Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 8 nr. 68
estate 1978


Rivista Anarchica Online

Volontarismo leninista e volontarismo anarchico
di Mirko Roberti

Il discorso che segue tende a mettere a fuoco il problema essenziale di una lettura anarchica del leninismo alla luce di una prospettiva allo stesso tempo teorica e storica. Vogliamo, beninteso, indicarne qui solo alcune linee fondamentali, senza avere la minima pretesa di esaurire il problema, per certi versi, come vedremo, complesso e tortuoso.

Detto questo veniamo subito al nocciolo della questione affermando che un discorso sul leninismo passa innanzi tutto attraverso il nodo decisivo e fondamentale del soggettivismo rivoluzionario. Riteniamo infatti che tutte le abissali differenze ideologiche e strategiche che separano l'anarchismo dal leninismo discendano proprio dall'unico elemento che apparentemente sembra accomunarli: il soggettivismo, appunto. È questa una premessa metodologica che ci sembra corretta dal punto di vista scientifico oltre che ideologico, perché la specificità del leninismo rispetto alla teoria e alla tradizione marxista risiede nel suo innesto volontaristico-rivoluzionario. In altri termini, se non si pone la centralità del discorso sul soggettivismo, l'analisi tende a ridursi al solito confronto fra marxismo e anarchismo.

Dal soggettivismo dunque bisogna partire e, per essere precisi, da quello leninista: caratterizziamolo subito sottolineando i nodi fondamentali della riflessione e della pratica leninista. Il punto di partenza di Lenin è duplice: da una parte Marx, dall'altra la Russia. Marx, ovvero la linea di tendenza oggettiva della storia (dallo sviluppo del capitale, alla formazione del proletariato, alla rivoluzione); la Russia, ovvero l'anomalia rispetto alla linea di tendenza indicata da Marx (assenza del capitalismo).

Il problema di Lenin è dunque quello di innestare il processo rivoluzionario dentro una situazione storica che il marxismo non riteneva assolutamente favorevole. Di qui l'accettazione e l'assunzione diretta "di un punto di vista concreto in una situazione concreta" (per usare le sue parole), e per ciò l'accettazione dei rapporti di forza fra le classi e della stessa lotta di classe dentro una formazione sociale determinata dove il peso e il ruolo della classe operaia erano sostanzialmente scarsi sia qualitativamente che quantitativamente.

Tutta la complessità del pensiero leninista risiede così nella soluzione di questo problema apparentemente insolubile: fare una rivoluzione marxista (perché di rivoluzione marxista si tratta) senza i presupposti oggettivi da essa stessa posti come imprescindibili. La strada seguita da Lenin al fine di ottenere il successo rivoluzionario riflette perfettamente questa duplice tensione che da una parte adatta continuamente il progetto rivoluzionario a tutte le pieghe particolari di un contesto particolare, mentre dall'altra riporta continuamente la pratica sovversiva dentro le maglie ferree dell'ortodossia marxista.

Ma come fa Lenin a piegare la tattica alla strategia e questa all'ideologia? La via è una sola. Poiché in Russia il soggetto rivoluzionario indicato dal marxismo è sostanzialmente immaturo - da un punto di vista sia politico che sociale - occorre creare artificialmente una figura sostitutiva di esso che si ponga il compito di far crescere quelle presupposte tendenze oggettive al momento però solo minoritarie e latenti. Questa figura deve cioè imprimere alla classe operaia una spinta rivoluzionaria tale da ottenere come contro spinta una estensione del dominio capitalistico secondo una logica tutta dialettica ed hegeliana che vede le lotte operaie come condizione dello sviluppo del capitale e questo, a sua volta, come condizione ulteriore dello sviluppo delle lotte operaie stesse. Il ciclo crisi-sviluppo-crisi viste o teorizzato da Marx in una situazione di capitalismo maturo è qui, nella specificità della Russia contadina, posto in essere artificialmente attraverso l'azione soggettiva delle minoranze agenti. Nella visione leninista dove il rapporto antagonistico fra proletariato e capitale è dato come formazione indotta e forzata, anziché come formazione endogena e "spontanea", le sterminate masse contadine, principale soggetto politico e sociale, devono perciò essere subordinate all'azione della classe operaia o, a dir meglio ai suoi "rappresentanti".

