Rivista Anarchica Online
Lo Stato "buono" dei radicali
di P. F.
Il recente congresso del Partito Radicale (Napoli - 30 ottobre/4 novembre) è stato seguito con
particolare attenzione dai grandi mezzi di comunicazione: la stampa quotidiana, i principali settimanali
politici, la RAI-TV, tutti hanno dedicato ampio spazio all'avvenimento - molto di più rispetto ai passati
congressi radicali. Se pur mantenendo caratteristiche loro peculiari e per certi aspetti interessanti, infatti,
i radicali hanno compiuto con le elezioni del 20 giugno l'ultimo passo per il loro completo inserimento
nell'establishment politico italiano: in quattro, ma non per questo inosservati, hanno fatto la loro entrata
alla Camera dei Deputati come "rappresentanti" del popolo italiano.
Rispetto ad un anno fà, quando esaminando sulla rivista la loro strategia li definimmo "riformisti extra-parlamentari" (vedi "A" 39), anche noi dobbiamo prendere atto del fatto che Pannella & C. sono
diventati "onorevoli". Di questa nuova realtà si è naturalmente discusso a lungo a Napoli, nell'ambito
del congresso radicale. Anche se, per una curiosa concezione del rapporto necessario tra partito e
gruppo parlamentare, gli onorevoli Pannella, Mellini, Faccio e Bonino (cioè gli attuali componenti del
gruppo parlamentare radicale - a metà legislatura cederanno spontaneamente le loro "poltrone" ai primi
quattro non eletti della loro lista) hanno preferito disertare il congresso stesso, per sottolineare
l'autonomia del gruppo parlamentare rispetto al partito, e viceversa. Ha fatto eccezione il solo Pannella
(che, tra parentesi, da tempo non è più iscritto al partito radicale) che è comparso alla tribuna
congressuale l'ultimo giorno per difendere quella strategia radicale qui è stato certamente il principale
artefice, ma che non poche resistenze incontra tra i militanti radicali.
Uno degli aspetti più interessanti del congresso di Napoli si è avuto infatti nelle dure critiche che alcuni
congressisti hanno mosso alla gestione organizzativa ed anche alla strategia complessiva del partito, quali
sono state portate avanti dalla segreteria Spadaccia (oggi sostituito al vertice del partito da Adelaide
Aglietta, sulle medesime posizioni). La linea del partito - ha sostenuto per esempio Giulio Ercolessi -
cala sempre dall'alto, con una raffica di telegrammi. Ma in questo modo la base non si sente coinvolta,
non partecipa. Perciò restiamo sempre in pochi. I radicali restano nel partito pochi mesi poi se ne
vanno. Il nostro male è l'autoritarismo, la mancanza di democrazia. Altre voci simili si sono levate per
denunciare la progressiva (ed inarrestabile?) "partitizzazione" del partito radicale. I lettori ci scusino il
bisticcio di parole, ma abbiamo voluto sottolineare questa burocratizzazione di un partito come il P.R.
che ha sempre teso a presentarsi come un'organizzazione federativa basata sulla massima autonomia delle
realtà locali - un'organizzazione, quindi, ben distinta e per certi aspetti antitetica ai partiti tradizionali.
A quanto pare, però, la realtà è un'altra.
L'argomento centrale del congresso doveva essere ed in effetti è stato la discussione dell'intera strategia
radicale, sulla base delle esperienze degli ultimi anni. La maggioranza dei congressisti si è trovata
d'accordo con la "strategia dei referendum" ed ha accettato l'impegno - proposto dalla segreteria uscente
- di battersi contro il Concordato, i tribunali militari, i reati d'opinione, il codice Rocco, la legge Reale,
i regolamenti manicomiali, il finanziamento pubblico dei partiti, la Cassa del Mezzogiorno, l'immunità
parlamentare, la commissione inquirente, eccetera eccetera. Per tutti questi problemi la proposta radicale
è la stessa: referendum, referendum, sempre referendum. Il ricordo della "grande vittoria" al referendum
per il divorzio è ancora troppo vivo nelle file radicali perché non venissero messe in minoranza le tesi
di coloro che, giustamente, hanno osservato a Napoli che una simile strategia è tremendamente settoriale
e rifiuta aprioristicamente di prendere in considerazione tematiche di fondamentale importanza come
quella economica.
Spadaccia ha avuto buon gioco nel far capire ai congressisti che il P.R. ha ormai trovato una precisa
collocazione come "partito dei diritti civili" e che il tentare nuove strade sarebbe estremamente rischioso,
forse suicida: a suo modo, Spadaccia non aveva tutti i torti. Anche noi, che pure in passato abbiamo
avuto occasione di condurre insieme con i radicali significative battaglie sul terreno anticlericale ed
antimilitarista, siamo da tempo convinti che, al di là della consueta fraseologia radicale (volutamente
equivoca nel suo eclettismo - i radicali amano definirsi nel contempo "liberali" e "socialisti libertari",
attuano a volte la disobbedienza civile ma si ritengono i veri difensori della "legalità costituzionale"), il
P.R. abbia trovato la sua strada, la sua collocazione più funzionale nel suo ambito naturale: la sinistra
riformista.
Nello stantio panorama delle forze politiche di questa Italia concordataria e storicamente compromessa,
i radicali rappresentano a volte - con la loro vivacità e per il carattere positivamente provocatorio di
certe loro iniziative (si pensi per esempio all'occupazione di una cella nel carcere fiorentino delle Murate
da parte di Mellini, Bonino e Faccio) - una nota originale. Quando poi promuovono iniziative illegali di
ampio respiro come il C.I.S.A. hanno istintivamente la nostra simpatia e solidarietà - per il ruolo di
rottura con il sistema che obbiettivamente svolgono in quei momenti.
Tutto ciò non può però coprire quella che è la realtà prima del partito radicale e della sua strategia
referendumista tutta tesa al miglioramento dello Stato tramite una sempre maggiore "partecipazione"
dei cittadini. Per loro lo Stato può diventare "buono", "costituzionale", "giusto", può giungere a
garantire i diritti dei più deboli e delle minoranze (o maggioranze) oggi oppresse da questo Stato
"cattivo" (democristiano). Per noi, invece, lo Stato (cioè la struttura autoritaria della società) è la causa
prima del sistema di oppressione e di sfruttamento: da qui l'improrogabile necessità di lottare per il suo
abbattimento, contro qualsiasi progetto di migliorarlo e di "democratizzarlo".
Al di là di qualsiasi ibrido "libertarismo", la distinzione tra il loro riformismo e la nostra scelta
rivoluzionaria resta sempre netta ed insuperabile.
|