Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 8 nr. 66
maggio 1978


Rivista Anarchica Online

LETTURE
a cura di L.M. e F.M.

"L'altra anima della rivoluzione",
di Paul Avrich, Edizioni Antistato, Milano 1978, pagg.328, lire 4.000.

L'altra anima della rivoluzione - The Russian Anarchists nell'originale - è il terzo lavoro di Avrich apparso in Italia (lo hanno preceduto Kronstadt 1921 nel 1971 e Gli anarchici nella rivoluzione russa nel 1976) e questo potrebbe indurre il lettore non attento a certi particolari a considerarlo un prodotto recente. In realtà si tratta di un volume che risale a più di dieci anni fa (l'edizione americana è del 1967) e rivela in pieno il suo grado di invecchiamento. Non certo per carenze di documentazione - ricca tanto da essere a volte sovrabbondante e di prima mano - ma per il taglio, per la struttura stessa dell'opera.

È difficile pensare, infatti, che una ricerca storica non risenta del clima politico-culturale, dell'atmosfera che la circonda, della tradizione accademica (The Russian Anarchists è interno alla logica accademica, e non c'è nessuna punta polemica nell'affermazione) con cui deve fare i conti. E i canoni in voga all'epoca negli USA, soprattutto per argomenti così "delicati" erano quelli della storiografia "neutrale", asettica, elusiva nelle tesi di fondo.

Per questo il libro di Avrich lascia un po' delusi coloro che cercano, leggendolo, delle risposte sulla rivoluzione russa e in particolare sul ruolo degli anarchici all'interno del lungo processo che ne sta alla base. Avrich dice e non dice, ci propone un quadro delle forze anarchiche quasi sempre in completa disgregazione, ma non lascia intravedere possibili linee di forza lungo le quali l'azione degli anarchici avrebbe potuto incanalarsi, oltre alla generica indicazione di una "maggiore" organizzazione.

Questo, in parte, è dovuto anche alla struttura stessa del lavoro. Ad una prima sezione concentrata attorno alla rivoluzione del 1905, segue una seconda sulle rivoluzioni del 1917, ma tra le due non esiste nessuna continuità che non sia quella del dato insurrezionale di per se stesso. I due momenti vengono affiancati, l'uno dopo l'altro, ma i nessi che li uniscono vengono completamente tralasciati. Le due parti, inoltre, mancano di uniformità nel metodo espositivo: la prima segue un andamento tematico (I terroristi, I sindacalisti, Anarchismo e anti-intellettualismo), la seconda si snoda cronologicamente.

La scelta di due procedimenti diversi non sembra avere particolari giustificazioni, se non il fatto che diventava quasi impossibile, dal '17 in poi, seguire un criterio che non rendesse conto dell'incalzare degli avvenimenti (a parte il capitolo sull'Ucraina che è a sé).

In realtà, Avrich aveva poche possibilità di agire diversamente, volendo esaminare tutto il movimento anarchico russo dei primi vent'anni del secolo. È già difficile ricostruire in modo chiaro le vicende di movimenti come quello francese o quello italiano, immaginiamo i problemi suscitati da quel fenomeno estremamente complesso che era la Russia degli zar o quello della guerra civile e dell'avvento del bolscevismo.

Se quindi i capitoli iniziali hanno una loro logica interna (si esauriscono in se stessi, con il pregio di essere esaurienti ma con il difetto di comunicare poco tra di loro), gli ultimi hanno come unico punto di riferimento il passare del tempo, le fasi stesse della rivoluzione. In parte alcuni ostacoli possono essere superati con un solido retroterra di conoscenze specifiche (come altrimenti seguire, e capire, gli aspetti dell'emigrazione russa?). Ma questo non basta a colmare certe lacune.

Sfugge, infatti, quasi completamente - e non è poco - il ruolo effettivo degli anarchici dopo il colpo di mano bolscevico, la contraddittorietà di alcune scelte, il perché di altre. Perché molti anarchici, e non solo tra gli anarcosindacalisti, ma anche tra gli anarcocomunisti kropotkiniani e tra gli antiorganizzatori, scelsero di collaborare definitivamente, e senza ripensamenti, con i bolscevichi? Perché in momenti così drammatici e intensi il movimento anarchico non riuscì mai a recuperare una fisionomia unitaria? Che cosa lo divideva così profondamente: solo questioni di tattica, solo una diversa concezione dell'organizzazione? E, infine, che cosa era effettivamente il movimento anarchico russo, oltre ai "leaders", ai personaggi noti e a coloro che, in un modo o nell'altro (magari con una bomba in mano) si facevano notare?