Ne deriva pertanto un continuum gerarchico che attraversa tutto il corpo sociale nella sua fase di movimento e di lotta (dalle masse contadine alla classe operaia, dalla classe operaia alla sua avanguardia, da questa ai vertici del partito). L'organizzazione leninista riverbera così miniaturizzando dentro di sé per poi riflettere ingigantita all'esterno una sequenza ininterrotta di analogie gerarchiche. Tutto ciò al fine di rappresentare ed esprimere la presupposta contrapposizione fra capitale e classe operaia: come dire una finta recita delle parti allo scopo di trasformare la commedia in realtà. Il compito dell'organizzazione è infatti la trasformazione del processo storico complessivo dato in sviluppo storico complessivo presupposto, il determinismo oggettivo della storia fatto partorire attraverso l'azione soggettiva della controfigura della classe operaia. Questo il cammino leninista per ricondurre la situazione anomala (la Russia contadina) alla categoria oggettiva della storia (la rivoluzione marxista), ossia il salto dalla storia che è alla storia che deve essere.

Senonché la figura sostitutiva della classe operaia può assolvere questo compito solo se la sua composizione di classe fa riferimento non ad una natura economica, ma politica, solo cioè se la sua forza risiede paradossalmente nel non essere classe, nel non aver dentro di sé le caratteristiche di classe. L'avanguardia dei "rivoluzionari di professione" organizzata nella sua forma partito esprime quindi lo sdoppiamento fondamentale della figura rivoluzionaria leninista: mentre la sua composizione sociale è inevitabilmente piccolo-medio borghese, la sua composizione politica è presupposta come operaia. Di qui l'ulteriore sdoppiamento dell'azione rivoluzionaria e complessiva che assegna il compito della lotta economica alla reale classe operaia nel momento in cui ai "rivoluzionari di professione" delega la funzione di trasformare questa lotta economica in lotta politica, in lotta per il potere. Nella divisione fra lotta economica e lotta politica, fra classe e partito, si consuma così l'insanabile dicotomia marxista fra lotta di classe e coscienza di classe, fra lotta di classe e lotta rivoluzionaria. Insanabile dicotomia marxista in quanto l'analisi marxiana del rapporto struttura-sovrastruttura è perfettamente riflessa nella pratica leninista senza tema di smentite dal momento che i rivoluzionari di professione non possono essere strutture, cioè classe, ma solo sovrastruttura, cioè coscienza, perché, come è scritto nel Manifesto e in tutti i testi sacri dei due soci fondatori, l'ultima classe della storia è la classe operaia. L'avvento al potere dell'intellighenzia socialista viene a trovare perciò la sua perfetta mistificazione (e giustificazione) dentro la certezza ideologica, proprio mentre vengono poste le basi pratiche e teoriche per l'azione della stessa intellighenzia come reale classe sociale. La cosiddetta "dittatura del proletariato" quale fase di transizione e perciò la teorizzazione dei due tempi del processo storico - l'uno attivo (soppressione dello Stato borghese), l'altro passivo (estinzione dello Stato proletario) - è il naturale approdo logico la cui piena espressione come sappiamo tutti si ha con il supremo capolavoro dell'opportunismo leninista, e cioè con il mitico e metafisico dettato di Stato e rivoluzione.

È qui, infatti, che Lenin applica meglio che in qualsiasi altra parte il suo schema, della subordinazione del soggettivo all'oggettivo, del volontarismo al determinismo. Lo applica proprio riprendendo la fondamentale distinzione marxiana fra abolizione ed estinzione dello Stato, nel senso che la società senza classi, il comunismo, non sono posti in essere dal progetto rivoluzionario - perché impossibilitato dall'irrimediabile gerarchizzazione che lo attraversa - ma dallo sviluppo delle forze produttive. Il progetto rivoluzionario cioè è al servizio dello sviluppo delle forze produttive perché sole esse, secondo gli ortodossi canoni marxisti, possono inverare il maturarsi del comunismo. Lo Stato, in quanto tale, non può essere abolito; esso può solo estinguersi dentro il processo complessivo della liberazione della forza-lavoro e quindi della scomparsa del lavoro. In altri termini la scomparsa dello Stato non è la condizione fondamentale della liberazione umana, ma il punto di arrivo della stessa liberazione. Società senza classi, comunismo, estinzione dello Stato sono scadenze poste al di là del processo rivoluzionario, come generiche direttive di massima dentro un tempo quindi non più storicamente ipotizzabile. L'ideologia si rivela allora per quello che è: un grossolano pasticcio teologico al servizio di una nuova classe vale a dire i rivoluzionari di professione che fin dall'inizio hanno guidato tutto il processo rivoluzionario.

