Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 8 nr. 68
estate 1978


Rivista Anarchica Online

Ridurre il prezzo del potere
a cura della Redazione

Intervista a Luciano Pellicani

Da più parti viene definito il "nuovo filosofo" del P.S.I., l'ispiratore del documento politico di Craxi: si tratta di Luciano Pellicani, un giovane sociologo che molti compagni ricorderanno per averlo ascoltato al Convegno di Studi Bakuniniani e a quello sui "Nuovi Padroni". Un onesto riformista, buon conoscitore del pensiero anarchico e libertario. Egli sovente usa, per avallare le sue analisi, le intuizioni e le elaborazioni dei maggiori pensatori anarchici. Nonostante questo è evidente che il suo socialismo è molto diverso dal nostro. Troppi aspetti fondamentali ci dividono e dall'intervista che segue risultano con evidenza. Nelle pagine successive compare un'intervista a Massimo Salvadori, altro teorico dell'area socialista che ha mostrato di non gradire la svolta verificatasi nel P.S.I..

Il documento di Craxi ha sollevato grande scalpore perché esce dalle consuetudini della sinistra marxista sviluppando un attacco al leninismo che è anche un attacco al marxismo. Mi sembra però che in questo tentativo di rivalutare un filone di pensiero socialista non marxista e nel ricercare altri "padri del socialismo", si mettano in rilievo gli aspetti del pensiero di Proudhon più dichiaratamente riformisti che, è vero, esistono, ma che non ne costituiscono il "tronco principale" poiché esso è sostanzialmente federativo, autogestionario e per la soppressione dello stato.

Per quanto riguarda il primo punto è evidente che l'intervento di Craxi ha rovesciato completamente quello che è lo stile tradizionale del dibattito nella sinistra che, diciamolo pure, era uno stile basato sull'ipocrisia, in altri termini pur sapendo tutti che le divergenze di principio tra comunisti e socialisti sono profondissime, si faceva finta che queste divergenze non ci fossero. Posso ricordare ad esempio quello che diceva Duverger a proposito del rapporto comunisti-socialisti in Francia e cioè che i socialisti hanno finto che i comunisti francesi fossero dei liberali. Quindi in un certo senso Craxi si è comportato come Errico Malatesta negli anni venti quando, pur dicendosi per l'unione delle sinistre contro il fascismo, insisteva nel sottolineare le differenze di principio esistenti tra anarchici e comunisti. Diciamo appunto che Craxi, proprio perché esiste questa unità delle sinistre che non è stata messa in discussione da nessuno e che non è pensabile che possa essere messa in discussione (unità legata alla emergenza) ha voluto sottolineare le questioni di principio.

Bisogna dire subito che questo intervento ha avuto vari scopi: uno era quello di depurare il partito socialista di quell'odore di leninismo che circola ancora dentro il partito stesso; come Berlinguer ha cercato di rassicurare la sua base che il partito comunista era un partito ancora leninista, Craxi ha fatto l'operazione inversa, ha cioè ribadito che il partito socialista non è un partito leninista e che il leninismo non ha alcun diritto di cittadinanza nel partito socialista stesso. Perché questo problema? Perché in effetti il partito socialista è stato culturalmente colonizzato a partire dal dopoguerra sino ad un paio di anni fa, è cioè rimasto succube dell'egemonia culturale del partito comunista. Ora invece siamo in una fase in cui è il partito socialista che prende l'iniziativa, incalza i comunisti e pone le domande. Soprattutto, come primo obiettivo, il partito socialista si pone nell'ottica di eliminare qualsiasi traccia di leninismo dal partito e, in tempi più lunghi, dalla cultura italiana.

