Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 6 nr. 52
novembre 1976 - dicembre 1976


Rivista Anarchica Online

Lo Stato "buono" dei radicali
di P. F.

Il recente congresso del Partito Radicale (Napoli - 30 ottobre/4 novembre) è stato seguito con particolare attenzione dai grandi mezzi di comunicazione: la stampa quotidiana, i principali settimanali politici, la RAI-TV, tutti hanno dedicato ampio spazio all'avvenimento - molto di più rispetto ai passati congressi radicali. Se pur mantenendo caratteristiche loro peculiari e per certi aspetti interessanti, infatti, i radicali hanno compiuto con le elezioni del 20 giugno l'ultimo passo per il loro completo inserimento nell'establishment politico italiano: in quattro, ma non per questo inosservati, hanno fatto la loro entrata alla Camera dei Deputati come "rappresentanti" del popolo italiano.

Rispetto ad un anno fà, quando esaminando sulla rivista la loro strategia li definimmo "riformisti extra-parlamentari" (vedi "A" 39), anche noi dobbiamo prendere atto del fatto che Pannella & C. sono diventati "onorevoli". Di questa nuova realtà si è naturalmente discusso a lungo a Napoli, nell'ambito del congresso radicale. Anche se, per una curiosa concezione del rapporto necessario tra partito e gruppo parlamentare, gli onorevoli Pannella, Mellini, Faccio e Bonino (cioè gli attuali componenti del gruppo parlamentare radicale - a metà legislatura cederanno spontaneamente le loro "poltrone" ai primi quattro non eletti della loro lista) hanno preferito disertare il congresso stesso, per sottolineare l'autonomia del gruppo parlamentare rispetto al partito, e viceversa. Ha fatto eccezione il solo Pannella (che, tra parentesi, da tempo non è più iscritto al partito radicale) che è comparso alla tribuna congressuale l'ultimo giorno per difendere quella strategia radicale qui è stato certamente il principale artefice, ma che non poche resistenze incontra tra i militanti radicali.

Uno degli aspetti più interessanti del congresso di Napoli si è avuto infatti nelle dure critiche che alcuni congressisti hanno mosso alla gestione organizzativa ed anche alla strategia complessiva del partito, quali sono state portate avanti dalla segreteria Spadaccia (oggi sostituito al vertice del partito da Adelaide Aglietta, sulle medesime posizioni). La linea del partito - ha sostenuto per esempio Giulio Ercolessi - cala sempre dall'alto, con una raffica di telegrammi. Ma in questo modo la base non si sente coinvolta, non partecipa. Perciò restiamo sempre in pochi. I radicali restano nel partito pochi mesi poi se ne vanno. Il nostro male è l'autoritarismo, la mancanza di democrazia. Altre voci simili si sono levate per denunciare la progressiva (ed inarrestabile?) "partitizzazione" del partito radicale. I lettori ci scusino il bisticcio di parole, ma abbiamo voluto sottolineare questa burocratizzazione di un partito come il P.R. che ha sempre teso a presentarsi come un'organizzazione federativa basata sulla massima autonomia delle realtà locali - un'organizzazione, quindi, ben distinta e per certi aspetti antitetica ai partiti tradizionali. A quanto pare, però, la realtà è un'altra.

L'argomento centrale del congresso doveva essere ed in effetti è stato la discussione dell'intera strategia radicale, sulla base delle esperienze degli ultimi anni. La maggioranza dei congressisti si è trovata d'accordo con la "strategia dei referendum" ed ha accettato l'impegno - proposto dalla segreteria uscente - di battersi contro il Concordato, i tribunali militari, i reati d'opinione, il codice Rocco, la legge Reale, i regolamenti manicomiali, il finanziamento pubblico dei partiti, la Cassa del Mezzogiorno, l'immunità parlamentare, la commissione inquirente, eccetera eccetera. Per tutti questi problemi la proposta radicale è la stessa: referendum, referendum, sempre referendum. Il ricordo della "grande vittoria" al referendum per il divorzio è ancora troppo vivo nelle file radicali perché non venissero messe in minoranza le tesi di coloro che, giustamente, hanno osservato a Napoli che una simile strategia è tremendamente settoriale e rifiuta aprioristicamente di prendere in considerazione tematiche di fondamentale importanza come quella economica.

Spadaccia ha avuto buon gioco nel far capire ai congressisti che il P.R. ha ormai trovato una precisa collocazione come "partito dei diritti civili" e che il tentare nuove strade sarebbe estremamente rischioso, forse suicida: a suo modo, Spadaccia non aveva tutti i torti. Anche noi, che pure in passato abbiamo avuto occasione di condurre insieme con i radicali significative battaglie sul terreno anticlericale ed antimilitarista, siamo da tempo convinti che, al di là della consueta fraseologia radicale (volutamente equivoca nel suo eclettismo - i radicali amano definirsi nel contempo "liberali" e "socialisti libertari", attuano a volte la disobbedienza civile ma si ritengono i veri difensori della "legalità costituzionale"), il P.R. abbia trovato la sua strada, la sua collocazione più funzionale nel suo ambito naturale: la sinistra riformista.

Nello stantio panorama delle forze politiche di questa Italia concordataria e storicamente compromessa, i radicali rappresentano a volte - con la loro vivacità e per il carattere positivamente provocatorio di certe loro iniziative (si pensi per esempio all'occupazione di una cella nel carcere fiorentino delle Murate da parte di Mellini, Bonino e Faccio) - una nota originale. Quando poi promuovono iniziative illegali di ampio respiro come il C.I.S.A. hanno istintivamente la nostra simpatia e solidarietà - per il ruolo di rottura con il sistema che obbiettivamente svolgono in quei momenti.

Tutto ciò non può però coprire quella che è la realtà prima del partito radicale e della sua strategia referendumista tutta tesa al miglioramento dello Stato tramite una sempre maggiore "partecipazione" dei cittadini. Per loro lo Stato può diventare "buono", "costituzionale", "giusto", può giungere a garantire i diritti dei più deboli e delle minoranze (o maggioranze) oggi oppresse da questo Stato "cattivo" (democristiano). Per noi, invece, lo Stato (cioè la struttura autoritaria della società) è la causa prima del sistema di oppressione e di sfruttamento: da qui l'improrogabile necessità di lottare per il suo abbattimento, contro qualsiasi progetto di migliorarlo e di "democratizzarlo".

Al di là di qualsiasi ibrido "libertarismo", la distinzione tra il loro riformismo e la nostra scelta rivoluzionaria resta sempre netta ed insuperabile.