Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 8 nr. 65
aprile 1978


Rivista Anarchica Online

Università: Amen
di G. L. Pascarella

"L'onda democratica... certe facilitazioni negli esami di promozione e di licenza... producono una quantità di medici senza malati, di avvocati senza cause, di ingegneri senza ponti e senza case da costruire e prepara nella disoccupazione e nel disinganno di tanta gente... una fonte perenne di morbose inquietudini e di malcontento". Questa desolante quanto lucida analisi del massimo livello di istruzione del sistema scolastico italiano tradisce la datazione dal linguaggio ampolloso, è infatti opera del Gabelli che scriveva nel 1888.

Da allora fino ai nostri giorni tutti gli esperti, tutti i fabbricanti di opinioni, hanno sempre maramaldeggiato nei riguardi dell'università, infierendo con definizioni che ne mettevano a nudo i guasti e la sua endemica fatiscenza. Dall'"esercito di spostati" di Labriola si è giunti alla "fabbrica di diplomi", al "fossile denutrito", al "gangsterismo accademico".

Sarebbe però quantomeno impietoso riportare le flagellanti analisi degli studiosi e passare sotto silenzio la frenetica quanto inconcludente attività legislativa indirizzata agli Atenei. A partire dal secondo dopo-guerra infatti sono state scaricate innumerevoli raffiche di provvedimenti talvolta addirittura urgenti, circolari, accordi settoriali, decreti-legge, provvisori toccasana in attesa della riforma taumaturgica. Ma si sa, gli anni passano e le mamme invecchiano e con la senilità di tante generazioni di madri, malgrado l'attesa millenaria della riforma, l'università si ritrova ora nello stato comatoso che tutti conosciamo.

"Appare lecito concludere che si dà una concomitante distorsione del mercato del lavoro e del sistema educativo e delle aspettative che esso produce": queste tre perversioni, individuate da Statera, hanno condotto il "bracciantato intellettuale" a vivere in un sistema formativo-informativo che veniva meno ai suoi compiti istituzionali. L'università italiana non solo non ha appagato le aspettative di mobilità ascendente di quelli che terminavano il ciclo di studi (un terzo soltanto degli iscritti) ma sul piano culturale, come è stato dimostrato in una recente indagine nell'ateneo romano, la maggioranza degli utenti è regredita ad un livello semianalfabetico, insufficiente ad ottenere la licenza elementare. Si sta così assistendo ad una progressiva "liceizzazione" dell'università che da "cittadella del sapere" sta tramutandosi in un luogo di radicalizzazione politica, di discussione di gruppo, di socializzazione dei conflitti intergenerazionali, da scuola per imparare a scuola di dissenso. Non potrebbe essere diversamente se si considera che la figura sociale dell'utente è quella del precario.

Con questa definizione non si intenda esclusivamente l'esercito di "peones" dell'insegnamento (sono comunque più di 30 mila) quanto lo status di instabilità psicologica e sociale (dalla crisi di identità del singolo, alla costrizione del lavoro nero) che viene a crearsi in queste figure coinvolte in una istituzione sempre più atomizzata. È altresì evidente che l'università, con la sua evanescente latitanza, conduca buona parte del milione di "spostati" che sono iscritti, al rifiuto non solo della struttura scolastica stessa, dei suoi programmi pedagogici e didattici, del barone, ma di tutto il Sistema vissuto come coacervo di interessi e privilegi da cui sarà escluso.

L'esplosione di rivolta negli atenei della scorsa primavera non è altro che la iperbolica rappresentazione della lacerazione e dei disagi dei giovani universitari e non. Lo Stato, pur sventolando la tesi del "complotto", ha ben chiaro che il problema del dissenso nell'università, dissenso che ne ha messo in discussione la stessa esistenza non è risolvibile con misure squisitamente di ordine pubblico.

