Rivista Anarchica Online
AL CINEMA
a cura di Rozac
Nashville, di Robert Altman
È tempo di bicentenario ed anche i cineasti di oltre Oceano vogliono dare un loro contributo a questa
storica data tanto cara al "true American": e proprio in questa ottica va visto il nuovo film di Altman che
ci presenta a duecento anni dalla sua fondazione i sentimenti della vera America, la stessa che sa
riconoscere i propri errori e da essi trae la forza di cambiare. Splendida e puerile teoria che si rispecchia
bellamente nella pellicola che altro non è se non una magistrale carrellata di volti, situazioni, circostanze,
musiche, atmosfere e paesaggi mediante i quali Altman ci dà un quadro abbastanza fedele dell'America
dei giorni nostri. Nulla da eccepire sulle numerose interpretazioni che vivificano la pellicola né tanto
meno sulle musiche, splendidi i colori ed i dialoghi ma quello che manca - e dispiace che manchi in un
regista come Altman che altre volte era apparso graffiante ed efficace oltre ogni dire - è una critica
precisa a quello che è stata l'America, e quale è il suo ruolo attuale, che cosa cercano gli americani con
le loro bugie spacciate per libertà incontrovertibili, che cosa si aspettano dal mondo, chi realmente sono.
Tutte queste domande appaiono completamente invase dalla narrazione e con la musica country and
western ed i cicalecci di fondo degli interpreti - tutti bravissimi, tra l'altro - si cerca di sopperire a tutto
ciò presentando un qualcosa che sta tra il documentario, il cinema-verità, il recital musicale registrato,
il documento antropologico ed il film vero e proprio.
Ancora una volta l'America è così grande da risorgere dalle sue magagne che sono sempre macchiate
di sangue e di violenza inaspettata, ancora una volta i suoi due volti - quello tradizionalista e quello
progressista tra molte virgolette e con molti punti interrogativi ed esclamativi - si uniscono per salvare
il grande paese da catastrofi non sempre ben identificate e che, se lette in modo politicamente corretto,
sono sempre fonte - queste unioni - di lutti e affossamenti di libertà. Troppo facile mettersi dietro una
macchina da presa e riprendere il cantante eterno amatore ed affetto da satirismo acuto, troppo facile
mostrarci gente coinvolta in incidenti automobilistici mangiare gelati o altri litigare per motivi di infedeltà
coniugale mentre altri fumano l'ormai immancabile sigaretta di erba - il sistema sarebbe lietissimo se
potesse farci iniettare tre dosi di eroina al giorno - troppo facile tutto ciò soprattutto in una nazione nella
quale, per degnamente ricordare il bicentenario ci sarebbero state migliaia di modi migliori, troppo facile
ed anche bassamente commerciale: una operazione che, seppure non leva nulla alla bellezza delle
immagini dei film, ci mostra come l'intellettuale americano - salvo rarissimi casi - sia sempre prono nei
confronti del potere e come l'America, nonostante passi il tempo ed i contestatori dalle lunghe chiome
crescano e si inseriscano nella società, rimane sempre a big shit: per dirla in italiano una grossa merda.
Telefoni bianchi, di Dino Risi.
Telefoni bianchi, ovvero la potenza della vagina e delle natiche nella scalata sociale: così si potrebbe
sottotitolare l'ultima fatica cinematografica di Risi nella quale, oltre ad una vena robustissima di
qualunquismo fascista di bassa lega, scopriamo anche un nuovo filone del cinema italiano,
l'antifemminismo da caserma, quello che identifica la donna nella cavità nella quale riversare lo sperma
e basta. Da questo assunto ed aggiungendo che la protagonista è una splendida oca giuliva che risponde
al nome di Agostina Belli e che oltre a sedere e seno e vagina null'altro ha da sacrificare alla recitazione
si potrà comprendere immediatamente che razza di sconcio si vuol far passare per film e che razza di
squallida sceneggiatura sostiene il tutto. Battute di una sconcezza unica - le donne hanno una banca tra
le cosce è forse la più indicativa del livello del film - nudi gratuiti ed estremamente dannunziani - siamo
nel ventennio di triste memoria - situazioni di uno scontato addirittura tragico - il fedele fidanzato
continuamente beffato e cornificato - servono a portare avanti la storiella dell'ascesa all'Olimpo di
Cinecittà di una cameriera veneta che, concedendo il suo corpo financo al giustamente appeso a Piazzale
Loreto, diviene la diva numero uno del regime, ne segue i fasti, cade con esso, risale la china e finisce
la sua vita tra le braccia solidissime di u ricchissimo industriale svizzero che se ne innamora e la sposa
rendendola sposa e madre felice. Come si vede la piccola borghesia alligna ovunque e trionfa bellamente
sorvolando tutto quello che è stata l'Italia del periodo trattato e nell'unico momento del film nel quale
si parla di guerra partigiana, i valorosi combattenti contro il nazifascismo ci vengono presentati come
degli stolidi barboni dai fazzoletti troppo rossi che si divertono a fare scherzi goliardici e nulla più
avvalorando le tesi di chi disconosce quel periodo di storia e rendendo un grosso favore al massacratore
Almirante. Dispiace che Risi sia caduto così in basso ma è anche bene che ciò sia accaduto sperando che
questo sia, almeno per Risi, l'ultimo tentativo di far vedere attraverso la commedia all'italiana, alla satira
- cioè - che non graffia e che riempie di volgarità ed improperi l'ignaro spettatore. Di Agostina Belli si
è detto prima - solo uno splendido corpo e due occhi verdi che fanno sognare - mentre non si è detto
di Gasmann - il divo drogato e sempre alla ricerca di donne, oltre che di cocaina (Osvaldo Valenti docet)
- né tanto meno si è detto di Tognazzi, gobbo e spia dei nazisti, né di Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni
si è parlato: un film da dimenticare.
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