Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 8 nr. 65
aprile 1978


Rivista Anarchica Online

Parliamone tra compagni
a cura della Redazione

Quattro compagni (Rossella di Leo, nel '68 militante a Catania, Claudio Venza di Trieste, Amedeo Bertolo di Milano e Roberto Ambrosoli di Torino), che hanno vissuto il '68 in diverse realtà geografiche, politiche, personali, si sono trovati - quasi per caso - in redazione. Gli abbiamo chiesto di discutere tra di loro di quella annata famosa - come è noto - non solo per l'eccellente qualità dei vini (inferiore in questo, peraltro, al '64). Dapprima si sono scherniti un può, sostenendo che non avevano nulla di originale da dire (e vedendo i risultati ci sembra che non avessero del tutto torto - ma neppure del tutto ragione). Poi hanno cominciato a parlare, nonostante il palese imbarazzo per il registratore...

Claudio - Nel '68 si pensava di dare un grosso colpo al sistema autoritario. C'era nell'aria una fortissima tensione e questo movimento usciva da tutti gli schemi precedenti (di partito, di sindacato, delle organizzazioni rappresentative nelle università) travolgeva la vita tranquilla di decine di migliaia di persone. Di studenti, soprattutto, perché il '68 in Italia - e non solo in Italia - è stato un fenomeno prevalentemente studentesco. Nella mia città (Trieste) solitamente abbastanza emarginata dai grandi avvenimenti, il '68 ha significato per alcune decine di compagni il momento di rottura e quindi il momento di presa in carico in prima persona della lotta politica e dello scontro con tutto l'apparato del sistema: dall'università alla scuola, alla fabbrica, al quartiere, alla caserma. Io personalmente nella primavera del '68 ho attraversato un periodo di formazione intenso e frenetico e ho percepito per la prima volta, seppur a livello istintivo, cosa significa far parte di un movimento rivoluzionario, sentirsi estranei al sistema, ai suoi ritmi e alla sua liturgia.

Roberto - I compagni che, come te, sono "nati politicamente" nel '68, sono arrivati all'anarchismo sull'onda dell'entusiasmo e di una speranza rivoluzionaria molto forte. Chi invece, come me, era già anarchico, ha vissuto il '68 in maniera molto diversa. Parlo naturalmente in base alla mia esperienza e più in genere dei compagni di Torino. Direi che c'è stata una difficoltà di contatto da parte dei giovani anarchici "pre-sessantotteschi" con i fatti del '68. Difficoltà dovuta, io penso, proprio al retaggio teorico-ideologico che avevamo sulle spalle. E questo retaggio ha pesato non poco perché per esempio tutti i miti nati dal '68 e di cui il movimento sessantottesco ha vissuto, erano chiaramente identificati come ambigui o francamente negativi da noi giovani anarchici. Questo ci portava ad un atteggiamento molto critico, che cercavamo di portare all'interno del movimento, delle manifestazioni, delle assemblee, ma che in definitiva ci poneva al di fuori dello stesso. Io ricordo che andavo alle assemblee all'università ma mi sentivo più spettatore che attore e questo mi portava, forse, a sottovalutare quello che stava succedendo e, cosa più importante, a sottovalutare l'importanza di un nostro apporto. A Torino dopo il '68 molti compagni (che si erano formati in quel periodo) sono venuti dagli anarchici, ma più per un bisogno di chiarezza, per la necessità di una analisi più lucida o perché i miti non li soddisfacevano che non per merito di una presenza attiva degli anarchici all'interno del movimento.

