Rivista Anarchica Online
Famiglia: la fabbrica dei cretini
di P. F.
Intervista a Marcello Bernardi
Alcuni l'hanno definito "lo Spock italiano", con riferimento a Benjamin Spock, il più noto
pediatra americano, autore di un manuale sulla prima infanzia letto da milioni di famiglie negli
Stati Uniti e nel mondo. Ed in effetti Marcello Bernardi è forse il più noto pediatra oggi in
Italia: il suo libro Il nuovo bambino, che più che un libro è un manuale, una guida per "tirar su
bene" i bambini fin dalla nascita, ha avuto una diffusione di massa. Il suo ultimo libro La
maleducazione sessuale, incentrato sulla critica dell'educazione sessuale e dei falsi miti della
presunta "liberazione sessuale", ha avuto un'eco minore: in Italia - afferma Bernardi - non è
"normale" che un pediatra, che dovrebbe occuparsi solo dei bambini che hanno mal di pancia o
che fanno pipì a letto, si interessi anche dei più generali problemi della società. Francamente,
credo che i miei "colleghi" pediatri non si siano nemmeno accorti dell'uscita del mio ultimo libro.
Per le mie idee, per certe mie prese di posizione a volte mi sono sentito dare dell'anarchico. Anche
se la cosa non mi dispiace, debbo francamente dire che istintivamente rifiuto qualsiasi
catalogazione. Al di là delle etichette, comunque, io sono assolutamente convinto della necessità
della libertà quale condizione per il positivo sviluppo della personalità umana. Al bambino, invece,
si insegnano subito due cose: 1) che lo stato, la polizia, la famiglia, in definitiva l'Istituzione è
indispensabile, a meno che non si voglia tutti finire travolti dall'anarchia (come molti amano
definire il caos); 2) che la sua identità di individuo, di bambino, implica di necessità l'Istituzione,
tanto che la funzione stessa di un individuo (operaio, impiegato, ecc.) rappresenta la categoria
nella quale egli si deve necessariamente inserire. Ciò che gli si vuol far credere è che, in ogni caso,
un padrone è necessario, sia esso il papà, il maestro, il prete, l'ufficiale dell'esercito o il padrone
della fabbrica.
Inutile insistere nella critica alla "pedagogia tradizionale": su questo terreno la concordanza di
opinioni tra gente di sinistra è ovvia, completa. Ma non sta proprio qui un possibile pericoloso
equivoco? Che cosa si nasconde dietro il generale unanimismo a favore di sistemi educativi più
liberi? E soprattutto, che significato e che funzione può avere oggi, in questa società, una
"pedagogia libertaria"?
Io ho l'impressione - risponde Bernardi - che in molti casi ad un'imposizione di destra se ne sia
sostituita un'altra di sinistra. Dopo la distruzione di un mito pedagogico di stampo tradizionalista,
si è voluto riempire il vuoto (ma quale vuoto, non riesco a capire) con l'imposizione di un altro
mito di tipo progressista (si fa per dire, naturalmente). Si è cercato di imporre la "libertà
obbligatoria", ma questa non è più libertà. Anche il vasto e contraddittorio "movimento" delle
comuni, cioè il tentativo di spezzare antiche tradizioni di vita familiare per sperimentare nuove
forme di convivenza (e quindi di "educazione"), viene analizzato da Bernardi sotto questa luce
critica. Per lodevoli che possano essere giudicate le intenzioni dei promotori di quegli
esperimenti, resta immutato il fatto che il bambino viene pesantemente condizionato dagli adulti:
sono loro che vogliono fare la loro "rivoluzione", sono loro che sentono determinati problemi e
che tentano di risolverli come meglio credono: il bambino, ancora una volta, non è che un
"oggetto" nelle loro mani, il capro espiatorio dei loro problemi. Troppo spesso ci si dimentica che,
almeno nei suoi primi due o tre anni di vita, il bambino è un essere rivoluzionario, infinitamente
più rivoluzionario degli adulti: dopo, con il passare del tempo, sotto il "bombardamento" della
famiglia e della società, lo è sempre di meno, le sue difese diventano sempre meno valide finché,
come ha scritto Laing, a 15 anni ci ritroviamo davanti un cretino, esattamente uguale a noi. Io
vorrei, invece, che il bambino potesse evolvere per conto suo.
D'accordo, ma come? In quali strutture?
In nessuna struttura. Assolutamente nessuna.
