Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 8 nr. 66
maggio 1978


Rivista Anarchica Online

Militanti o militonti?
di Collettivo di Comunicazione Libertaria - Milano

Fino a ieri, c'era ancora qualcuno che credeva alla rivoluzione dietro l'angolo, ma oggi sembra che nessuno più creda alla sua immediata realizzazione. Stiamo vivendo una situazione di riflusso, di ripensamento o di svacco a seconda di come la si vuole interpretare. Di certo è andato in crisi tutto il vecchio modo di far politica, di intendere la rivoluzione e la lotta rivoluzionaria e con essi i valori e i miti scaturiti dalle rivolte sessantottesche. Di pari passo il sistema ha continuato il suo cammino verso la massificazione, riuscendo a trasformarsi ed a trasformare la realtà sociale secondo il suo progetto di società assistenziale. La scissione degli elementi sociali in "garantiti" e "non garantiti" dall'assistenza del sistema sottintende la sua capacità di ricomposizione delle contraddizioni, in nome di una "normalità" che è diventata la garanzia economica, politica, sociale ed esistenziale per la soddisfazione dei bisogni. Bisogni che se prima erano considerati un diritto fondamentale dell'uomo, ora sono considerati un diritto "legale" dell'uomo, cioè un diritto di chi accetta la legge del sistema di sfruttamento in cambio della sicurezza dell'assistenza.

Sembrerebbe un'affermazione assurda se si analizzasse solo da un punto di vista teorico. Chi accetterebbe di farsi sfruttare in cambio di ciò che é suo diritto? Chi accetterebbe di rinunciare alla propria realtà culturale, sociale, espressiva, in cambio di una realtà pianificata, funzionale agli interessi del sistema? Chi accetterebbe un modello sociale castrante basato sulla divisione e i ruoli, che si regge su strutture alienanti e gerarchiche? Chi accetterebbe di farsi garantire in questo modo dal sistema se non fosse convinto della assoluta mancanza di una alternativa valida ad esso? È proprio sulla dimostrazione di questa mancanza di alternativa che il sistema ha potuto ottenere il consenso della massa-interlocutore.

Grazie all'uso strumentale dei mass-media, dei mezzi di comunicazione culturale, della ricerca scientifica, ha potuto dimostrare l'inattuabilità di qualsiasi progetto alternativo al suo. Contro questo muro isolante si sono scontrati tutti i progetti rivoluzionari, le organizzazioni che li propugnavano e i militanti che le componevano.

Ma la crisi di valori e di contenuti del modo di far politica e di intendere la rivoluzione dal '68 ad oggi non è certamente dovuta solamente all'isolamento in cui il sistema ha relegato le forze rivoluzionarie. È una crisi che nasce proprio dal modo di intendere la realtà sociale ed individuale, ancora legato a vecchi sistemi. E questo non riguarda solo quelle organizzazioni che hanno monopolizzato e incanalato, addormentandola, la rivolta sessantottesca, anzi, una crisi di questo genere se vogliamo era prevedibile per quelle organizzazioni che si basano su un'ideologia autoritaria come il marxismo, volta quindi alla ricerca del consenso attraverso la propaganda delle loro azioni esemplari e dei loro testi sacri.