Claudio - Ci sono due cose che vorrei aggiungere. Innanzitutto il grado di partecipazione diretta alle occupazioni, ai seminari autogestiti, il gusto di scoprire delle cose da soli e non perché ti vengono dette dal solito professore; e poi la possibilità di instaurare rapporti personali diversi con altri giovani che hanno i tuoi stessi problemi. E ancora il portare i primi volantini davanti alle fabbriche, discutere con gli operai e sentirsi dare le classiche risposte modello (voi siete studenti ecc. ecc.), un rifiuto da parte loro a discutere con noi i loro problemi di lavoro, se non addirittura un rinviare i rapporti con gli studenti negli ambiti istituzionali dei partiti o dei sindacati. Inoltre personalmente, avevamo tutti, credo questo gusto della liberazione concreta, il gusto di dire sempre quello che si pensa, il gusto di realizzarsi al massimo anche a costo di commettere degli errori. E tutto questo coerentemente con l'impostazione certamente antiautoritaria che ha avuto il '68. Il discorso ad esempio del rifiuto della delega è stato dirompente rispetto alle organizzazioni della sinistra istituzionale: nelle prime assemblee non si è assolutamente parlato di contatti con partiti e sindacati e quando si è cominciato a parlarne le critiche che sono emerse sono state finalmente antiautoritarie, cioè si rifiutavano i contatti con organizzazioni organizzate gerarchicamente. Personalmente sono diventato anarchico circa due anni dopo, ma già allora ero istintivamente anarchico e penso che allora si siano realizzate stranamente delle forme di anarchismo oggettivo, anche se le analisi erano ancora di stampo marxista. Del resto, perlomeno per quello che mi riguarda, a mano a mano che la nostra pratica antiautoritaria quotidiana procedeva, anche queste concezioni venivano svuotate di ogni significato. Sono diventato anarchico portando fino in fondo il discorso antiautoritario iniziale.

Amedeo - Collegandomi a quanto ha detto Roberto voglio precisare che il '68 ha colto di sorpresa gli anarchici, quasi quanto gli altri movimenti e partiti. Eravamo vissuti per anni in una realtà di pace sociale asfissiante, soprattutto nell'ambiente dei giovani, come noi. Ricordo, a questo proposito, che nel dicembre 1966, alla Conferenza Europea della Gioventù Anarchica tenutasi a Milano, uno dei punti all'ordine del giorno era il tema "la spoliticizzazione dei giovani" ed erano state presentate diverse relazioni che documentavano come i giovani progressivamente nel corso degli anni '60 avessero perso l'interesse all'attività politica: si erano svuotate ad esempio le organizzazioni giovanili partitiche. È vero, per contro, che proprio allora nasceva il movimento provo, beat, ecc. ecc.. Ma, a parte questi fermenti, che erano al margine tra azione sociale e scelta esistenziale comunque riguardavano una posizione estremamente esigua della popolazione giovanile, la gran massa dei giovani era (o appariva) veramente spoliticizzata. L'esplosione del '68 ci ha colto assolutamente impreparati, dunque. D'altro canto i movimenti di massa si presentano spesso in modo apparentemente improvviso e imprevedibile e solo a posteriori si riesce a ricostruire una certa continuità di sviluppo, mentre quando li si vive non si riesce a intravvederne il filo logico. Un altro esempio, personale, di questa imprevedibilità. Un paio d'anni prima del maggio '68, nell'assemblea pre-elettorale di Agraria, in occasione delle ultime elezioni per gli organismi rappresentativi universitari avevo proposto che rifiutassimo l'elezione dei rappresentanti e che venisse stabilito come unico organo deliberante l'assemblea e che per specifici compiti venissero di volta in volta nominati dei delegati con mandato preciso e revocabile. La proposta venne considerata la stravaganza d'un anarchico e fu bocciata con due soli voti a favore. Chi poteva allora prevedere che di là a poco i parlamentini studenteschi sarebbero stati distrutti e ridicolizzati e sostituiti con le assemblee e i comitati di lotta?

