Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 9 nr. 71
gennaio 1979


Rivista Anarchica Online

Beat utopia
a cura della Redazione

A colloquio con Fernanda Pivano

Il tuo è un personaggio piuttosto singolare: una specie di trait d'union tra la realtà culturale, politica e sociale che ci hai fatto conoscere e la nostra realtà di allora (e forse anche di oggi) ancora legata a schemi rigidi, a modi di pensare derivanti dalla nostra cultura europea. Tu come ti collochi tra queste realtà?

Come una che ha sempre sognato l'abolizione delle strutture, nient'altro. Il mio sogno, la mia utopia è sempre stata quella di vedere un giorno la gente ritrovare la propria libertà esistenziale, il proprio privato al di là delle strutture di qualsiasi natura politica esse siano. Secondo me quindi la mia è un'utopia anarchica che non si colloca perciò in mezzo a nessuna realtà, ma che vive dentro ad essa cercando di mutarla.

A me sembra che tu incarni un po' il personaggio dell'intellettuale che viene a conoscere cose nuove, che le fa conoscere agli altri, ma che ne resta fuori, come una specie di arbitro sopra le parti. Tu la vivi questa contraddizione?

No, la mia realtà è cambiata enormemente e profondamente. Io non ho potuto fare la "vita del sacco a pelo" solo per ragioni anagrafiche e di salute. Però tutto quello che ho scritto è stato per incitare i giovani a liberarsi dagli schemi borghesi e dalle strutture alienanti, proprio per riuscire a fare questa vita di libertà. Credo che sia ingiusto dire che io sono stata un "arbitro" anche perché non c'era niente da arbitrare. Io ho da vivere non da giudicare. Quindi io queste cose ho cercato di viverle in prima persona, in particolare assieme ai poeti americani di cui parlo. Certo questi poeti non facevano parte della sottocultura, erano dell'altra cultura, che era la cultura che cercava di liberarsi dai condizionamenti dell'establishment, era, cioè, una cultura assolutamente e decisamente di dissenso e di rivolta, su questo non c'è nessun dubbio. Certo che se essere un intellettuale è un marchio infamante prendi questo mio discorso di conseguenza, per me essere intellettuale di dissenso e di rivolta non è una cosa infamante, anzi. Perché c'è chi è capace di lavorare al tornio e chi è capace di lavorare sulla carta con la stessa determinazione. Tutti i lavori sono buoni se riescono a incidere sulla realtà sociale, politica o esistenziale. Siccome, secondo me, questa realtà la puoi mandare avanti solo con il dissenso ecco che anche l'intellettuale ha un suo ruolo nel mutamento della realtà.

Io forse ho dato per scontato il tuo personaggio di intellettuale, che forse è stato più imposto dagli altri che voluto da te. Tu come ti senti realmente? Cioè cosa, chi, come credi di essere oggi?

Io sono stata molto handicappata dal fatto che sono nata borghese, ed essendo nata borghese ho dovuto passare tre quarti della mia vita a cercare di scrollarmi di dosso questa eredità non voluta. È per questo che sono diventata anarchica, per liberarmi da ciò. Naturalmente essendo nata borghese, le uniche forme di espressione che ho saputo trovare per esprimere questa mia ansia libertaria, questa mia ansia di liberazione dalle strutture, sono state forme tipiche degli intellettuali. Cominciando così ad occuparmi di tutti quegli autori che sono stati in rivolta contro il sistema. Questa è stata la mia forma di rivolta e non credere che questo non mi sia costato nulla dato l'ostracismo totale delle strutture direttamente interessate, cioè giornali, editori, televisione, università, ecc. verso di me che cercavo, così come altri, di utilizzare questo mio ruolo passivo di intellettuale in modo attivo, cioè in senso rivoluzionario.

Tu credi che potrà esistere in un futuro più o meno lontano una società anarchica?

Vedi, una società anarchica presume un uomo talmente ottimale che è difficile riuscire ad immaginarla in un futuro prossimo. Certo io l'ho sempre sognata, dicono che è un'utopia, ma io sono sempre rimasta abbarbicata a questa utopia. Cioè una società non capitalistica, che è la base per la costruzione di una società anarchica. Poiché finché esisterà il denaro esisterà il veleno del denaro, esisterà la competizione, esisterà la rivalità, esisterà la disuguaglianza, esisteranno i padroni che comprano il lavoro degli altri, ecc.. Insomma il problema grosso che secondo me sta alla base di una futura società anarchica è l'abolizione del capitale. Prima però occorre che esistano gli anarchici, cioè l'uomo ottimale di cui parlavo prima. Questo sottintende lo sviluppo della comunicazione, cioè della conoscenza, dell'emancipazione. Cosa possibile solo attraverso la non-violenza. Quante rivoluzioni fatte da "rivoluzionari di professione" non sono state altro che una ricerca del potere?