L'esigenza primaria per il sistema di autoperpetuarsi non è tanto il sistemare gli "spostati" quanto l'impotenza e l'incapacità dello Stato, che vorrebbe pianificare l'uso di ogni risorsa e razionalizzare i criteri di formazione e di valorizzazione della risorsa più preziosa, che è per di più l'unica che è praticamente impossibile convertire, trasferendola ad altro uso, quando ci si accorga di aver commesso un errore. In altre parole il gap di produzione di Know-how con gli altri paesi diventerà per l'Italia incolmabile, non si potrà evitare una condizione di dipendenza intellettuale (e conseguentemente politica) rispetto ai Paesi all'avanguardia nel settore della ricerca e della formazione del sapere. Se ciò dovesse accadere, l'ingresso nei Paesi terzomondisti per l'Italia apparirebbe inevitabile. Il problema università per le sue implicazioni e conseguenze non è ridimensionabile nell'ambito di un solo apparato ideologico di stato.

Qual è allora la terapia per il "morbo" che dagli atenei si potrebbe pericolosamente estendere a tutto il sistema? Ancora una volta si deve registrare la diabolica perseveranza nell'errore da parte dei maîtres à penser della docenza universitaria e degli stessi legislatori nell'affrontare la questione determinante per un paese tardo-capitalista, della produzione e della trasmissione del sapere socialmente significativo. La panacea prospettata avrebbe come ingredienti la selezione, il numero chiuso, la programmazione degli accessi, l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Tutti all'unisono affermano che è venuta l'ora di riqualificare l'università tramite una selezione meritocratica. Ed ecco che dopo anni di populismo martellante fatto di slogan come "scuola aperta a tutti", "diritto allo studio", si vara oggi l'imperativo categorico "dovere allo studio!". Sembra di essere ritornati come d'incanto a prima del '68: notisti politici di sinistra sostengono con sempre maggior vigore la necessità di formare "élites di intelletto e non di classe", di operare "scelte di merito e di attitudini non di classe", o più sbrigativamente "stringere il collo della bottiglia".

È singolare notare come queste proposte di cui si faceva carico la destra fino a pochi anni orsono, venendo bollata di incostituzionalità, ora vengono rispolverate dalla sinistra istituzionale in nome dell'amore per la cultura e per le sorti del Paese contro la gretta tensione al "pezzo di carta".

Ma come si fa a credere che la gente vada a scuola per amore della cultura, quando questa ha come compito istituzionale quello di distribuire i privilegi e conferire status? Come è possibile proporre il numero chiuso quando l'Italia vanta una disoccupazione di diplomati da capogiro? Si pensi che i nuovi incarichi nella scuola elementare non si avranno prima del 1982.

Coma irreversibile allora per l'università? Malgrado la imminente costituzione di un apposito ministero autonomo, si approssima la discussione di una proposta di riforma (peraltro già presa a sberleffi da studenti, docenti e precari). Certo è che l'Italia mai potrà vantare università come quelle americane di Harvard e di Stanford che sfornano quadri direttivi con capacità gestionali e strategiche delle imprese; né supponiamo si avrà una corrispondente E. N.A. che prepara gli altissimi ed efficientissimi burocrati statali francesi.

Dove si formerà allora la ruling class italiana? Con il decesso dell'università quale istituzione saprà "fornire una identità culturale, basata sul lavoro sociale anziché su quello professionale, alla dirigenza industriale; confermarla nella propria legittimazione autocratica"? Quale sarà l'habitat di elaborazione e di trasmissione del management sciences? Dagli inizi degli anni '70 anche in Italia stanno proliferando le scuole di formazione post-universitaria sponsorizzate dalle associazioni industriali, dalla C.E.E., dagli enti locali e di commercio, dai rappresentanti sindacali padronali e no dotati di una docenza qualificatissima ed al sicuro dal casino degli atenei.

In nome del superamento della "sindrome del banco", di una "descolarizzazione controllata", si vanno estendendo organizzazioni che raccolgono pool di cervelli che nel corso di serratissimi seminari formano i quadri intermedi con aspirazioni manageriali. Al di là delle incongruenze, riferibili più al sistema economico-politico italiano che a loro precisamente, queste scuole si stanno sviluppando e danno sempre maggiori garanzie di formazione di quella élite culturale tecnocratica che l'università ha ormai cessato di sfornare.