Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 6 nr. 48
maggio 1976


Rivista Anarchica Online

AL CINEMA
a cura di Rozac

Apache
di William A. Graham.

Come spesso accade per i film belli, questa pellicola non è stata affatto reclamizzata. Ma il pubblico sta facendo giustizia dell'opera di disinformazione delle case di produzione, che relegano sistematicamente i film di qualità in periodi morti per farli cadere immediatamente. Questa volta l'operazione non è riuscita perché la pellicola, nella sua semplicità e linearità, appare realmente come un prodotto alternativo molto più di tante pellicole di nomi famosi ma che sempre più rispondono alle offerte della grande industria cinematografica americana. La storia del film è la storia di un bounty-killer (tiratori velocissimi che vivevano sfidando a duello e uccidendo, riscuotendone la taglia, noti fuorilegge) e della storia d'amore con l'unica superstite di un gruppo di apaches barbaramente trucidato da un drappello della cavalleria americana: come si vede una trama semplicissima, ma portata con tali toni e affidata ad attori tanto bravi (quanto sconosciuti) da ergersi tra le migliori pellicole del nuovo filone antiwestern, filone che da qualche anno sta rivisitando la storia della repressione nordamericana nei confronti delle popolazioni indigene, vilmente sterminate per sete di territorio.

Una fotografia che si rifà a quella delle pellicole degli anni cinquanta - leggermente tendente al verde ed al blu - e che è stata affidata ad un maestro della statura di Haskell Wexler, dei paesaggi bellissimi nella loro brullezza, un dialogo essenziale: tutto ciò contribuisce a rendere la pellicola tra le più interessanti della stagione, anche perché la tematica che porta avanti appare sempre più fondata nella realtà del passato degli Stati Uniti, questo paese "garante di tutte le libertà" (del mondo occidentale) che ha sulla coscienza ben venticinque milioni di morti - tale era il numero degli indiani all'arrivo dei primi insediamenti europei.

Un film da non perdere soprattutto considerata la scarsità di una valida produzione cinematografica attuale e la mancanza di idee che permea quasi tutti i film in programmazione attualmente: questo è un film che, affidando alle immagini gran parte delle emozioni che deve trasmettere, raggiunge una delle più alte vette di anticolonialismo presentandoci anche un personaggio che appare molto vicino alle nostre idee, con la sua sete di giustizia e il suo disprezzo per i soldati che si trova a fronteggiare. Unica nota stonata una musichetta che fa da sottofondo all'amplesso tra il bounty-killer e la giovane apache (sempre nuda).

Riconosciamo per primi le emozioni dateci da Ombre Rosse o Sentieri Selvaggi, ma la nostra mente è cresciuta: non attendiamo più i "nostri" - a meno che essi non siano una banda di Apaches o Sioux - quindi le musiche il regista poteva lasciarle per strada. Il film lo avremmo apprezzato sempre, forse di più.

Salon Kitty
di Tinto Brass.

Prima di iniziare un qualsiasi discorso su questo film occorre che esso sia presentato per quello che realmente è, un film al quale sembra siano stati fatti ben sessanta tagli da una censura sempre più ottusa e vuota, una censura intoccabile e disconoscitrice di ogni opera della cultura, anche se essa potrebbe apparire discutibile. Fatta questa premessa occorre dire subito - mi ripeto - che tra le opere di Tinto Brass, questa è di certo la più debole anche perché un regista dalle caratteristiche di Brass male si trova a contatto con tanti soldi come si è trovato dinanzi per fare Salon Kitty. L'idea della casa di piacere usata dalle autorità del Terzo Reich per carpire segreti e debolezze degli uomini che facevano il regime, come idea non è affatto male ma quello che nuoce alla pellicola sembra essere questa continua ostentazione di seni, natiche, vagine, rapporti anali, cunnilingus, fellatio e via dicendo che riducono il film ad un compenso sessuale per nostalgici impotenti. Nulla da dire contro il sesso se usato bene - splendida la scena dell'accoppiamento tra venti giovani SS e le aspiranti donne di malaffare con una scenografia che ha curato minimamente l'aspetto coreografico del regime, completando la scena con due gerarchi decisamente invertiti, una banda musicale tra le più improbabili, un ufficiale che controlla le sue SS, un medico che ispeziona l'andamento dei vari tipi di rapporti in corso e su tutto questo tre enormi bandiere naziste quasi a suggellare la bestialità di un modo di operare e di intendere e vita e politica - ma quando esso prende il sopravvento ed il film diviene la pedana di lancio di attricette che hanno solo vagine e natiche e seni da mostrare perché la recitazione è di una carenza paurosa, allora la tematica del film cala e viene a galla un certo qual intento pornografico e voyeristico che male si attaglia alla storia che si sta filmando. Né, in queste condizioni, possono nulla le ottime musiche di Fiorenzo Carpi, la accuratissima fotografia di Silvano Ippoliti, la splendida scenografia di Ken Adam e l'interpretazione di Ingrid Thulin: tutto naufraga nei peli pubici e nei capezzoli che la fanno da padroni in una storia che avrebbe dovuto mostrare con maggiore severità ed attenzione le nefandezze e la bassezza morale di uno dei regimi più tristi della storia del mondo. In questa condanna vorremmo salvare l'operato di Tinto Brass che ha disconosciuto il film per le modifiche apportatevi e vorremmo invece condannare Giulio Sbarigia, il produttore, che per rientrare nelle spese sostenute ha messo sul mercato un qualcosa che non si può definire film perché una pellicola che subisce tanti tagli non si può considerare un film: ancora una volta la logica del denaro ha sconfitto l'intento artistico.