A questo punto si possono registrare alcune considerazioni complessive. La prima, e la più importante, riguarda il vero oggetto di tutta la "scienza" leninista. Il vero oggetto di questa "scienza" è uno solo: la conquista del potere. A questo fine tutto deve essere subordinato senza remora alcuna. Per dare ragione della duttilità dell'azione leninista, del suo intelligente intreccio fra tattica e strategia tessuto attorno ad ogni situazione particolare, bisogna sempre tener presente, appunto, questo imperativo categorico: la conquista del potere è la prima e la più importante condizione della rivoluzione proletaria. Ne deriva che la rivoluzione proletaria è sempre, nella visione leninista, una rivoluzione politica. È questa, dunque, l'espressione veritiera del suo soggettivismo. Come questo è in funzione di una presupposta tendenza oggettiva e unidirezionale della storia da favorire nel suo pieno sviluppo di capitalismo, così la rivoluzione politica subordina a sé la priorità ad una presupposta rivoluzione sociale (lotta di classe, scomparsa delle classi). Risulta quindi perfettamente conseguente il primo passaggio di questo cammino che si può riassumere con le stesse parole di Lenin: capitalismo di Stato-dittatura del proletariato. Capitalismo, perché bisogna passare attraverso questo purgatorio indicato da Marx; di Stato, perché la rivoluzione politica viene prima della rivoluzione sociale; dittatura del proletariato, perché è la fase di transizione dal capitalismo al comunismo, dallo Stato alla scomparsa dello Stato, dalla rivoluzione politica alla rivoluzione sociale, dalla lotta di classe alla società senza classi.

Il soggettivismo leninista è dunque un falso soggettivismo che implica a sua volta un falso realismo. Tutta l'azione creatrice del leninismo, infatti, è sempre subordinata ad una a priori presupposta tendenza oggettiva della storia. Questa pregiudiziale impedisce una visione realista perché il metodo dell'adattamento ad una situazione particolare e concreta serve sempre e solo a trasformare questa situazione data in una situazione presupposta: il leninismo, cioè, è sempre irrimediabilmente dogmatico. In questo senso bisogna convenire con quei suoi esegeti che rivendicano l'universalizzazione del suo metodo perché proprio questo rigido schematismo - che costituisce la sua vera natura - ci dà ragione della sua pretesa applicabilità. In effetti la teoria rivoluzionaria di Lenin ha trovato la sua fortuna nell'epoca dell'imperialismo capitalistico conclusa nella prima guerra mondiale con il crollo dell'eurocentrismo. Tutto ciò, però, serve a qualificare storicamente il leninismo, a storicizzarlo nel suo contesto spazio-temporale, non certo a penetrare e ad analizzare la sua ripetibilità teorica. Morto Lenin, infatti, è rimasto il leninismo. Vero è che la teoria rivoluzionaria leninista si è presentata soprattutto come teoria critica dell'imperialismo capitalistico, come asiatizzazione ed orientalizzazione del marxismo, come modulo ideologico e strategico della lotta di indipendenza nazionale in chiave terzomondista, e perciò come salto a piè pari della fase capitalistico-borghese nelle sue strutture democratico-parlamentari, fatto salvo il processo di industrializzazione; ma vero anche è il puro valore storico di contingenza della teoria del crollo a partire dagli anelli più deboli (in questo caso la Russia). Dal punto di vista scientifico, la teoria che vede nella guerra per la spartizione dei mercati l'inevitabile sbocco dell'impossibilità oggettiva per il capitalismo di elevare il tenore di vita della massa operaia, dilatando così il proprio mercato interno in modo da renderlo idoneo ad assorbire la produzione sempre crescente, non merita l'eccessiva considerazione che le è stata data. Si tratta, infatti, di una ripetizione di temi populisti che trovano la migliore confutazione proprio negli scritti giovanili di Lenin.

