Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 6 nr. 52
novembre 1976 - dicembre 1976


Rivista Anarchica Online

La fabbrica dei bambini
di Stefania Orio

Milano, clinica Mangiagalli, reparto maternità.
Le donne sono macchine che devono fare i bambini. Se si guastano sono svendute e disprezzate. Nella clinica ostetrica il corpo della donna non conta: se fai bambini morti puoi anche morire di infezione. Il problema della maternità è una questione di sfruttamento e di potere.

Quando, alla fine di ottobre, lasciavo la clinica ostetrica dove ero stata a lungo ricoverata, pensavo che la mia esperienza personale non dovesse rimanere solo un ricordo, ma che doveva trasformarsi in un momento di lotta politica, perché mai come in quei giorni di malattia avevo sentito il peso dello sfruttamento che opprime i proletari anche al di fuori del lavoro, e doppiamente opprime le donne nel loro mondo privato, personale, impadronendosi del loro corpo quasi fosse davvero, sempre, carne da macello. Ho pensato a lungo come scrivere queste cose, ma mi sembra che il mezzo migliore sia ancora quello del racconto diretto, immediato, che dia un'idea ai compagni di che cosa passiamo noi donne, e che consenta a tutte le donne, come a me, una maggiore presa di coscienza.

1 settembre: sono incinta di sette mesi, e da un paio di giorni non sto bene. Ho dolori al ventre, nausea, capogiri. Il consultorio al quale faccio capo è aperto, ma tutti i compagni ginecologi sono in vacanza. Penso quindi di rivolgermi ad un ambulatorio pubblico, quello della clinica ostetrica universitaria. C'è una coda lunghissima, già alle sette e mezzo del mattino. Siamo tutti in piedi, anche se alcune di noi sono palesemente sofferenti, vomitano, hanno emorragie. Alle otto viene aperta la porta, ma solo 40 donne vengono fatte entrare: le altre sono invitate a tornare il giorno dopo.

2 settembre: questa volta sono fra le prime della fila, ottengo lo scontrino per la visita. Alle dieci e mezzo sono sdraiata di fronte all'ostetrico: mi dice che non si sente più il cuore del bambino. Ho come un ribollire di rabbia, dentro di me penso tutti i sacrifici fatti per avere questo figlio. Il ginecologo intanto mi misura la pressione. Mi mandano da un ufficio all'altro per vari accertamenti, ma pare che per il bambino non ci siano speranze. Ogni medico mi pone la stessa domanda: se sono diabetica, che cure facevo per il diabete, come mai non sono andata prima da loro. Tutti mi ripetono che probabilmente mi sono fatta curare male e che quindi la morte del mio bambino è colpa mia. Le prime volte reagisco, spiego che le persone che mi curavano erano competenti, che ho fatto controlli regolari della glicemia, con risultati soddisfacenti, insisto perché verifichino la situazione nel suo complesso anziché soffermarsi sulla prima ipotesi che hanno incontrato. Mi rispondono: "Vorrebbe saperne più di noi?". La stanchezza, lo smarrimento, il dolore anche fisico mi riducono infine al silenzio. Forse davvero ho ucciso mio figlio. Non lo so più.

Intanto mi vengono inflitte altre umiliazioni: una visita davanti ad una quindicina di studenti, che sghignazzano e fanno commenti sui peli che ho sulle gambe; una fila davanti ad uno studio, in una vestaglia non mia, mentre un'infermiera grida: "Avete tolto tutte le mutande?". Finalmente vengo ricoverata, riesco a telefonare al mio compagno, mi fanno dei prelievi e cercano di provocare il parto, perché mi liberi di questo bambino morto.

2 settembre, sera: ho contrazioni sempre più frequenti e dolorose, e prego l'infermiera di portarmi in sala travaglio, cioè nell'anticamera della sala parto. Non ci sono letti né sedie disponibili, e quindi sto in piedi, con contrazioni sempre più forti e gocce di sudore che mi cadono dalla fronte sugli occhi, mentre cinque o sei medici, seduti poco lontano da me, leggono la "Repubblica", sghignazzano e ogni tanto gridano: "Infermiera, non c'è un letto per questa gestante?". Il letto in sala travaglio non ce, entro direttamente in sala parto, uno specializzando mi dice qualche parola di incoraggiamento, mentre la maestra ostetrica commenta: "Cosa vuoi assistere, che tanto ha fatto morire il bambino?". Sento i piedini del bambino nella vagina, chiamo lo specializzando di prima, che invita l'ostetrica a disinfettare. Risposta: "Che cosa vuoi disinfettare, che tanto il bambino sarà già macerato?". Mio figlio nasce grazie alle spinte naturali che ogni donna ha e che io certo non contrasto, accompagnata dalle buone parole di questo ragazzo inesperto che tuttavia è l'unico ad aiutarmi come può. Poco lontano da me una donna, circondata da mille attenzioni, da alla luce una bella bambina sui tre chili. Anche il mio è uscito, non vogliono farmelo vedere, ma io mi precipito giù dal lettino: un povero cosino, grazioso, morto. Il primario commenta: "Non vale la pena di vederlo". Chiedo se mi deve fare la revisione. Risponde con fretta la solita ostetrica: "Ma cosa vuol revisionare!". Così vengo condotta fuori dalla sala parto, nella corsia.