Per quanto riguarda il problema di Proudhon bisogna fare una precisazione: è chiaro che il partito socialista non può che fare una lettura in chiave riformista di Proudhon né d'altro canto ci siamo mai sognati di dire che Proudhon fosse riformista. D'altronde il suo pensiero è talmente composito (per alcune cose ha detto una cosa e il suo contrario) da permettere diversi piani di lettura o meglio una lettura selettiva. Con questo non è che il partito socialista abbia sostituito il profeta Marx con il profeta Proudhon. Questa sarebbe una grossa sciocchezza perché significherebbe sostituire una ortodossia con un'altra e saremmo punto e daccapo, poiché non esistono ortodossie buone e cattive. È il principio stesso di ortodossia che è cattivo perché significa la rinuncia al pensiero. È chiaro che in questo tentativo di rivisitare tutta la teoria socialista noi apriamo le finestre a tutti i contributi che fanno parte della grande tradizione socialista (e quindi anche a quelli libertari o anarchici) e non chiudiamo le finestre ai contributi liberali. Questo è ovvio, nel senso che il partito socialista deve essere un partito poroso che deve fare i conti con la società presente, con il futuro e quindi deve prendere tutti gli elementi che sono in armonia con il suo progetto di base che è un progetto di democratizzazione delle strutture della società italiana.

Bisogna però precisare che non è vero che Proudhon è stato letto e presentato come un riformista: è che molti hanno fatto dire a Craxi cose che non aveva detto. In quell'intervento Craxi aveva messo le mani avanti dicendo che non è vero che il gulag è una degenerazione ma che è la conseguenza logica del principio collettivistico e che già l'aveva detto Proudhon più di cento anni fa con largo anticipo rispetto all'esperimento. In Bakunin poi questo concetto è ancora più chiaro, più esplicito e ribadito in polemica diretta con Marx.

Il termine autogestione, che viene largamente usato nel documento di Craxi, è un termine sempre più ambiguo perché con esso si indicano sistemi di produzione estremamente diversi. La proposta dei socialisti mi pare in definitiva una versione allargata della partecipazione operaia o cogestione, mentre viene trascurato, e non a caso, il problema del potere determinato dalle conoscenze e dal posto occupato nel processo produttivo e il problema della divisione del lavoro in manuale e intellettuale.

Bisogna precisare che il partito socialista italiano autogestionario non è mai stato, anche se a latere alcuni pensatori hanno ragionato in termini autogestionari: ad esempio Bruno Rizzi, che pure non ha mai avuto rapporti organici con il partito socialista ma che in qualche maniera non poteva non avere nel partito socialista uno dei suoi interlocutori. Un altro è Carlo Rosselli che non è mai stato iscritto al partito socialista e che ha fondato un partito suo, ma che si è mosso nella grande area del riformismo. Si è parlato di autogestione all'interno del partito socialista, Morandi ne parlò subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, e ne hanno parlato i "carristi" anche se in modo strumentale come ha riconosciuto lo stesso Libertini un anno e mezzo fa a un convegno dei sindacati a Torino.

Quindi la domanda che tu ti poni è una domanda pertinente, ma la verità è che il partito socialista non ha ancora una idea dell'autogestione, anche se alcuni suoi intellettuali incominciano a ragionare in termini di autogestione, come Covatta oppure Guiducci in cui ritroviamo anche la tematica del lavoro manuale ed intellettuale. Questo quindi conferma che c'è un rimescolamento delle carte. Il partito sta cercando di modificare le sue categorie tradizionali che in definitiva erano marxiste. Nella tua prima domanda mi chiedevi se la critica craxiana al leninismo coinvolge anche il marxismo. Esplicitamente no, posso dire che Craxi in qualche maniera si considera marxista, però il marxismo di Craxi è quello di Mondolfo, cioè un marxismo depurato di tutti gli elementi giacobini ma è anche chiaro che un certo tipo di critica al leninismo coinvolge inevitabilmente il marxismo. Quando si passa dal modello collettivistico al modello autogestionario è chiaro che si abbandona la sponda marxista e si va verso un altro orizzonte. Non esiste quindi ancora una teoria del partito socialista sull'autogestione anche se ci siamo assunti l'impegno di lavorare per definirla.