Chiedo a Bernardi se ritiene possibile una famiglia "diversa", più aperta, non rigidamente
strutturata, come è stata "tentata" ed anche realizzata in molte esperienze comunitarie. Mi
risponde con un drastico "no": a suo avviso la famiglia, cioè quella struttura formata da una
figura maschile (che può essere o non essere il padre), che rappresenta un certo tipo di ruolo, da
una femminile, che rappresenta un altro ruolo, e dai bambini, questa struttura "famiglia" è di
per se stessa negativa. E va distrutta, sempre e comunque. Se si vuol cominciare a fare qualcosa
di diverso, bisogna svincolarsi da concetti, come quello di famiglia, che sono terribilmente
sbagliati. Sia ben chiaro: io non voglio negare che ogni essere umano abbia diritto ad un suo
nucleo affettivo, cioè ad avere alcune persone alle quali è legato da rapporti affettivi - ma questo
non significa creare una famiglia. Ciò significa semplicemente che alcune persone (quali, non so)
stanno insieme perché si amano e si aiutano l'una con l'altra: ma questa, lo ripeto, non è una
famiglia. Io credo che spesso, dietro a grandi paroloni "progressisti", si nasconda solo la volontà
(ed io sono convinto che di volontà si tratti) di non mettere in discussione schemi, abitudini,
tradizioni, che in effetti si ha paura di modificare. È difficile, in effetti, sottoporre se stessi ed il
proprio operato ad una critica costante: è difficile e richiede una buona dose di volontà, che forse
non si può nemmeno pretendere da tutti. Ma resta comunque il fatto che, per cambiare le cose,
questa è la strada da percorrere.
Bernardi insiste nella sua critica all'istituzione familiare, che giudica una delle fonti principali
di oppressione e di sofferenza per il bambino. Riferendosi alla sua esperienza professionale, cita
il diverso "tipo" di bambini che riscontra nelle aree urbane (dove la famiglia è davvero famiglia,
con il padre, la madre e basta, tutti chiusi tra le quattro mura) ed in campagna (dove invece la
famiglia è necessariamente meno ripiegata su se stessa, più numerosa, più "comunità"). I
bambini che vivono in realtà familiari chiuse sono i più disgraziati, si può dire che spesso la loro
personalità viene "disintegrata" dalla famiglia. Si pensi solo al gran numero di separazioni e di
divorzi che avvengono: al bambino costretto fino a quel momento a far perno sulle due sole figure
del padre e della madre, vengono tolte le sue certezze. Tutto gli crolla attorno ed è lui a pagarne
più di tutti le conseguenze: molte nevrosi cominciano proprio così.
Il discorso si sposta sul "ruolo sociale" del bambino. Bernardi mette in rilievo che le motivazioni
per le quali gli individui (compresi i bambini) agiscono sono sempre di carattere affettivo: è
l'amore (per se stessi, per gli altri, ecc.) che spinge gli uomini a fare, istintivamente. Vi sono poi
motivazioni "esterne", indotte dall'ambiente circostante, di carattere puramente economico,
redditizio: si fa per i soldi, per il guadagno, per la posizione. Il bambino - sottolinea il mio
interlocutore - conosce solo le prime motivazioni, non concepisce nemmeno alla lontana quelle
economiche. Sarà la società a imporgliele, instillandogli il mito del lavoro, della produttività, del
guadagno. Il bambino istintivamente gioca, non produce: anche in ciò sta il suo essere
radicalmente rivoluzionario. Spesso siamo noi adulti a non comprendere il significato di tutto
questo, spingendo il bambino a trovare la sua "normalità" proprio sul terreno delle motivazioni
economiche: è la solita storia, siamo sempre noi "adulti sociali" a voler trasformare i più piccoli in
esseri simili a noi. E così cominciamo a costruire il futuro suddito, schiavo, obbediente,
ossequioso.
Inevitabilmente il discorso cade su Fromm, che nel suo best-seller Avere o essere ha sviluppato
la tematica qui solo accennata. Bernardi è d'accordo con Fromm e ci tiene a sottolineare la
"pericolosità sociale" del gioco dei bambini, che altro non sono che esseri umani nello stadio
affettivo (prima cioè di venir condizionati dalle motivazioni economiche). Il gioco non produce,
e qui sta il suo valore rivoluzionario. È per questo che sono sempre stato contrario ai giochi
didattici, che vogliono essere giochi produttivi: i "veri giochi", invece, producono solo gioia e
felicità. Nient'altro.
E non vi è dubbio - prosegue Bernardi - che dall'infanzia alla morte il gioco più gioco, quello che
dà maggiore gioia e felicità, è la sessualità: attuandola l'uomo raggiunge l'estasi, che noi
chiamiamo orgasmo e che gli antichi definivano "piccola morte". Definizione certamente
appropriata, perché nel momento dell'orgasmo - e solo in quello - l'uomo "esce" da se stesso. La
sessualità è dunque il gioco per antonomasia, quindi è anche il gioco che "produce" di meno: anzi,
non solo non produce, ma ostacola anche la produzione tanto che naturalmente un operaio non ha
alcuna voglia di andare a lavorare (magari alla catena di montaggio) quando sa che in alternativa
può andare a letto con la sua ragazza.