3 settembre/4 settembre: ho dolori atroci e febbre alta, ma nessuno sembra accorgersene. Invece vengono molti medici del centro studi a farmi domande su domande perché si occupano di bambini nati morti. Faccio presente che con queste domande non mettono a fuoco il problema, ma loro ignorano quello che dico. Sono arrivati gli esami del sangue che mi danno ragione. Non ho traccia di iperglicemia, non è stato il diabete la causa della morte del bambino. I medici dicono che probabilmente è stata la pressione alta. Mi comunicano che ho 190 di pressione. Faccio presente che me l'hanno misurata in un momento particolare, ma non me la rimisurano.

5 settembre: la febbre cresce, i dolori sono così forti che non riesco a scendere dal letto. La caposala è preoccupata ma l'inserviente, quando le chiedo la padella, mi dice di non fare la piaga. Il primario poi dice che forse ho la febbre per via della montata lattea.

6 settembre: la caposala insiste perché un medico mi visiti. Mi visita l'aiuto, che ordina un immediato raschiamento: non avendomi fatto la revisione, rischiavo la setticemia. Durante il raschiamento, il chirurgo si accorge finalmente della causa vera della morte del bambino: un grosso mioma (tumore) che ha probabilmente determinato il distacco della placenta. Suggerisce di parlarmene e di operarmi al più presto, perché aspettare potrebbe provocare disturbi e comportare rischi.

7/8/9 settembre: mi sento meglio e posso parlare con le altre malate: storie di donne, di sangue e di violenze: ogni giorno tre o quattro vengono ricoverate in fin di vita. Non dicono mai ai medici che cosa è successo, dicono di essere state male all'improvviso, ma fra noi parliamo: della mammana che ha messo male la sonda, di quell'altra che si è lasciata sfuggire il ferro da calza. A una, che aveva abortito clandestinamente a Napoli, da un medico, hanno addirittura dimenticato nell'utero tre metri di garza.

Che cosa significa questa esperienza per loro? Quasi tutte sono esplicite: è una violenza che subiscono, ripetutamente: da quando restano incinte senza volerlo, solo perché il loro compagno (di solito sono donne sposate, che hanno più di un figlio) non accetta l'uso dei contraccettivi, a quando abortiscono, ancora senza volerlo, perché un figlio non lo si cerca, ma non si ha mai nemmeno molta voglia di mandarlo via: lo si terrebbe, se ci fossero i soldi, la casa, l'aiuto del marito nel tirarlo su, se tutto non fosse così disperatamente scaricato sulle nostre spalle. È una violenza, infine, quando sono nella casa della mammana e non in una clinica, di fronte ad una persona che pensa solo ai soldi che le darai e che, in fondo, ti considera una puttana e perché hai fatto un figlio e perché non lo vuoi tenere.

Non chiedo nemmeno perché non parlano apertamente con i medici. So benissimo che solo in parte è per paura di essere denunciate: per il resto, non hanno voglia di risentirsi nello stesso clima, nella stessa situazione di quando hanno abortito. Donne di 23 anni alle quali l'utero dev'essere asportato, donne con l'utero perforato e blocco renale, donne con piaghe che diventeranno fibromi perché avere figli non è una scelta, ma un destino. Una sbotta: "Il Signore non fa le cose giuste: noi che non volevamo il figlio l'abbiamo avuto e voi che lo volevate l'avete perso. Perché?". Ribatte un'altra: "Che cosa vuoi farci: è il destino". Racconta che ha avuto un figlio, al nono mese, nato morto perché mancava il liquido amniotico: per due mesi aveva detto al suo ginecologo (uno che si faceva pagare 20.000 lire a visita) di non star bene e di avere sempre sete. Il ginecologo l'aveva mandata da uno psichiatra, perché era "matta".

