Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 8 nr. 65
aprile 1978


Rivista Anarchica Online

Il '78 giudica il '68
a cura della Redazione

Ad alcuni compagni meno che ventenni (dieci anni fa andavano ancora alle scuole elementari) abbiamo chiesto di scrivere brevemente che cosa rappresenta per loro "il '68".

Parlare del '68, e cosa dire se non che sono uno dei tanti suoi diretti eredi.

Infatti pur non avendo vissuto quegli anni ho subito gli influssi, e le tematiche di quella che è stata la "contestazione globale".

Per come ne ho sentito parlare, per quello che ho letto, per quello che ho ascoltato: il '68 ha creato le premesse di una nuova generazione e di una nuova società.

Cosa dire se non che quando si parla del '68, se ne parla con una specie di sacralità: mi sembra di ascoltare i nostri vecchi che hanno vissuto e fatto la "resistenza" e ce la raccontano come gli anni indimenticabili. Non è la prima volta che si è detto: "io ho fatto il '68...", come quando parli con i vecchi reduci: "io ho fatto la guerra - oppure - io ho fatto il partigiano".

Ormai il '68 è passato alla storia, i giornali della sinistra scrivono pagine intere, la televisione addirittura ricorda quegli anni memorabili con programmi e filmati. Ma non è questo che mi interessa, semmai è importante sottolineare cosa resta del '68 oggi nel movimento di rivolta.

La risposta è "tutto e niente".

"Tutto" in quanto lo dimostrano i fatti degli ultimi anni: Milano con le autoriduzioni dei Circoli Giovanili, Roma con la nascita degli Indiani Metropolitani, Bologna con l'la venuta dei carri armati, Napoli con le lotte dei disoccupati, Genova con le lotte dei portuali ecc..

"Niente" in quanto il termine "rivoluzione" è da qualche tempo caduto in sospetto, se non proprio in disgrazia, nella cultura ufficiale europea, quella di sinistra compresa.

Taluno pensa che ciò dipenda dall'abuso che se n'è fatto dal '68 in poi; ma, questa, è da considerarsi una sciocchezza, se non una affermazione malintenzionata, perché in ogni momento della nostra vita siamo coinvolti e immersi nella rivoluzione. Ma per capire in che modo, per capire di quale rivoluzione si tratta, bisogna uscire da quella che grosso modo si può chiamare la "cultura leninista": ossia la cultura dei palazzi di Inverno, delle rivoluzioni nazionali, e in genere, della III Internazionale e di Stalin.

Bisogna uscire da quel tipo di cultura, già rivoluzionaria, che non ha più rimesso in discussione "le premesse" (Marx), ma si è limitata a chiedersi "che fare?" ossia come realizzare quelle premesse, come "tradurle in pratica" e asserendo perfino di esserci riuscita (URSS, CINA e seguaci). La crisi del Marxismo-Leninismo non è la crisi della rivoluzione.

La crisi dei "modelli" a livello politico è un aspetto di una generale crisi di civiltà ossia di valori.

Autoritarismo e burocratismo non sono soltanto mali delle strutture ufficiali, sono anche il rischio permanente delle strutture nascenti.

La sfida oggi, per i rivoluzionari, è prima di tutto una sfida culturale: dobbiamo ideare e praticare quelle forme di convivenza, di gestione che diano vita quotidianamente all'unica controtendenza possibile (umana): il decentramento contro la centralizzazione, la derazionalizzazione contro la razionalizzazione coatta, l'homo ludens contro l'homo faber... l'homo ridens contro il tecnocrate o il burocrate.

Il parlamentarismo e la scelta di lotta armata non sono che la conseguenza diretta di una generale crisi in atto, di un'ideologia che ha predominato su tutto il movimento rivoluzionario dal '68 ad oggi.

Da una parte ha fatto riscoprire le piccole conquiste quotidiane che praticamente ha appoggiato e sostenuto i referendum e ha creduto nelle leggi buone, dall'altra ha portato al rifiuto della lotta quotidiana pensando che una avanguardia armata (che diventerà presto un partito se non lo è già) possa creare il momento insurrezionale e rivoluzionario.

Da questi dati di fatto il Movimento si è spaccato nella spaccatura.

Roberto G.