Nella critica all'intellighentsia leninista il documento di Craxi pone, giustamente, in rilievo il ruolo negativo che esercitano i "rivoluzionari di professione" che instaurano il loro potere personale in nome del popolo. La critica però si ferma soltanto alla intellighentsia leninista e non viene portata fino in fondo anche ai "politici di professione" che in definitiva si differenziano dai primi solo per le modalità di accesso al potere, gli uni attraverso un evento rivoluzionario, gli altri attraverso il suffragio elettorale. Ma i meccanismi di esercizio del potere non cambiano e soprattutto non cambia il ruolo di classe che svolgono, perché anche i politici di professione sviluppano interessi particolari di classe che sono diversi e antagonistici da quelli di chi li ha eletti.

La domanda è più che pertinente. Non a caso noi sentiamo anche questo problema per quanto non crediamo che si possa dare una risposta anarchica. Infatti dal punto di vista della diagnosi gli anarchici hanno perfettamente ragione, ma dal punto di vista della terapia non sono convincenti e credo che questo sia uno dei punti deboli del pensiero anarchico.

Il problema quindi esiste e noi lo sentiamo, tanto è vero che intendiamo organizzare per il prossimo anno un convegno sulla democrazia nei partiti. C'è da dire che negli ultimi anni si era quasi spenta questa problematica perché la gente si era rassegnata a che i partiti fossero quello che sono e che quindi non ci fosse quella democrazia che si auspica e si auspicava. Per quello che riguarda la distinzione tra governanti e governati non c'è dubbio che la professionalizzazione nella politica produce una serie di conseguenze negative tra cui la formazione di interessi specifici della classe politica. E da questo punto di vista le analisi degli anarchici coincidono con quelle degli élitisti e in particolare con Michels. D'altra parte, però, una soluzione vera al problema non esiste e neppure gli anarchici la danno. Come è possibile eliminare questa distinzione? Se noi teniamo presente come modello quello della società tribale, della piccola comunità dove la divisione del lavoro quasi non esiste è evidente che non c'è professionalizzazione della politica, non c'è burocrazia, non c'è stato, non ci sono classi, ecc. e i conflitti possono essere composti all'interno della grande famiglia. Una volta che la società umana si differenzia perché c'è un boom demografico nasce la divisione del lavoro, la società perde la sua omogeneità intellettuale e morale. Questo è il dramma della società complessa, ma non abbiamo soluzioni finali, possiamo solo cercare dei correttivi, cercare cioè forme organizzative, dei sistemi per minimizzare il "prezzo" dell'esercizio del potere che pagano i dominati. Noi ci troviamo di fronte a una malattia che può essere assimilata al cancro per cui non abbiamo ancora trovato una cura radicale ma solo dei paliativi.

Per concludere potrei dire che l'unica soluzione che si è dimostrata efficace è quella liberale e questo bisogna dirlo perché storicamente le cose stanno in questi termini. Non che essa abbia risolto il problema alla radice, ma è riuscita ad individuare un correttivo che si è dimostrato efficace nella realtà delle cose, non in riferimento a un modello ideale astratto. Il correttivo è stato questo: la frantumazione del triplice monopolio: della violenza, delle risorse economiche, delle idee che hanno sempre caratterizzato tutti gli stati. La soluzione liberale è riuscita a frantumare il monopolio delle risorse e delle idee cioè a far circolare le merci in regime di concorrenza e a far circolare le idee ma non è riuscita a frantumare, perché non poteva, il monopolio della violenza. La soluzione anarchica sarebbe di eliminare anche questo monopolio per eliminare lo stato, ma è proprio questo che è ineliminabile perché è questo che permette che le regole del gioco vengano rispettate. Se infatti esistesse un consenso universale sulle regole tale che le regole non venissero mai violate, è chiaro che potremmo fare a meno del monopolio della violenza cioè dello stato e potremmo fare a meno dei carabinieri, dei poliziotti, dei magistrati, e così via.