Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 9 nr. 75
giugno 1979 - luglio 1979


Rivista Anarchica Online

Le regole del gioco
di E. Z.

Mentre scriviamo il generalissimo Dalla Chiesa sta "blitzando" per le vie di Genova all'inseguimento del sostituto procuratore Calogero. Non fraintendete: non è la notizia del giorno, semplicemente il "nostro" sta cercando di riguadagnare il terreno perduto nei confronti del magistrato padovano, per cui, con uno spirito di emulazione degno delle Olimpiadi di Berlino del '36, Carlo Alberto è riuscito anche lui a collezionare un certo quantitativo di professori universitari, un libraio, qualche laureato e un paio di operai. Come finirà questa appassionante gara? L'impressione è che gli inquirenti vogliano diventare dei benemeriti della Pubblica Istruzione, dando un contributo decisivo alla risoluzione del problema dell'affollamento delle facoltà universitarie. Nel frattempo le B.R. fanno comizi e volantinaggi nei mercati romani, assaltano sedi di partiti, comandi della forza pubblica, dimostrando una vitalità insospettabile per un organismo che dovrebbe essere stato colpito a morte.

Questi gli episodi ultimi di una campagna elettorale condotta più per mezzo delle procure della repubblica, Digos, Carabinieri che sulle piazze. In mezzo a tanto polverone, tutta quell'area della sinistra che non si riconosce nel P.C.I., comprendente oltre ai raggruppamenti istituzionali, P.S.I. e P.R., una lunga serie di gruppi, gruppetti, frazioni, linee, tendenze, insomma il cosiddetto "movimento", quali posizioni ha assunto?

Già nello scorso numero intervistando l'avvocato Piscopo, del collegio di difesa di Antonio Negri, esprimevamo il parere che la reazione fosse stata fino a quel momento decisamente inferiore a quanto ci si sarebbe potuto aspettare. Ora, ad un mese di distanza, tenteremo di definire meglio le nostre impressioni.

È necessaria una premessa. La cosiddetta cultura popolare, quella che trae i propri temi e le proprie elaborazioni dal vissuto giornaliero degli strati più umili della popolazione, ha prodotto nel corso del tempo quel distillato di massime, di saggezza in pillole che sono i proverbi. Tra questi, un certo numero ha come motivo ispiratore quello della necessità di saper valutare le conseguenze delle proprie azioni. Le letture possibili sono diverse: ad esempio, in "chi la fa, l'aspetti" possiamo leggere l'ammonimento a non esporsi, ad accontentarsi di quello che si ha, cioè una filosofia di vita rinunciataria, ossequiente del potere, qualunquista e reazionaria. Ma si può fare un'altra lettura: all'azione, tu che agisci, se sai perché è contro chi agisci, non puoi non aspettarti che segua una reazione, che sei già in grado di conoscere nelle sue linee generali. In poche parole, forse brutali, non puoi agire e poi lamentarti di quello che ti succede di conseguenza.

Perciò, quando domenica 8 aprile leggemmo sui giornali dell'arresto di Toni Negri, Oreste Scalzone e altri, le nostre reazioni non furono di eccessivo stupore, convinti come eravamo, e siamo tuttora, che nel corso di una lotta le botte si danno ma si prendono anche, avendo ognuno dei contendenti un diritto di sopravvivenza che legittima l'uso di qualsiasi mezzo venga reputato idoneo alla difesa ed alla affermazione di tale diritto. Se poi uno dei contendenti è lo stato, il sistema di istituti, norme codificate, comportamenti istituzionalizzati eretto a difesa degli interessi e dei vantaggi dei pochi nei confronti dei bisogni dei tanti e che sul consenso dei tanti erige la struttura ideologica portante che gli permette di definirsi "democratico", è allora ragionevole pensare che nel corso di una lotta senza esclusione di colpi, questo detentore del potere reale, dato dal consenso e dalle strutture economiche e legislativo-repressive che del consenso sono contemporaneamente figlie e padrone, finirà fatalmente per vincere. E il vinto non potrà aspettarsi benevolenza. Questa nostra convinzione ci permette di non perdere la calma, di non scandalizzarci tutte le volte che lo sviluppo della lotta fa registrare dei caduti. Pensiamo che non si possa fare la rivoluzione chiedendo il permesso di farla a coloro che dovrebbero esserne le vittime.

