Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 6 nr. 51
ottobre 1976


Rivista Anarchica Online

Attenzione ai burocrati
di Centro redazionale della provincia di Napoli

Napoli - Le manovre contro i disoccupati organizzati.
Dopo la prima fase di lotte autonome ed autorganizzate, il movimento dei disoccupati organizzati ha di fatto accettato la tutela e la logica dei gruppi ex-extraparlamentari - Si è così scivolati nella logica vertenziale e contrattualistica, favorendo le manovre burocratiche delle sedicenti "avanguardie rivoluzionarie" - Il ruolo camorrista del PCI.

Il Movimento dei Disoccupati Organizzati è nato come una risposta positiva ad un'esigenza primaria del proletariato napoletano. Anni di propaganda rivoluzionaria sulla necessità dell'organizzazione per l'unità di classe di tutti gli sfruttati, che erano sembrati infruttuosi e volati via senza lasciare traccia nella coscienza dei proletari sono invece maturati ed hanno dato vita a quanto di più positivo il movimento abbia saputo esprimere negli ultimi anni.

L'organizzazione dei lavoratori non occupati e in cerca di primo impiego è stata la imprevedibile ma logica conseguenza di un processo che si andava svolgendo a diversi livelli, sociale-politico-economico, su cui si è innestata l'azione di alcuni gruppi di compagni che hanno aiutato i disoccupati a dare libero sfogo alla loro creatività e alla loro incontenibile volontà di lotta.

Storicamente una grossa fetta del proletariato e del sottoproletariato napoletano (non c'è una differenza sensibile tra questo e quello) ha sempre ricavato i mezzi di sussistenza da lavori illegali, ma comunque precari (contrabbando, prostituzione, lavoro a domicilio, ambulantato, lavoro nero, sfruttamento dei minori) costretta a ciò da un banditesco comportamento delle autorità succedutesi al governo della città da secoli, (da questo punto di vista non c'è una grossa differenza tra la pusillanimità di Franceschiello, re borbone, e gli atteggiamenti camorristi dei vari Lauro e Gava e, stando alle ultime notizie, anche alla Giunta Valenzi (cfr. Umanità Nova n.36).

Nel momento in cui agli sconci della mafia politica si sono aggiunti gli effetti deleteri della crisi economica (fine del turismo, blocco dell'emigrazione, ulteriore aumento della disoccupazione) e del colera (conseguenza delle gravi condizioni socio-economiche in cui versava la popolazione e causa dell'ulteriore peggioramento delle sue condizioni di vita) la stessa precarietà del lavoro è stata messa in discussione, si è negato cioè al napoletano la stessa possibilità di sopravvivenza, costringendolo alla disperazione. Di fronte all'incapacità delle pubbliche istituzioni, che avevano ancora una volta abdicato alle loro funzioni, i proletari napoletani hanno avvertito la stringente necessità dell'organizzazione non fine a se stessa, non istituzionalizzata, ma spontanea; un'organizzazione che gli consentisse di uscire dal vicolo cieco della indigenza in cui il parassitismo padronale li aveva cacciati.

I proletari napoletani si sono organizzati; anzi hanno organizzato tutto ciò che gli era rimasto, hanno organizzato la loro miseria, la loro disperazione e sono partiti all'attacco rifiutando la tattica dell'arte di arrangiarsi. Non è più il caso di arrangiarsi, dal momento che è stata negata ogni possibilità di arrangiarsi, ora i disoccupati napoletani rifiutano la precarietà e vogliono la sicurezza del posto di lavoro, la stabilità di una vita decente e mettono alle corde proprio coloro che credevano di poter basare i loro giochi di potere sullo stato di necessità cronica dei disoccupati o sottoccupati napoletani.

L'offensiva proletaria è partita proprio da uno dei centri più attivi del clientelismo democristiano e allo stesso tempo più inefficiente dal punto di vista di una oculata amministrazione borghese: l'ufficio di collocamento, che in anni di attività (o meglio inattività) non un solo posto ha distribuito seguendo la normale procedura.