Il '68 è la data simbolo di quelle che sono state le effervescenze rivoluzionarie che hanno caratterizzato gli anni '60 nelle varie parti del mondo. Di fatto, in questo decennio, abbiamo assistito a vari esplosioni di rivolta e tentativi insurrezionali; il tutto appariva sotto la forma di una contestazione radicale contro lo Stato e la società. Pari situazioni si erano via via snodate dai fatti d'Ungheria nel '56, alle rivolte delle "pantere nere" in USA, ai movimenti guerriglieri nell'America Latina, al mito del "CHE", fino a quei movimenti che hanno fatto il '68. Questo '68, espressione delle tensioni di quegli anni, ha fatto riscoprire il senso della rivoluzione sociale. Il dinamismo di questa contestazione si è aviluppato negli atenei universitari: dall'Europa ai campus USA, fino al Giappone. In una società basata sullo sfruttamento, sul consumismo, dove non esiste la possibilità di una "vita vissuta", in cui l'alienazione è il quotidiano, viene a maturare una generazione che approda negli atenei durante il boom economico con la scolarizzazione di massa.

Nel '68 arriva la ventata libertaria portata dagli studenti. Emancipazione, autogestione, antiautoritarismo, rifiuto della delega, libertà, sono le rivendicazioni dei futuri sfruttati. Allora il potere era impreparato e per questo l'azione ebbe effetto, l'esempio è rimasto insopprimibile. Si è trattato di una "provocazione intellettuale", la cui distruttività ha fatto fiorire idee nuove.

All'ingenuità della pretesa "rivoluzione domani", seguì, negli anni '70, la formula della lotta dura sino alla disillusione della rivoluzione "subito" che oggi imperversa. Purtroppo tutte le esplosioni rivoluzionarie non sono riuscite e sono state riassorbite perché il "potere" aveva le conoscenze sufficienti a neutralizzarle in ciò coadiuvato dai mass-media, generatori di condizionamento e bombardamento psicologico.

Io credo che i fermenti rivoluzionari non ebbero la convinzione necessaria; furono più il prodotto dell'insoddisfazioni di una vita non vissuta che un cosciente momento propositivo. I rivoluzionari agirono e sfregiarono il potere, ma esso si leccò le ferite ed oggi si presenta dopo una plastica facciale come prima e forse ancora più forte, tanto che ha reso le masse, sino allora passive, dinamiche e consenzienti attraverso le istituzioni cerniera fra Stato e popolo, e purtroppo oggi la società civile si riconosce "oggettivamente" nello Stato.

Mauro D.

"Maggio '68": un bel ritornello su cui sono stati scritti Km. di inchiostro, pagine e pagine di analisi, articoli, ecc., che poi si possono riassumere più o meno in "ah, gran cosa il sessantotto, è stato l'inizio di bla bla bla, bei tempi quelli..."; ma cosa rappresenta per noi che nel '68 eravamo alle elementari questo "mitico" '68? Inutile scrivere le solite cose che diranno tutti in questo decimo anniversario della nascita e della morte, lo sappiamo tutti che è stata una rivolta di giovani contro le strutture autoritarie di questa società, il tentativo di elaborare una cultura propria (o di riscoprirla), il liberarsi di energie rivoluzionarie, lo scoprire un nuovo tipo di rapporto interpersonale, ecc. ecc. ecc.; vediamo piuttosto cosa ne resta oggi e in che misura si sono elaborate le tematiche che il '68 ha espresse (o che crediamo siano state espresse nel '68).

Io penso che il '68 abbia avuto un grosso limite (i pregi si sanno) che ha condizionato l'iniziativa politica in questi anni: il costruire un mito, il mito della rivoluzione imminente, del cambiamento radicale di vita. Ciò era portato da un lato dall'entusiasmo e dalla voglia di fare che penso fossero presenti in tutte le iniziative, dall'altro dalla mancanza di analisi su quali debbano essere realmente le condizioni necessarie per una rottura rivoluzionaria. E, come non poteva essere altrimenti, il mito resta solo mito. Sopraggiunge la disillusione, la smobilitazione viene evitata (cioè rinviata) creando, per quanto riguarda l'aria m-l, un'infinità di partitini che considerando solo il lato "politico" dell'individuo ne carpiscono le ultime energie creando nel frattempo, accanto al grande mito della rivoluzione, altri miti "intermedi": il partito, la lotta dura, la fabbrica, e infine le "sinistre al potere"; al crollo uno per uno di questi miti segue una sempre maggiore smobilitazione per arrivare ora ad un quasi sfacelo dei vari partitini m-l, cosa prevedibile e che non ci riguarda più che tanto, e, ed è ben più triste, a quel rifiuto dell'iniziativa politica da parte di molti compagni.