Rossella - Nel '68 ero diciassettenne e la politica non mi interessava. Nel '68 sono diventata anarchica. Ho cioè vissuto, seguendone lo sviluppo, sia la diffusa spoliticizzazione dei giovani, sia la fase successiva di rapido estendersi dell'interesse e dell'attività politica. Apparentemente il '68 può sembrare una rottura improvvisa ed incomprensibile con il qualunquismo politico che aveva caratterizzato sino a pochi mesi prima i giovani. Il realtà il filo conduttore che permette di capire il rapido cambiamento parte da quella "rivoluzione culturale" che già da alcuni anni andava esprimendo la ribellione giovanile. Perché se è vero che l'impegno politico non vedeva l'adesione giovanile è altrettanto vero che il cosiddetto "scontro generazionale" era vivace ed esteso. Uno scontro che, in questi anni, è soprattutto diretto contro la cultura dominante asfittica, perbenista, apparentemente priva di conflitti, la cultura del boom economico e del consumismo soddisfatto. Certamente la rivolta giovanile si esprime in ambiti abbastanza delimitati ed in parte ancora superficiali: un modo di vestirsi "contro", una musica "contro", rapporti interpersonali "contro"... ma dietro questo anticonformismo si sta preparando quella inevitabile maturazione, quella presa di coscienza sociale che ritroviamo "improvvisamente" nel '68. Il fenomeno cultural-musicale "beat" ha avuto un ruolo aggregante importante all'interno di questa ribellione giovanile pre-politica. Anche oggi d'altronde una parte della protesta giovanile si esprime in fenomeni cultural-musicali. Era cioè in atto una "rivoluzione culturale" che coinvolgeva soprattutto l'aspetto "personale" della rottura con il sistema: contro la famiglia, contro i miti ed i clichés sociali proposti come scelte immediate di vita. Il '68 è appunto il logico passaggio della ribellione giovanile dall'ambito personale a quello sociale e questo repentino passaggio dai Rolling Stones alla militanza rivoluzionaria lo ho potuto verificare, non solo con la mia esperienza personale, ma anche con quella di molti miei coetanei.

Claudio - Ma quanti erano gli anarchici prima del '68? Io so di realtà in cui gli anarchici si contavano sulla punta delle dita.

Amedeo - Se parliamo dei giovani anarchici, allora le realtà in cui i compagni si potevano almeno contare, anche solo sulla punta delle dita, erano quelle più favorevoli, come Milano ad esempio, dove eravamo una decina di cui uno solo studente. In tutta Italia i giovani anarchici erano si e no una cinquantina. Anche l'esiguità del numero spiega perché ci si sia, perlomeno a Milano, quasi limitati a fare i "grilli parlanti" criticando la certa mitologia e fraseologia marxista del movimento studentesco e le sue tendenze involutive autoritarie. D'altro canto il nostro atteggiamento era anche viziato da una pregiudiziale diffidenza nei confronti della natura sociale del movimento studentesco. Noi di Milano insieme agli altri compagni dei Gruppi Giovanili Anarchici Federati avevamo maturato una analisi che vedeva negli studenti dei futuri privilegiati, e avevamo visto nelle precedenti rivolte studentesche di Venezia e Torino degli episodi che esprimevano l'insofferenza degli aspiranti membri della nuova classe dominante tecno-burocratica nei confronti di una scuola che non era idonea alla loro natura di classe ma che era funzionale al capitalismo borghese. Questo in effetti c'era, ma nel '68, in piena esplosione della scolarizzazione di massa, c'era qualcosa di più e di diverso. Noi perciò analizzavamo il fenomeno con degli strumenti interpretativi che erano inadeguati, parzialmente superati. Questa diffidenza preconcetta ci ha impedito di buttarci nel movimento in modo acritico e di cadere nello studentismo ma ci ha anche impedito di portare un apporto significativo al suo interno, nonostante ci facessimo un "dovere" di essere presenti alle assemblee, di partecipare alle manifestazioni e agli scontri con la polizia.

Roberto - C'è anche un altro motivo a mio avviso. Come anarchici avevamo impostato la nostra linea di intervento in questi termini: cosa fare in una società addormentata per svegliarla. E questo è dimostrato dal fatto che in precedenza eravamo riusciti a trovare abbastanza punti di contatto con i provos, i beatnik, movimenti che con degli aspetti formali diversi si ponevano nella nostra stessa prospettiva. Non eravamo invece per niente preparati ad agire all'interno di movimenti sociali di massa. Inoltre, pur valutandone gli aspetti positivi antiautoritari, avevamo un atteggiamento direi illuministico per cui eravamo convinti che il movimento avrebbe espresso da sé i suoi contenuti e avrebbe imboccato da sé la sua strada. Tanto è vero che a Torino sia il maggio '68 che l'autunno '69 ci sono, si può dire, passati sopra la testa coscientemente, perché pensavamo che essendo anarchici non dovevamo dare indicazioni, non dovevamo influenzare.