Alcuni disoccupati, inizialmente poche decine, ritrovatisi inutilmente più volte fuori dall'ufficio di collocamento cominciano ad intervenire dovunque si parla di lavoro: nelle sedi dei partiti, dei sindacati, nelle assemblee al consiglio comunale, regionale, alla provincia e soprattutto nelle piazze con i loro cortei improvvisati, le loro azioni brevi ed incisive e utilizzando strumentalmente la sigla CGIL-CISL-UIL.

Ciò che caratterizza queste manifestazioni è l'immediatezza dell'espressione e la convinzione di non aver niente da perdere, mentre la loro imprevedibilità vanifica ogni tentativo di repressione. Soprattutto l'iniziale rifiuto della mediazione rende problematici i tradizionali canali di controllo (sindacato, partiti riformisti, ecc.) dell'azione delle masse popolari, proprio perché l'obiettivo nella sua genericità (il posto di lavoro) non è contrattabile e la controparte non è ben definita. Praticamente l'organizzazione capitalistica viene messa in discussione dalla richiesta di lavoro per tutti e ogni autorità, di tutti livelli, viene investita dal problema.

È in questa fase che, secondo noi, il movimento esprime il meglio di se stesso realizzando momenti di autogestione comunista libertaria della lotta attraverso l'autorganizzazione, la decisione assembleare, il rifiuto della delega attuando alcune delle azioni più significative quali: la tenda a piazza Municipio, l'occupazione dei treni per i viaggi a Roma, l'occupazione dell'Ufficio di Collocamento, ecc.

È in questa fase che si riescono a strappare all'autorità provvedimenti concreti, come l'avvio dei lavori straordinari di manutenzione degli edifici pubblici, tendenti ad arginare la crescente incisività dei disoccupati organizzati, che vanno acquistando una capacità di mobilitazione sempre più grande. Ma è anche in questa fase che il movimento mostra la sua insufficienza teorica, l'incapacità di analizzare correttamente le esperienze vissute finora, da cui trarre utili indicazioni per l'azione futura. La proliferazione massiccia di comitati e liste di disoccupati che si appoggiano prevalentemente a sedi di gruppi politici, in gran parte marxisti-leninisti, da un lato è un aspetto positivo in quanto indica un orientamento politico nuovo delle masse popolari napoletane, dall'altro canto però segna anche l'inizio del momento del recupero a una strategia riformista che apre la strada all'intervento fagocitante e disarmante del sindacato e, in misura ridotta, del P.C.I.

Secondo noi il punto debole del movimento sta proprio nell'aver accettato la tutela e quindi la logica dei gruppi ospitanti che hanno inserito quanti più militanti era possibile nelle liste, cercando di porli in posizione dirigente rispetto alla massa dei disoccupati. Questa logica inserisce nella prassi del movimento un nuovo elemento: la vertenza, la contrattazione e quindi la necessità di formare una delegazione capace di dialogare, di contrattare con la controparte, che da questo momento non è più l'organizzazione capitalistica nel suo insieme, ma i funzionari della prefettura.

Praticamente il movimento entra nell'area riformista, si incominciano a creare i delegati fissi, i compagni che sanno parlare meglio, che capiscono più cose, si cominciano a formare i leaders, e subisce alcune delle sconfitte più cocenti. Senza considerare che in questo modo si accetta lo scontro sul campo congeniale al nemico di classe e tra l'altro molti disoccupati a questo punto tra la protezione neo-riformista dei gruppi e quella riformista cominciano a scegliere quella più sicura. In pratica i Gruppi sono riusciti a espropriare i proletari disoccupati della gestione delle lotte che li interessano direttamente, cioè hanno fatto esattamente le stesse cose che fanno le organizzazioni sindacali in fabbrica con gli operai: si sostituiscono ad essi e si appropriano della loro rappresentanza, facendosi garanti del controllo del movimento.

