco, essi non seppero, o non sufficientemente, mettere in piedi una collaborazione e un coordinamento, non gerarchico, tra le collettività.
Visto lo spirito ribelle e le conquiste democratiche realizzate dai lavoratori, come ha potuto essere restaurato uno stato sempre più autoritario nella zona repubblicana - anche se non era sempre obbedito? Come ha potuto essere limitato o distrutto il movimento delle collettivizzazioni? Come hanno potuto le milizie essere sostituite autoritariamente con un pessimo esercito "alla prussiana"? Così di seguito. È proprio attraverso un modo di vivere la "solidarietà di classe", una fedeltà cieca all'organizzazione, una concezione del militantismo, che l'autorità si è reintrodotta "nella testa" dei militanti, anche dei più ribelli. Si tratta, in una parola, della deificazione dell'Organizzazione (in questo caso la C.N.T.-F.A.I.) che ha, in fin dei conti, limitato l'esperienza autogestionaria come tutte le altre esperienze di democrazia diretta in Spagna.

L'esperienza della rivoluzione spagnola dimostra, come altre esperienze precedenti e successive, che il movimento operaio, organizzato e tradizionale, non è ormai che un cadavere. Ma un cadavere che ha partorito un mostro: le burocrazie "operaie".
La linea di rottura non si situa più, se mai si è situata, dunque tra movimento operaio e borghesia - o capitale. Poiché non vi sono che varianti del capitalismo e il meno spietato non è certo il capitalismo burocratico di stato dei paesi detti socialisti, né, giustamente, quello del movimento operaio.
La linea di rottura si situa tra sostenitori dell'autodeterminazione degli individui e delle collettività e tutti gli altri: stati, partiti, sindacati, chiese, istituzioni, capitalismi e tutti quanti. Perché il nodo gordiano delle numerose contraddizioni delle società moderne resta il conflitto dirigenti/esecutori. Speriamo che come diceva così finemente Stirner: "Qualunque cosa voi doniate loro, essi reclameranno sempre di più, perché essi non vogliono niente di meno che l'abolizione di qualsiasi dono".