Durante il maggio francese venne fuori lo slogan "abbraccia la tua ragazza ma non mollare il
fucile": io sono d'accordo, ma dobbiamo renderci conto delle difficoltà connesse con la traduzione
in pratica di quello slogan. Certo, in linea di massima non dobbiamo "mollare il fucile", cioè
abbandonare il terreno dello scontro: ma non possiamo nemmeno passare tutta la vita con il fucile
in mano, sempre in prima fila nella lotta per l'altrui felicità. Noi vogliamo lottare per la felicità di
tutta l'umanità, e sta bene: ma nella stessa misura dobbiamo volere la nostra felicità, la
realizzazione della nostra sessualità. E questo la società non potrà mai tollerarlo, perché così
vengono scardinate le fondamenta stesse sulle quali si basa l'attuale organizzazione sociale.
Quando si affronta in questi termini la questione sessuale, per riaffermarne l'importanza ed
anche la "centralità" sia al giorno d'oggi sia nell'ambito di un progetto rivoluzionario, Wilhelm
Reich salta sempre in ballo. Il suo pensiero e le sue attività, pur così varii, contraddittorii e
spesso discutibili, costituiscono indubbiamente un punto di riferimento fondamentale, con il
quale bisogna ancora oggi fare i conti. Bernardi ricorda di esser stato tacciato più volte di
essere un reichiano (oltre che un anarchico) non a torto: dichiara infatti di condividere in pieno
l'impostazione generale data da Reich alla questione sessuale. Tralasciando dunque queste linee
generali, qual è l'opinione del mio interlocutore sull'educazione sessuale, questa nuova materia
che in molti Paesi stranieri da tempo s'è imposta come normale materia di insegnamento nelle
scuole e che, grazie alla spinta dei "progressisti", sta facendo capolino anche da noi?
L'educazione sessuale - risponde Bernardi - è assolutamente anti-pedagogica: è l'antibiotico che la
società usa per distruggere il germe della sessualità. Così come è progettata o attuata oggi, infatti,
essa consiste in due operazioni: 1) dare delle informazioni così freddamente informative da essere
ripugnanti (mi ricorderò sempre di quel bambino, mio paziente, che dopo aver assistito ad alcune
lezioni di educazione sessuale, venne da me e mi chiese se il sesso poi era davvero così brutto
come gliel'avevano presentato); 2) fornire delle norme di comportamento su quel che si deve e
quel che non si deve fare. Prima ti dicono "il sesso è così" e te lo presentano in modo che ti faccia
schifo, poi ti dicono "anche se fa schifo, puoi adoperarlo, però in questo modo". Io mi chiedo se
ciò possa esser chiamato educazione sessuale.
E allora che cos'è per Lei l'educazione sessuale "vera"? O meglio, è auspicabile e possibile
un'educazione sessuale "diversa"? O non sarebbe forse meglio impegnarsi solo a garantire il
massimo di libertà affinché ognuno possa sperimentare in piena libertà e trovare così nella
pratica il suo approccio alla sessualità?
Indubbiamente, è così e non potrebbe essere che così. Secondo me è possibile solo una liberazione
totale della sessualità, che sicuramente si scontrerà con il mondo in cui viviamo. Certo, questo
significa anche che i bambini si troveranno ad avere un impatto più "duro" con la realtà
circostante, perché lasciati privi di tutte quelle regole e norme di comportamento che oggigiorno
vengono loro inculcate. Ma a me, francamente, questa storia secondo cui dovremmo essere noi
adulti a risolvere tutti i problemi dei bambini, non piace e non è mai piaciuta. Parliamoci chiaro: ai
bambini si può dire tutto e si deve dire tutto, naturalmente dietro loro richiesta. Nemmeno in
questo caso bisogna intervenire autoritariamente, costringendoli a sapere cose che non chiedono.
Ma quando chiedono, bisogna rispondere loro senza reticenze: si può spiegare benissimo che cosa
sia la pederastia ad un bambino di tre anni, così come si può spiegare benissimo che cos'è un
vibratore ad una bambina di due anni e mezzo. Il bambino recepisce queste informazioni come
tali, senza giudicare se è una brutta cosa o no: il bambino infatti è (e abbiamo visto che col passare
del tempo lo diventa sempre meno) libero dai pregiudizi, dai tabù, dalle inibizioni che abbiamo noi
adulti.
Noi non dobbiamo condizionarlo con tutto ciò: il nostro unico compito è quello di dargli la libertà
di essere un uomo, e basta. Non dobbiamo "programmare" la risoluzione dei suoi problemi
presenti e futuri: deve essere lui stesso a farlo, a poterlo fare, in piena libertà.
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