Ma riguarda soprattutto tutte quelle realtà di rivolta tendenti a negare qualsiasi potere imposto e qualsiasi struttura politica e sociale che lo sostenga. Riguarda quindi soprattutto il movimento anarchico e libertario. Se per i gruppi si è trattato di una incapacità di ottenere il consenso alla propria ideologia basata sulla lotta per l'egemonia, ciò non avrebbe dovuto valere per il movimento anarchico che lotta per l'emancipazione con le masse e non certo per il loro consenso-delega. Eppure se analizziamo la realtà e le tendenze dei cosidetti "nuovi soggetti" ci accorgiamo di come siano spesso simili i motivi di crisi sia dei gruppi ex-extraparlamentari sia del movimento anarchico. Noi crediamo che l'errore principale sia stato quello di proiettare il progetto anarchico in una visione futura, post-rivoluzionaria, privilegiando il progetto di abbattimento dello stato attraverso uno scontro che sarebbe dovuto scaturire dall'acuirsi della tensione sociale dovuta all'emancipazione degli individui e quindi ad una loro presa di coscienza rivoluzionaria. Il che può sembrare anche giusto, ma con quali mezzi si è cercato di fornire questa emancipazione? Dobbiamo distinguere tra quella che è la comunicazione della rivolta all'esterno, cioè verso gli sfruttati i nostri interlocutori diretti e rivoluzionari potenziali, e quella che è la comunicazione del progetto anarchico o meglio dell'essere anarchici all'interno, cioè tra militanti, vale a dire sfruttati coscienti del proprio sfruttamento e rivoluzionari attivi. Dove la seconda è diretta conseguenza della prima realtà. Il movimento anarchico "risorto" come voce e corpo nel '68 ha sofferto degli stessi mali, che hanno afflitto i gruppi extraparlamentari anch'essi sorti dal '68. L'essere andati quasi sempre a rimorchio dei gruppi extraparlamentari seguendone le scadenze, i momenti di lotta e gli obiettivi pur con moventi diametralmente opposti, ci ha fatto subire la stessa crisi di emarginazione che essi soffrono ora, per cui le azioni fatte dagli anarchici finivano per essere assorbite dalla asfissiante vicinanza dei "compagni" dei Gruppi. Quando non si è trattato di vera e propria repressione (MLS). Ma secondo noi la causa determinante è stato l'errore di usare il modo spettacolare, cioè simbolico, le azioni, le iniziative, i momenti di lotte intrapresi. E se per i Gruppi ciò era logico in quanto tesi alla ricerca del consenso per noi si è rivelato castrante in quanto rappresentazione simbolica di una realtà di lotta, e non momento di lotta fine a se stesso. Quasi mai si è riusciti pur con tutta la buona fede e la buona volontà a creare una situazione valida e duratura alternativa come struttura reale, che non fosse un fatto simbolico e "spettacolare" destinato ad esaurirsi o a non incidere per niente sul tessuto sociale su cui si è sviluppato. Così è stato per la lotta per la casa, così è stato per la lotta nelle fabbriche, così è stato per la lotta anti-nucleare, ecc.. Anche se non si possono bollare tutte queste lotte come non valide non foss'altro per quello che sono servite a noi per cercare di capire il perché esse non siano riuscite ad incidere validamente sulla realtà.