Questo dà la stura ad una serie di accuse: processiamo i medici, che non ci ascoltano, che ci trattano da sceme o da isteriche, che ci vedono non come donne, ma come macchine che devono fare i bambini con il minor guasto possibile: appena c'è un guasto che loro non riescono a capire, ci trattano come una macchina difettosa: ci svendono. Anche le donne di Seveso, rimaste sinora un gruppo a parte, silenzioso, si aprono: hanno ottenuto l'aborto, è vero, ma con quali argomenti? Con quello, ufficiale, che la loro gravidanza avrebbe compromesso la loro salute mentale (in parole povere, la versione ufficiale è che hanno abortito perché sono matte); con quello, nascosto, che se il bambino nascerà minorato, è meglio ucciderlo subito. Argomenti fascisti che non hanno certo tolto loro sensi di colpa ed angoscia. "Io invece, avrei tenuto il figlio comunque, minorato o no, solo avrei voluto essere sicura che nascesse. Indebolita nel fisico dalla diossina, non volevo logorarmi in una gravidanza per partorire fra sette mesi un bambino morto". Questo rischio, che è quello reale, non è mai stato propagandato.

9/10/11 settembre: non so se mi dimetteranno o mi opereranno. Inutilmente chiedo un colloquio con il primario. Infine, disperata, chiedo al mio compagno di parlargli lui. Gli dicono che dovrei essere operata.

12/13 settembre: i giorni passano, e nessuno mi dice niente della mia operazione. Se domando qualcosa, mi ribattono: "Che cosa le interessa?". Prego una mia collega, medico, di informarsi lei. La notte del 13 ricoverano una ragazza: perde molto sangue ed ha forti dolori: ha avuto un incidente di macchina ed è incinta al terzo mese. Ad un certo punto mi chiama: ha abortito. Suoniamo per chiamare qualcuno, ma non viene nessuno. Esco a cercarli: l'unico medico di guardia e l'unica infermiera di turno sono nell'ambulatorio e stanno curando una donna in condizioni ancora più gravi della mia vicina. Dopo un'ora possono occuparsi anche di lei.

14 settembre: la mia amica ha fatto presente che devo sapere qualcosa, perché ho una famiglia, dei figli, ora incustoditi. Le hanno detto che se proprio ho fretta posso andare a casa. Basta che torni per dei controlli, poi mi opereranno. Quando lo decideranno loro. Mi faccio dimettere.

1 ottobre: torno per il controllo. Non mi lasciano nemmeno andare a casa: mi ricoverano urgentemente, secondo loro devo essere operata subito. Entro di nuovo in clinica.

2/10 ottobre: mi fanno esami su esami, infine mi dicono: "Domani la operiamo".

11 ottobre: il primario mi vuol parlare. Mi dice che un'operazione adesso comprometterebbe future maternità, e che quindi lui mi dimette. Devo tornare fra due mesi. Meglio che però non lavori nel frattempo. Faccio presente di essere quantomeno sconcertata di questi cambiamenti improvvisi di opinione. Mi risponde che lui mi ha dato un consiglio in coscienza e che secondo coscienza mi dimette.

Che indicazioni ricavare da questa esperienza? Innanzitutto che il problema della maternità e della gestione dell'utero è anche, ma certo non soprattutto, un problema che si risolve con i soldi. Non con i soldi tuoi: le mie amiche che avevano scelto il ginecologo privato e caro avevano perso il bambino esattamente come me, che ero andata a visite gratuite. La donna che aveva abortito a Napoli aveva speso 150.000 lire più il viaggio: con il C.I.S.A.; spendi meno in Italia e presso a poco lo stesso andando in Inghilterra. I partiti ed i gruppi che fanno dell'aborto un problema di povera gente non hanno del tutto ragione: è vero che con la mammana corri più rischi di morire, ma i rischi ci sono anche quando paghi e paghi molto. Non lo risolvi nemmeno con le così dette spese pubbliche: si possono anche dare più soldi agli ospedali, ma finché si tengono dentro inspiegabilmente delle donne che costano 25.000 lire al giorno, per dieci giorni, come è successo per il mio caso, gli ospedali saranno sempre in deficit. La lotta del personale ospedaliero per un salario più alto e per orari più umani è sacrosanta, ma da sola non risolve il problema del malato.

Il problema della maternità è prima di tutto una questione di sfruttamento e di potere. Nella clinica ostetrica tu e il tuo corpo di donna non contate: tu sei solo una fattrice di bambini. Se li fai morti, come è successo a me, sei degna di essere disprezzata, puoi anche morire di infezione, come stavo per morirci io. Inoltre, è una questione di gerarchia: il primario sa tutto, la caposala sa poco, l'infermiera non sa niente di te: per questo a volte ti tratta male, pensa che sei una pettegola, mentre tu di fatto soffri e chiedi aiuto. Ne ho parlato a lungo con le infermiere, hanno detto che ormai si sono abituate a trattare i malati come troppo esigenti, perché con loro il medico minimizza tutto, e le sopraffà di altro lavoro. Tutto, dunque, passa sopra lo sfruttamento della donna.