Claudio - Questo ci riconduce a una critica che ancora oggi viene mossa agli anarchici o meglio al movimento specifico che tratta i problemi esclusivamente nell'ambito della propria prospettiva, nell'ambito di piccoli gruppi col suo linguaggio, i suoi riferimenti culturali e modi di agire estremamente raffinati ma anche estremamente circoscritti. Nel movimento libertario si dice che i pochi anarchici del movimento specifico si confrontano tra di loro e poi pongono all'esterno il risultato dei loro studi, ma non si sporcano le mani nelle contraddizioni quotidiane che affrontano molti libertari. Io ritengo che la chiusura che si è verificata da parte degli anarchici nel '68 sia stata estremamente negativa perché l'esistenza allora di un punto di riferimento chiaramente anarchico all'interno di un movimento che era in gran parte antiautoritario avrebbe funzionato come un polo catalizzatore e avrebbe, forse, impedito il recupero del movimento da parte del marxismo.

Amedeo - D'accordo, potevamo fare di più e meglio. In teoria. Però quei quattro gatti di giovani anarchici che eravamo, venivamo dal "deserto" della pace sociale, dell'indifferenza e dell'isolamento e ci siamo improvvisamente ritrovati nella "metropoli" di un maggio '68. Era obiettivamente molto difficile avere l'elasticità necessaria per affrontare una situazione tanto diversa, tenuto anche conto che, come ho già detto, non eravamo studenti. Detto questo bisogna anche dire che non si può spiegare l'involuzione autoritaria del movimento sessantottesco semplicemente - o semplicisticamente - con le carenze soggettive dei giovani anarchici dell'epoca. Se no, come si spiega che in Francia dove, diversamente da noi, i giovani anarchici furono fermento promotore e punto di riferimento riconosciuto del movimento, i risultati sulla distanza sono stati sostanzialmente simili? Direi che non ha del tutto torto Alberoni con la sua teoria dei movimenti che nascono in modo spontaneamente eversivo ed antiautoritario e poi (necessariamente - lui dice) si evolvono in forme istituzionali ricreando le gerarchie. Come anarchico aggiungo solo che questa è l'evoluzione "necessaria" dei movimenti sociali se non riescono a darsi delle strutture libertarie e non riescono a riconoscersi in un progetto esplicitamente libertario. Questo non è avvenuto per il '68 né in Francia, dove pure c'erano anarchici fra i "leaders naturali" espressi dal movimento, né in Italia dove invece non c'erano.

Rossella - Proprio in riferimento alle responsabilità dei giovani anarchici vorrei dire che, a mio avviso, il problema non sta nei singoli anarchici ma nell'anarchismo, cioè credo che si tratti di un problema molto più generale. Non credo che sia stato per un fattore generazionale o per incapacità individuale che non abbiamo inciso su quella realtà, bensì per una crisi che l'anarchismo si porta dietro da cinquant'anni, da prima del fascismo. Vissuto di rendita, ma di una rendita che si è esaurita col passare del tempo, l'anarchismo si è ripresentato nel '68 con formule che sono risultate vecchie, belle ma inutili per il movimento di maggio e per gli stessi anarchici. Per questo io mi ritengo "nata" nel '68, mi ritengo una "neo anarchica": non perché rifiuto la tradizione anarchica ma perché ritengo che l'approccio ai problemi, il modo di essere e il modo di fare le lotte debbano essere e siano molto diversi da quelli dell'anarchismo tradizionale.

Roberto - Quello che è certo è che il '68 è stato anche un trampolino di lancio per un gran numero di leader e leaderini che ancor oggi furoreggiano e che col '68 è iniziato un processo di adeguamento della cultura alla nuova classe dominante.

Claudio - Bisognerebbe anche analizzare come mai, in una struttura di per sé libertaria come l'assemblea, si ricreassero fenomeni leaderistici che avevano in sé i germi dell'organizzazione autoritaria. Io credo che le organizzazioni marxiste nate dopo il '68 abbiano sfruttato intelligentemente il dato carismatico dei loro leaders.

Roberto - Ci si può riallacciare a quello che dicevo sul trampolino di lancio di questa nuova classe dirigente politica, perché il maggio '68 è servito ai futuri nuovi leader anche per imparare a gestire il consenso in forme assembleari e tutta questa "sapienza" acquisita nel '68 è stata più che mai utile negli anni successivi ed è loro utile ancora oggi.