Alcuni valori del mondo della cosiddetta "beat generation" sono stati scoperti o riscoperti solo ora in Italia. Come ad esempio la preminenza della ricerca individuale, esistenziale, della comunicazione, della conoscenza fisica ed emotiva, sulla comunicazione di massa. Tu come vedi questa nuova tendenza di recupero della ricerca di comunicazione tra individui?

Ora che l'esperimento della violenza si può considerare fallito (se si tiene conto del fatto che tutto quello che si è potuto ottenere dalla violenza è il terrorismo) allora si ricomincia a considerare i temi della comunicazione e della non-violenza come forme di lotta per l'emancipazione. Temi che sono stati la grande proposta della beat generation. Cioè scavalcare la lotta di classe con la comunicazione. È stata questa la grande proposta che tutti hanno cercato di insabbiare, da destra e da sinistra, perché non faceva comodo a nessuno. Era una cosa talmente rivoluzionaria che andava completamente fuori degli schemi politici abituali. E adesso che ci si è accorti che con la violenza non si è ottenuto niente e si vuole andare alle origini, si ritrova l'eredità della beat generation. Che è quella della comunicazione e della non-violenza.

Io credo (per quello che ho potuto capire leggendo i libri della beat generation e non conoscendo di persona gli autori) che nessuno di loro abbia mai cercato di comprendere la realtà sociale e i problemi ad essa connessi, ma che si siano occupati solo della propria realtà individuale. Che messaggio "sociale" credi si possa trarre da questo loro individualismo?

Non c'è dubbio che, ad esempio, i famosi viaggi di Kérouack non avessero dei fini sociali. Avevano però dei fini privati che si basavano su questa specie di esplosione di energia vitale. Ora, l'energia vitale, quando si manifesta a certi livelli diventa anche un fenomeno sociale, perché l'uomo non è più un parassita della società se impone la sua energia vitale in modo tale da diventare un esempio di liberazione dagli schemi. Kérouack mi si presenta come l'anarchico che si libera dalle strutture, che dice: "Io impongo la mia energia sull'abulia di quelli che vivono nelle strutture". Questo per quello che riguarda Kérouack, che è una posizione profondamente diversa da quella di Ginsberg e Gary Schneider che invece sono molto vicini al marxismo. Anche se Ginsberg con il suo avvicinamento al buddismo è tornato su posizioni anticapitalistiche che loro considerano anarchiche. Anche se confondono anticapitalismo con marxismo, confondendo quindi anarchia e marxismo. Questo equivoco che nasce dal fatto che in America non c'è conoscenza esatta del marxismo come da noi.

Credi realmente che al di là della crosta comportamentale, qui da noi i giovani abbiano capito la realtà così diversa della beat generation?

Ma sai, l'abbigliamento per esempio, è la cosa più facile per riconoscersi. Il fattore esterno può essere generalizzato fino a quasi sembrare un elemento internazionale comune. Quello che secondo me va veramente capito è la differenza radicale che esisteva e che esiste tra la nostra realtà e la loro, poiché la situazione italiana è così profondamente politicizzata ed è così intrisa dalla cultura marxista che non è neanche possibile fare un raffronto. Tanto per dire: là si è parlato di una sottocultura. Si trattava cioè di ragazzi che facevano il Drop Out, dei ragazzi per lo più borghesi che abbandonavano la scuola, la famiglia, che insomma rinunciavano al benessere. Questo era anche il senso del loro aspetto: capelli lunghi, jeans, sandali, cioè una rinuncia anche estetica al benessere. Quindi non solo un modo di riconoscersi. Qui invece non si parla di sottocultura, ma di sottoproletariato. Era ed è il sottoproletariato che cercava di procurarsi in qualche modo almeno il benessere del proletariato. Qui c'era la caccia al benessere mentre là c'era la rinuncia al benessere, ad un certo tipo di benessere, ovviamente. Come si fa a fare un confronto? Questo è importante, perché è la base della differenza fra la nostra situazione e la loro.