Tutte queste forme di lotta risultate castranti si sono poi rivelate una delle cause principali della situazione di crisi dei militanti stessi. Secondo noi la causa della crisi di identità del militante nasce proprio dalla scissione forzata tra lotta politica e vita quotidiana, che egli è costretto a fare proprio per i mezzi, per i contenuti, e per i metodi che la sua lotta politica richiede. Lottare per l'emancipazione sociale, culturale, politica e morale dell'individuo, significa riuscire ad essere per lui stimolo attraverso l'esempio delle proprie azioni quotidiane, individuali e collettive, significa entrare nella propria realtà di sfruttato, analizzarla e portare le sue contraddizioni agli altri. Non certo perché il personale è politico o collettivo, ma perché solo attraverso una comunicazione diretta dei propri bisogni e della propria espressione si può ottenere la comunicazione della rivolta. La scissione tra lotta politica e vita quotidiana non è solo determinata dai momenti di lotta falsati dalla loro spettacolarizzazione, ma anche e soprattutto dai ruoli che tali momenti obbligano a ricoprire. Ecco quindi la crisi di ruolo del militante a tempo pieno teso unicamente a comunicare con le masse ed incapace di comunicare con l'individuo e addirittura con se stesso. Questa scissione drammatica dell'identità dell'individuo è forse la causa primaria della crisi di rigetto e di riflusso dei soggetti rivoluzionari rispetto all'organizzazione della lotta. E, ripetiamo, se questo può essere logico all'interno di gruppi strutturati in modo gerarchico e verticale, non trova più una logica all'interno del movimento anarchico. Il progetto anarchico ha la sua forza, ma anche la sua debolezza nell'utopia. Ora, proiettare questa utopia in un futuro post-rivoluzionario, rischia di essere, a livello di soggetto, un rimandare la costruzione della realtà o perlomeno di una parte di questa realtà laddove è possibile, non foss'altro che dentro se stessi. Se è vero che in ognuno di noi si annida il fascista, il maschio padrone, il giudice, il maestro, è proprio vero che è verso di noi che dobbiamo rivolgere le armi della rivolta. Non si può pretendere di voler emancipare gli altri senza insieme emancipare anche se stessi. E questo lo vediamo in modo stridente nella nostra vita quotidiana. Con questo noi non intendiamo assolutamente fare l'ideologizzazione del personale finendo per vivere un individualismo deleterio, dove l'unica comunicazione possibile è quella ottenibile attorno al bisogno disperato di aggregazione per sfuggire alla propria alienazione. Finendo per tentare di creare isole di libertà vigilata, vivendo in ansia per la maggior parte della giornata per poi tirare due boccate di paranoia attorno ad un po' di musica o ad uno spino, ricoprendo precisi ruoli di un rito che non ha nulla a che vedere con il bisogno di comunicazione o di aggregazione, e che resta fine a se stesso. Così come prima si viveva una realtà di militanza in modo estemporaneo attraverso il ruolo del militante, ora si vive una realtà di svacco travestita da ideologia del personale, vivendo il ruolo di emarginato, di diverso, come un'alternativa reale al ruolo di integrato, di "normale".

Ma come è possibile costruire qualcosa di effettivamente valido, di anarchico anche se minimale senza intoppare nella repressione violenta o strutturale del sistema? Forse è inutile parlare di canali, di spazi lasciati liberi, inutile e forse un po' ridicolo, soprattutto ora che il sistema è sempre più forte, violento e repressivo. Ma è anche vero che partendo da una considerazione così distruttiva si può arrivare alla scelta disperata e suicida di una lotta modello B.R., sterile e funzionale al sistema (vedi leggi speciali).

Noi crediamo, partendo dalla considerazione che il sistema non è ancora riuscito come vorrebbe far credere a portare a termine il suo progetto di massificazione, che sia possibile ancora poter comunicare agli sfruttati la rivolta: cioè emanciparli. Questa possibilità di comunicazione passa per la nostra capacità di individui e di movimento, di uscire dai vecchi schemi e dai ruoli che essi impongono e ricominciare a riappropriarci di noi stessi, cioè del nostro quotidiano che è lo stesso quotidiano dei nostri interlocutori. -Vale a dire riappropriarsi della nostra capacità di comunicare con gli altri e con noi stessi. Ciò significa a livello di movimento che si deve cominciare a far emergere tutte quelle tematiche che riguardano questa riappropriazione, come ad esempio i problemi inerenti al lavoro e/o al suo rifiuto, al rapporto con l'ambiente, alle possibilità esistenti di cominciare a creare situazioni di vita anarchica, ai problemi riguardanti l'uso del proprio corpo come mezzo di espressione, di comunicazione, di rivolta, i problemi riguardanti i rapporti fra compagni, il nostro essere castrati da mille situazioni e realtà alienanti, il nostro castrare gli altri con il nostro comportamento, e mille altri argomenti legati alla nostra capacità di autoemancipazione attraverso le azioni quotidiane, che non possono essere che stimoli positivi per tutti coloro che come noi vivono la stessa realtà alienante di sfruttamento. Tutto questo, lo ripetiamo, non vuole essere un voler ideologizzare schematizzandoli schemi e momenti legati al personale, ma vuole essere un cominciare a vivere l'utopia, proprio perché siamo un movimento di gente che vuole vivere l'anarchia.