Il libro di Avrich elude in buona parte queste domande. Forse in un futuro lo stesso Avrich potrà darci maggiori risposte, visto che rimane ancora l'unica fonte mediata presso cui scoprire, anche se in misura molto frammentaria, il volto dell'anarchismo russo. E questo, malgrado tutto, non è poco e finisce col giustificare la pubblicazione in italiano del volume.

Al Caffè (Discutendo di rivoluzione e anarchia),
di Errico Malatesta, Edizioni del CDA/La Fiaccola, Torino 1978, pp.120, L.1.000.

L'opuscolo "Al Caffè" si compone di diciassette conversazioni scritte da Errico Malatesta in tre periodi distinti: i primi dieci nel 1897, gli altri quattro nel 1914, gli ultimi tre nel 1922. La formula è quella del dialogo, già utilizzata da Malatesta nell'analogo opuscolo "Tra contadini" (del quale sarebbe auspicabile una ristampa graficamente dignitosa come quella dell'opuscolo in esame).

La forma dialogica volutamente scelta - osserva Nico Berti nella sua acuta presentazione a questa edizione - risulta particolarmente felice e consona al metodo "socratico" del ragionamento malatestiano, tutto teso ad esporre pacatamente e con buonsenso le ragioni dell'anarchismo partendo dalle più classiche ed importanti obiezioni che allora, ma in parte anche oggi, venivano fatte (...) dal primo all'ultimo dialogo è possibile cogliere la continuità di un ragionamento complessivo, la cui logicità trova conferma dalla stessa difficoltà dell'argomento di Giorgio, l'anarchico. Questi, infatti, non sempre riesce a convincere subito e fino in fondo il lettore. Proprio perché costruito volta per volta e faticosamente il suo discorso è più convincente e sicuro. Ed è qui che va sottolineata perciò la ripetuta affermazione del valore preminente della volontà come vera ed unica certezza in grado di porre in essere l'istanza etica della libertà e dell'uguaglianza.

Ottant'anni dopo l'inizio della sua stesura, "Al Caffè" resta ancora un validissimo esempio di mezzo di comunicazione semplice (non semplicistico) ed efficace delle nostre idee fondamentali: concepito per la diffusione del pensiero anarchico tra il popolo lavoratore, non per questo "si abbassa" ad un livello meramente propagandistico-sloganistico. "Al Caffè" è un'ulteriore conferma di una delle doti più grandi del suo autore, che ne spiegano l'efficace influenza esercitata tra i lavoratori non solo in Italia. Ci riferiamo appunto alla sua capacità di esporre con chiarezza e senza inutili fronzoli le idee-forza dell'anarchismo, senza mai cadere nel dogmatismo e nel settarismo: il modo con cui Malatesta "fa parlare" gli interlocutori dell'anarchico Giorgio denota non solo la sua capacità di sintetizzare efficacemente le critiche più comunemente mosse all'anarchismo, ma anche il suo profondo rispetto per le idee altrui - pur nel momento in cui si appresta a confutarle e, se necessario, a "smontarle".

Di opuscoli come questo ce ne servirebbero tanti oggi, scritti da contemporanei sensibili ai problemi oggi più sentiti e dibattuti. In mancanza, la diffusione dell'ormai classico "Al Caffè" può ancora costituire un efficace strumento di propaganda delle nostre idee, certo più valido e generalmente comprensibile della maggior parte degli scritti elaborati da molti compagni, che ai "non addetti ai lavori" cioè a quelli non abituati al gergo imperante del "sinistrese") spesso non sembrano altro che elucubrazioni.

Togliatti e Stalin,
di Giulio Seniga, SugarCo Edizioni, Milano 1978, pagg. 190, L. 3.000.