In realtà questa teoria non può occupare nella struttura epistemologica del pensiero leninista lo stesso posto occupato dell'espediente organizzativo dei "rivoluzionari di professione". Mentre la teoria del crollo registra qualcosa che avviene indipendentemente dalla volontà umana, o comunque come risultato di una lunga mediazione fra i diversi piani della realtà storica, l'espediente organizzativo dei "rivoluzionari di professione" si delinea applicabile e ripetibile in linea di massima in ogni situazione data. La prima, cioè, è una teoria legata a determinate situazioni politiche e sociali, e di queste ne è una fedele espressione, la seconda, invece, risulta priva di questi gravami di datazione cronologica. In altri termini sebbene entrambe si presentino sotto l'uguale segno dell'esternità - i "rivoluzionari di professione" sono la coscienza portata dall'esterno alla classe operaia come il crollo dell'imperialismo e la guerra sono avvenimenti che, pur favorendo lo scoppio rivoluzionario, avvengono al di fuori della volontà e possibilità di lotta della classe operaia, perché fatti portati dall'esterno - solo la teoria dell'espediente organizzativo, in quanto fa riferimento direttamente alla volontà, ha la capacità di ripetersi ovunque. Come si vede, il nocciolo del leninismo è sempre il soggettivismo (che però abbiamo visto come falso volontarismo).

Se, dunque, la teoria dell'organizzazione costituisce la vera essenza del leninismo, il pathos che dà la certezza mitica dell'invincibilità nella divinizzazione del partito, se cioè è questa la vera teoria rivoluzionaria di Lenin, ebbene allora dobbiamo dire che il leninismo è intrinsecamente e profondamente autoritario. Autoritario però non nel senso tradizionale del termine, ma in modo molto più profondo e terribile perché fa riferimento ad una concezione totalitaria della realtà. La spiegazione ci sembra di averla data sopra. Non si tratta, infatti, solo di una estremizzazione gerarchica dell'organizzazione rivoluzionaria, così come fu denunciata a suo tempo dai socialdemocratici, dai luxemburghiani o dai comunisti dei consigli, ma della volontà di irrigimentare attraverso il processo rivoluzionario tutta la fase storica presente e futura. Si tratta cioè di trasformare un intero processo storico dato in un processo storico presupposto proprio partendo, come abbiamo visto, dalla concezione hegelo-marxista delineata sopra.

In effetti come si può dar ragione del colossale rovesciamento controrivoluzionario operato dal Lenin e proseguito da Stalin, se non partendo da questa concezione dialettica, da questa gigantesca metafisica? Che cosa è stata la NEP prima, e l'industrializzazione forzata poi (sterminio di milioni di contadini), se non l'attuazione del dettato marxista che dichiara il ruolo oggettivamente rivoluzionario e propulsore del capitalismo industriale e dell'industrialismo tout-court, perché unici processi storici capaci di formare ed omogeneizzare una classe operaia che fino allora in Russia era esistita più nella testa dei marxisti che nella realtà sociale? Che cosa è stata la pianificazione dall'alto e la conseguente burocratizzazione se non la realizzazione della direttiva marxista - già teorizzata nel Manifesto - che assegna alla concentrazione economica addirittura il compito fondamentale di realizzare lo sviluppo delle forze produttive fino al punto in cui sia resa possibile la libertà dal bisogno? Cosa sono stati Kronstadt, lo sterminio dei maknovisti e di centinaia di migliaia di rivoluzionari se non la messa in opera, secondo la più limpida visione hegeliana, di una dialettica che vuole uno Stato fortissimo perché, parimenti all'idea del superamento del capitalismo, più alto e maturo è il suo punto di sviluppo più rapida ne è l'estinzione? Difficile dunque è confutare l'idea che il leninismo sia stato e sia l'espressione suprema del totalitarismo rivoluzionario e perciò che sia stato e sia, evidentemente, in radicale ed insanabile contrapposizione con la concezione rivoluzionaria degli anarchici.