Per noi anarchici il '68 ha inciso in modo simile anche se diverso dagli m-l, ci si è spesso lasciati trascinare dagli avvenimenti (magari ingigantiti appositamente dal potere) e non si sono individuati subito i settori in cui si doveva intervenire. Molti compagni si son fatti ingannare anche loro da quello specchietto che è la rivoluzione dietro l'angolo, per cui dopo 1-2 anni di impegno attivo visto che la rivoluzione era in ritardo si son ritirati nel non far niente, tanto comodo al sistema. In compenso non si son creati altri miti, per cui ci si ritrova oggi, pochi sì ma con le idee meno confuse di molti altri; è necessario continuare ad agire senza false illusioni recuperando anche dall'esperienza del passato ciò che c'è di buono, rivedendo alla luce di 10 anni di lotte e alla luce di una realtà diversa.

Marco M.

Oggi il '68 (o il '69?) è solo un oggetto in più per il mercato dell'usato ideologico; un mito a cui si vuol far risalire tutto, ma a quale scopo?

Per me il '68 è stato un "malinteso", era costruito su un'aggregazione semplicistica, con la psicosi del fronte unito contro il nemico, dimenticandosi che alla resa dei conti i contrasti che esistevano esistono nella "sinistra rivoluzionaria" salgono a galla e mandano tutto in vacca. Ma allora come mai il '68? La verità è che non se ne poteva più, conformismo borghese e sinistrese, contrasti generazionali, repressione sul lavoro e sul quotidiano, repressione sessuale, repulsione per tutta quella ruota famiglia-scuola-lavoro-Chiesa-Stato-partito.... Ed all'inizio è stata una ventata spontanea, rabbiosa ma precisa, che voleva sovvertire tutto, rompere ogni schema, uscire dal buio per farsi conoscere con tutto il carico di impulsività, di gioia, di confusione, di liberazione!

Un inizio apartitico, ribelle, libertario, quasi anarchico; ma già gli avvoltoi volteggiavano, dapprima furono discorsi teorici, intellettuali, presto apparvero le reali mire dirigenziali.

Fra i compagni prevalse l'immagine del militante/tonto, tutto riunioni-manifestazioni-scontri-libri-vendita stampa-senza problemi personali, mai stanco, uno stakanovista della politica ed un borghese nella vita privata. Inoltre ci furono due tipi di '68: uno operaio, con la rabbia dello sfruttamento vissuto sulla propria pelle, con una coscienza di classe e degli obiettivi economici, ma anche con i sindacati sul groppone a frenare la loro esuberanza rivoluzionaria; il secondo studentesco con giovani di estrazione medio-piccolo borghese, innamorati di Mao, Marcuse, Guevara, idealisti senza classe, senza obiettivi, comparse nelle mani dei dirigenti di quelle organizzazioni che come la cancrena presto sorsero nel movimento. E se per un verso l'esempio Beat, Hippy, Freak spostò l'asse della lotta verso l'essere umano, dall'altro chi praticava la politica come professione e vedeva solo la fetta di potere a cui voleva arrivare (a qualunque costo e con qualsiasi mezzo), spinse affinché il tutto diventasse inquadrato, definito, legalizzato.

I frutti di questo malinteso li viviamo oggi; da una parte la classe operaia è sconfitta, ingabbiata nel sindacato e nei partiti politici (azioni dirette sono quanto mai sporadiche) e va facendosi Stato con il consenso a qualsiasi sporco gioco i politicanti le propongano; dall'altra le avanguardie studentesche ed intellettuali o sono finite in parlamento (perdendo ogni pudore!) oppure si sono date strutture clandestine che sono finite per fare la guerra privata allo Stato, paragonando la situazione dei Paesi capitalisti a quelli del Terzo Mondo, isolandosi dalle pratiche di massa e finendo per compiere azioni armate solo per giustificare la loro esistenza.

C'è stato anche chi ha rifiutato questo dualismo imposto: per questi ci fu sempre meno spazio; passata la ventata ribelle, quando il potere aumentò il recupero, (con il consenso di chi andava a farsi recuperare!) furono i primi a pagare di persona. Emarginazione, lavoro nero, eroina, carcere: chi aveva vissuto veramente lo spazio aperto del '68 non riusciva e non voleva ricadere nel riflusso da tutti voluto.

Certo qualcosa di buono c'è stato. Se oggi ci mettiamo in discussione come persone, come pratica, come obiettivi; se non si dà più nulla per scontato, e ci si ferma prima di sclerotizzarsi, questo è dovuto proprio al fatto che il '68 è esistito.

Paolo M.