Pubblicato per la prima volta nel '61 il volume "Togliatti e Stalin" viene ora pubblicato arricchito nella sua parte documentaria. Ne è autore Giulio Seniga, militante socialista, uscito clamorosamente dal P.C.I. nel luglio del '54: clamorosamente perché allora occupava una carica organizzativa delicata ed importante, quale stretto collaboratore del vice-segretario comunista Pietro Secchia e perché, rompendo improvvisamente con il P.C.I., portò con sé "la cassa del partito", vale a dire una cifra considerevole di denaro (si parlò allora di qualche centinaio di milioni, forse di qualche miliardo). Seniga ha sempre motivato la sua uscita dal partito con la profonda e sofferta critica maturata in anni di intensa militanza comunista nei confronti delle modalità organizzative imposte dai vertici burocratici alla vita interna del partito. In sostanza, Seniga - prima del XX congresso del P.C.U.S., che due anni dopo avrebbe aperto la strada alla superficiale "destalinizzazione" di quel partito e di quelli a lui sudditi (in primis, il P.C.I.) - denunciava lo strozzamento sul nascere di qualsiasi critica, l'asfissiante culto della personalità, il rigido dogmatismo che caratterizzava la vita tanto del P.C.U.S. quanto del P.C.I.. Come peraltro indica anche il titolo di questo volume, Seniga metteva in luce il ruolo accentratore svolto da Togliatti nel P.C.I. pari (fatte le debite proporzioni) a quello svolto dal dittatore georgiano nel P.C.U.S.

Il volume si divide in due parti separate ma complementari. Nella prima Seniga ripercorre in maniera rapida ma sempre documentata alcune tappe significative della storia dello stalinismo internazionale: dai processi di Mosca del '37/'38 alla repressione antianarchica in Spagna, dalla politica del Cominform all'eliminazione fisica di prestigiosi militanti comunisti dissidenti. Nella seconda parte Seniga pubblica opportunamente alcuni documenti particolarmente significativi: segnaliamo gli articoli di Togliatti in appoggio alle sentenze emesse nei succitati processi di Mosca, il testo integrale dell'"appello ai fascisti" emesso dai dirigenti comunisti nel '36 e gli sperticati elogi funebri a Stalin scritti da Togliatti, da Longo e dal Comitato Centrale del P.C.I..

Il volume si legge con vivo interesse, tant'è ricco di annotazioni, ricordi, citazioni dall'interno del P.C.I.. Ma soprattutto va letto e consigliato a tutti i compagni perché è un contributo interessante alla demistificazione di Togliatti, il cui culto della personalità ha segnato decenni di storia del partito comunista e di riflesso del movimento operaio italiano (e, almeno in parte, internazionale). Solo per la sua servile fedeltà a Stalin, per la sua attiva complicità con i suoi immani crimini, per il suo assoluto silenzio di fronte all'assassinio di tutti i dissidenti e di quelli solo sospettati di essere tali, Togliatti ha potuto sopravvivere per vent'anni in U.R.S.S., mentre perfino tutta la vecchia guardia bolscevica veniva sterminata da Stalin. Togliatti - e in questo per noi anarchici il libro di Seniga non è che un'ulteriore conferma di quanto già sapevamo per diretta esperienza - è stata una delle figure più bieche, grige e criminali del comunismo autoritario internazionale.

Per ricostruire la verità storica sullo stalinismo il libro di Seniga costituisce un contributo significativo. Ma affinché il discorso non rischi di limitarsi (ed alla fine di soffocare) in una pur documentata demistificazione del ruolo svolto da Togliatti e dagli altri burocrati del P.C.I. ed in accusa al partito di aver "tradito" la causa dei lavoratori e della verità (che sono poi la stessa cosa), è indispensabile approfondire l'analisi delle cause del perché tutto ciò è potuto avvenire. Si risalirà così all'esame della concezione ideologica e della pratica politica del bolscevismo; e, più a monte ancora, all'ideologia marxista, cioè alla concezione autoritaria del socialismo. Se infatti è vero che lo stalinismo ha rappresentato storicamente la massima "aberrazione" della concezione socialista, ciò non toglie che il ruolo svolto dal socialismo democratico riformista ed interclassista non è stato alla fin fine meno nefasto (almeno nei risultati) alla causa dell'emancipazione del proletariato. Al di là delle pur significative differenze li accomuna, infatti, il rifiuto del principio e della pratica dell'azione diretta e dell'autogestione, che sono i tratti distintivi del socialismo anarchico e che soli possono giungere a realizzare quel "connubio" tra socialismo e libertà che lo stalinismo ha sempre ferocemente rigettato e che il socialismo democratico ha sempre sventolato come propria bandiera calpestandola poi quotidianamente con una pratica legalitaria subordinata allo Stato ed agli interessi delle classi dirigenti.