A questa prima considerazione, che riteniamo di validità generale, ne dobbiamo aggiungere una specifica, dettata dalla analisi della attuale situazione italiana: l'esistenza di un contrasto abbastanza accentuato tra lo stato e quella che viene comunemente definita società reale, cioè tra delegati e deleganti che ritengono di non essere più correttamente rappresentati ma che non riescono o non vogliono trarre da questa valutazione la conclusione ultima e definitiva del rifiuto della delega. Ciò spiega il particolare successo di quelle formazioni politiche, come i radicali ed in parte anche i partitini a sinistra del P.C.I., che fanno del recupero della rappresentatività il loro cavallo di battaglia. Ed è in questo quadro, in cui il dissenso istituzionale ha preso il posto della contestazione globale al sistema, che si inseriscono necessariamente i richiami al "garantismo", cioè al rispetto per la legalità costituzionale che si persegue riducendo al minimo l'interpretazione e ampliando al massimo l'osservanza della lettera della legge. Un sistema garantista, che costituzionalmente assicura la libertà di manifestazione del pensiero, che vieta la discriminazione per diversità di opinioni politiche, che in breve, garantisce la possibilità di esprimere dissenso, e per ciò può definirsi "democratico" in quanto sulla base di queste garanzie chiede ed ottiene consenso, non può permettersi di negare tutto ciò senza correre il rischio reale di vedersi rifiutata la legittimazione.

E così, una volta arrestati gli ideologi dell'autonomia e conosciute le accuse loro rivolte, si è formato il partito degli innocentisti: intellettuali, uomini politici della sinistra, giuristi. Con una differenza, però rispetto ad altre volte: in questa occasione il partito è abbastanza sparuto e le sue capacità di mobilitazione dell'opinione pubblica sembrano decisamente poco adeguate al compito assunto. Come mai? A nostro modo di vedere le spiegazioni sono essenzialmente due. 1) Il fatto che il P.C.I., duramente attaccato negli ultimi tempi, sia a livello teorico che pratico, dall'autonomia e dalle formazioni armate, abbia deciso di reagire e di farlo duramente in quanto il successo di tale reazione si può trasformare in un validissimo argomento elettorale nei confronti di quell'elettorato insoddisfatto di come finora è stata condotta la lotta al terrorismo. Guido Rossa, sindacalista iscritto al P.C.I., che denuncia Berardi, postino delle B.R., e viene per questo ucciso; il sostituto procuratore Calogero che viene indicato come facente riferimento al P.C.I., senza che ciò provochi smentite. Sono fatti indicativi di una decisa assunzione di paternità dell'azione repressiva da parte del partito. E la maggior parte dei "garantisti" di altre occasioni sono più o meno organicamente legati al P.C.I., che può perciò manovrare a suo piacimento importanti strumenti di formazione dell'opinione pubblica "qualificata". 2) Anche se i fatti e le opinioni si differenziano sostanzialmente e in un quadro garantista le idee sono giuridicamente innocenti, in questo caso tra parole e fatti, sostiene Calogero, non vi sarebbe soluzione di continuità. E questo giudizio, che ha permesso ai giudici di contestare agli accusati una serie pesantissima di capi di imputazione, è stato in parte autorizzato dal comportamento tenuto sino ad oggi dall'Autonomia, che teorizzatondo dapprima e tentando poi di dimostrare con una serie di azioni violente una (secondo noi inesistente, almeno nelle dimensioni indicate) generalizzata diffusione del malessere sociale, ha ottenuto esattamente il contrario di quanto sperava: invece del radicamento della opposizione violenta al sistema, un rifiuto sempre crescente di questa pratica di lotta e di conseguenza il suo isolamento fisico e politico. Il manifestarsi di forme spontanee e a volte violente di dissenso noi riteniamo che non possa essere in questo momento contrabbandato come nascita di un nuovo movimento di contestazione; si può tutt'al più parlare di forme esasperate, proprie di piccoli gruppi se non addirittura di singoli individui, di protesta. Perciò i rapporti di forza non sono cambiati tanto da costringere a considerare "legali" comportamenti sino ad oggi considerati "illegali". Non avendo la forza necessaria ad imporre una nuova legalità rivoluzionaria è inevitabile il ricorso al garantismo dello stato borghese come mezzo di difesa dei compagni incarcerati.

Per parte nostra, pur ritenendo giusto che si faccia il possibile per tirare fuori dalle galere i compagni, non possiamo fare a meno di ricordare ancora una volta a tutti che il rispetto del principio della coerenza dei mezzi utilizzati con i fini perseguiti, ci rende difficile digerire l'uso del garantismo come arma per combattere questa lotta.