Non diciamo che ci sia malafede nell'operato dei militanti dei gruppi, anzi, non mettiamo in dubbio l'impegno profuso nell'organizzazione da parte dei militanti di L.C., di A.O., di "Nuova Unità", ecc. Noi sosteniamo che quanto è accaduto era inevitabile (per quanto riguarda i gruppi) dal momento che la prima preoccupazione dei marxisti-leninisti è stata quella di voler inquadrare in una ideologia, appunto marxista-leninista (ma sarebbe stata la stessa cosa con qualsiasi altra ideologia), un movimento che invece era nato spontaneamente dalle esigenze proletarie e marciava lungo la strada maestra della autoemancipazione degli sfruttati. Insomma la colpa dei gruppi secondo noi è stata quella di aver tentato di formare il Partito dei disoccupati organizzati, e gli affossatori del movimento sono proprio quelli che vanno in giro presentandosi come leaders dei disoccupati organizzati. Del resto i periodi di maggior stasi dell'azione dei disoccupati organizzati si sono avuti proprio quando si è cercato di far balenare davanti agli occhi dei proletari che qualcun altro avrebbe potuto risolvere i loro problemi: ci riferiamo al periodo immediatamente successivo l'insediamento della giunta Valenzi al Comune di Napoli, e al periodo preelettorale quando si è giunti quasi ad uno smantellamento del movimento organizzato. Per favorire le mire elettoralistiche di certa gente, è stata imposta una vera e propria tregua elettorale facendo credere che dopo le elezioni un ipotetico governo delle sinistre avrebbe dato lavoro a tutti.

Mentre i periodi di maggior creatività e che hanno portato anche risultati concreti sul piano delle concessioni del padronato si sono avuti quando i disoccupati si sono scrollati di dosso l'egemonia riformista e neoriformista e hanno deciso di difendere direttamente i propri interessi, superata la logica della contrattazione sono riusciti, con l'azione diretta, a mettere in crisi il sistema clientelare dell'assegnazione dei posti di lavoro in tutti gli enti pubblici, e hanno costretto le autorità a più miti consigli: come nei casi dei disordini della stazione centrale (29 arresti), dell'azione del C.R.I.E., dei primi viaggi a Roma, dell'azione al Nuovo Policlinico, dell'occupazione dell'ufficio personale degli Ospedali Riuniti dove si vendevano i posti "a milioni", ecc. Diciamo che l'aspetto qualificante, rivoluzionario di tutta l'esperienza del movimento dei D.O. è quello di aver dimostrato ancora una volta una verità, sconcertante nella sua semplicità, sempre affermata a parole e continuamente vilipesa da tanti compagni, e cioè che il proletariato non ha bisogno né del capitalismo né di numi tutelari, siano essi autorità pubbliche o rappresentanti dei lavoratori, perché l'emancipazione del proletariato può essere opera solo dei proletari stessi.

Il grosso neo dei comitati dei D.O. è stato quello di non aver saputo difendere la propria autonomia e di essersi prestati a mille strumentalizzazioni (i fascisti e la D.C. hanno tentato, i riformisti e i neoriformisti ci sono riusciti).

Ma le prove di maturità offerte dai D.O. nelle lotte, le capacità di autocontrollo, di autorganizzazione e di autogestione espresse, è giusto credere che non siano state un fatto isolato, episodico e irripetibile, anzi il movimento dei D.O. ha ancora un'enorme potenzialità di lotta da liberare ed è facile prevedere che le sue azioni future rappresenteranno notevoli "cazzi acidi" per qualsiasi governo locale o centrale che sarà costretto a scontrarsi col problema dell'occupazione. Lo ha ben capito il P.C.I. il quale ritenendo che i suoi più pericolosi antagonisti non saranno i vari partiti dell'arco costituzionale o i sindacati riformisti bensì i D.O., sta mettendo in atto i tentativi più squallidi di stampo camorrista arrivando persino alla minaccia a mano armata per cercare di rompere l'unità del movimento dei Disoccupati Organizzati.