Come è cominciata,
di Michael "Bommi" Baumann, Milano 1977, Editore La Pietra, pagg.191, lire 3.000.

Uno degli argomenti oggi al centro del dibattito nel movimento rivoluzionario è senza dubbio quello della lotta armata; in questo ambito un utile momento di riflessione viene offerto da "Come è cominciata", libro autobiografico di Michael "Bommi" (Bombarolo) Baumann.

Attraverso le proprie esperienze politiche (giovane operaio di Berlino Ovest) racconta la storia di gran parte della sinistra rivoluzionaria tedesca di questi ultimi anni e ne traccia, seppure a grandi linee, un quadro illuminante. "Bommi" Baumann comincia la sua vita di rivoluzionario quando, per sfuggire ad una vita alienante fatta di casa, lavoro e sala da ballo, prende a frequentare gli ambienti ed i gruppi freak ed underground berlinesi; assieme ad essi comincia a politicizzare la propria rabbia e prende parte alle lotte antiimperialiste degli ultimi anni '60. Quindi approda alla famosa "Kommune 1", in cui legge i teorici ed i propagandisti anarchici; da qui un sempre maggior impegno nelle lotte sociali - soprattutto nelle lotte dei giovani operai e degli emarginati - e la fondazione della altrettanto famosa "Comune Wieland", infine la scelta della guerriglia urbana che lo porterà, per circa un anno, anche in carcere.

La parte dedicata alla guerriglia urbana è senza dubbio la più interessante: da essa apprendiamo, ad esempio, le diverse impostazioni che caratterizzavano i due più importanti gruppi di guerriglia tedeschi: la R.A.F. - raggruppamento esclusivamente clandestino staccato da gran parte delle situazioni di base - ed il "Movimento 2 Giugno" (fondato, fra gli altri, anche da "Bommi") che alternava le azioni di guerriglia al lavoro "legale" nei quartieri e fra i giovani.

Tutti gli aspetti più importanti che la scelta della lotta armata comporta vengono presi in esame da "Bommi": dalle motivazioni politiche ai risultati ottenuti, dalla necessità di condurre una vita "normale" (e quindi alienata) al fine di non destare sospetti al potere corruttore del denaro (che non risparmia neppure i rivoluzionari), dagli effetti deleteri sulla personalità provocati dalla dimensione militarista in cui facilmente il gruppo guerrigliero cade, all'uso della droga che, spesso presa per "tirarsi su", finisce per diventare un'arma formidabile in mano alla polizia, dal problema dei tradimenti a quello degli infiltrati (a questo proposito "Bommi" afferma che la polizia tedesca rifornì spesso, tramite infiltrati, di armi la guerriglia).

"Bommi"Baumann, tutt'ora latitante, analizza questi problemi con la lucidità che gli viene dall'averli vissuti direttamente ed espone le motivazioni che lo hanno portato all'abbandono della lotta armata per privilegiare altre forme di lotta rivoluzionaria. Accanto agli aspetti positivi il libro, scritto con uno stile facile e brioso, ne presenta però alcuni negativi: soprattutto il poco spazio e lo scarso approfondimento dedicati alle analisi ed alle teorizzazioni che hanno spinto molti compagni tedeschi alla lotta armata e la superficialità e la fumosità con cui alcuni fatti inerenti alla vita ed alle azioni dei gruppi di guerriglia sono accennati o esposti.

Nonostante questo, tuttavia, "Come è cominciata" (fra l'altro proibito nella R.F.T. perché accusato, a torto, di istigare alla lotta armata) rimane un libro da leggere.