Amedeo - Si, noi "grilli parlanti" queste cose le vedevamo già nel '68: se non si riescono a creare le strutture di piccola dimensione inevitabilmente, attraverso la psicologia di massa, nascerà la leadership che poi si cristallizzerà in una nuova gerarchia organizzativa. Questo dicevamo, ma non sapevamo cosa proporre in alternativa alle assemblee di massa come forma di democrazia diretta, concretamente ed immediatamente praticabile per un movimento di massa. Così anche il '77 ha ripresentato quasi gli stessi problemi, nonostante i pregi e difetti di una ben più numerosa e attiva presenza del movimento anarchico.

Il '77 ha espresso la stessa potenzialità libertaria e gli stessi risultati autoritari del '68, la stessa incapacità di sfociare in strutture e in progetti autenticamente libertari. Da quello che posso vedere ormai il '77 è finito, e non solo come dato di calendario. Qualcosa esiste ancora a Roma, ma Roma significa "autonomia organizzata" cioè struttura leninista, quasi o semi partitica, autoritaria, anche se ancora "fluida". Struttura da "movimento", in cui però c'è un nucleo centrale dirigente. Comunque, nonostante tutto, resta il fatto fondamentale che la nuova conflittualità sociale, aperta dal maggio '68, prosegue ancora e avrà altre fasi acute, esplosive, estremamente interessanti per noi. Una conflittualità che di volta in volta ha avuto come protagonisti gli studenti, gli operai, i precari, di nuovo gli studenti, gli addetti ai servizi.... È questa conflittualità, senza la quale i rivoluzionari sono come pesci senz'acqua, la principale "eredità" del '68.

Roberto - Il '68 è stato anche l'"inventore" della contestazione del sistema, della contestazione globale, cioè il rifiuto non di questo o quell'aspetto della società esistente, ma di essa come insieme coerente di dominazione dell'uomo sull'uomo. Questa è la base dell'atteggiamento rivoluzionario.

Claudio - Il dato fondamentale era proprio che si vedeva la rivoluzione vicina. Lo slogan oggi ridicolo "fascisti, borghesi, ancora pochi mesi" era veramente una fiamma di speranza con grande convinzione in chi lo gridava: nell'autunno '69 si sarebbe deciso tutto l'avvenire dell'Italia e forse dell'Europa. Il potere poteva essere abolito o conquistato nell'autunno '69.

Amedeo - Questo mito della "rivoluzione domani" è continuato ancora per un paio d'anni poi è crollato e con questo crollo è venuta la prima grande crisi dei "figli del '68". Alcuni sono sopravvissuti a questo crollo attraverso la routine militante, l'istituzionalizzazione minipartitica del movimento, le soddisfazioni mini-dirigenziali; per molti invece è stato l'abbandono della partecipazione attiva al conflitto sociale.

Rossella - Oltre a questa crisi c'è stata poi la crisi del '76, con il fallimento del progetto "governo delle sinistre" e della "strategia rivoluzionaria delle riforme" (sic!). È il crollo della nuova speranza "la rivoluzione non c'è, però prendiamo il potere lo stesso". Questa ulteriore sconfitta ha dato luogo ad un ulteriore svaccamento, ma anche al "nuovo dissenso" del '77. Che cosa ha espresso il '77 di diverso dal '68? Intanto la tematica del "personale" che era già in parte presente anche nel '68 ma che vedeva prevalere l'elemento politico, mentre nel '77 l'elemento umano è stato in primo piano; e poi la lotta armata, che fino all'anno prima era praticata solo da alcuni gruppi e nel '77 si diffonde rapidamente. Per quanto riguarda il movimento del '77 gli anarchici ancora una volta non hanno saputo/potuto intervenire fattivamente proprio per quello che ho detto prima. L'anarchismo non ha una strategia da applicare a movimenti di massa.

Roberto - Penso che all'origine ci sia una difficoltà più semplice e cioè la disabitudine ad agire come agitatori all'interno dei fermenti sociali.

La discussione è andata ancora avanti a lungo (i compagni ci avevano ormai preso gusto) e s'è parlato di leadership, disoccupazione, strutture caratteriali, lotta armata, Catalogna, Ucraina, anarco-sindacalismo, C.U.B., tecnoburocrazia... ma noi ci siamo stancati di trascrivere e forse i lettori di leggere.