Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 5 nr. 42
ottobre 1975


Rivista Anarchica Online

La fabbrica dei disoccupati
di Oscar Corenai

In tutti i Paesi ad economia mista è in atto da anni un costante aumento della disoccupazione - La crisi economica e sociale negli Stati Uniti - Il caso italiano: le responsabilità delle Partecipazioni Statali - Come si è risolta la "vertenza Campania" - L'esplosiva situazione sociale di Napoli, "capitale" della disoccupazione.

In questo ultimo periodo si parla tanto (i grandi strumenti di disinformazione di massa si occupano diffusamente del fenomeno) della crisi economica italiane in corso; esperti economici sembrano d'accordo che nel prossimo futuro si avrà un peggioramento delle condizioni di vita collettive (e per collettive intendo - diversamente dagli esponenti della élite del potere economico- le condizioni delle classi lavoratrici, perché è chiaro che il milione e passa di ricchi e ricchissimi sono ben equipaggiati finanziariamente). Nel nostro come negli altri paesi già oggi i gruppi socialmente più deboli hanno dovuto pagare un prezzo assai caro per la politica brutalmente antinflazionista imposta dal governo nostrano e dai governi degli altri paesi industrializzati in termini di una progressiva disoccupazione e in termini di una continua ascesa dei prezzi e di conseguente erosione del salario. Sintomo grave di questo peggioramento, come ho detto, è la crescente disoccupazione privilegio dei paesi ad economia capitalistica mista provocata dalla politica economica dei governi, che sta investendo lavoratori di vari settori dell'economia. Il livello di disoccupazione in Italia ha superato e di molto la quota di un milione di persone (stando alle statistiche ufficiali, sempre in difetto in casi come questo) mentre per l'intera comunità si sono superati i 6 milioni di disoccupati "ufficiali".
Nel nostro paese la curva dei disoccupati continua la sua corsa al rialzo e questa viene confermata puntualmente dalle statistiche mensili. La prima cosa che si deve dire parlando della crisi di questo periodo è che i presupposti della crisi occupazionale attuale sono precedenti: è infatti da oltre otto anni che in tutti i paesi capitalistici si va registrando una diminuzione lenta ma continua degli addetti all'industria, una uguale riduzione della occupazione agricola (imposta in Europa dagli organismi comunitari), e un aumento invece modesto del settore terziario - amministrazione e servizi. Che il settore primario - agricoltura - sia in progressiva e continua riduzione è cosa nota, quello che però ha sconvolto l'economia dei principali paesi industriali è stato prima l'arresto dell'incremento degli addetti all'industria e poi una sua successiva e continua diminuzione che ha accresciuto la difficoltà di inserimento soprattutto dei giovani ad ogni livello della vita economica. Nel 1974, anno di espansione nonostante l'inflazione, soltanto 7 diplomati su 100 hanno trovato occupazione in attività immediatamente produttiva. Il settore terziario è rimasto l'unico in buona salute e addirittura traente e questa inversione, che ha provocato una disoccupazione crescente all'interno di ciascun paese capitalistico, è stata presentata come fatalmente imposta da fattori internazionali ai quali i tecno-burocrati si sono richiamati per coprire le loro responsabilità nella condotta dell'economia. Inoltre se consideriamo che lo Stato in Italia compenetra molto profondamente l'economia nazionale e controlla il restante settore privato manovrando la politica del credito, comprendiamo che è proprio il potere "pubblico" che nel nostro paese ha la responsabilità della crescente disoccupazione nei diversi settori; la presente crisi occupazionale è infatti provocata principalmente dalla caduta degli investimenti produttivi delle partecipazioni statali dove si annidano i grossi calibri della tecno-burocrazia statale (nuova classe in ascesa) con il loro seguito di clientele, baronie che hanno trasformato l'industria di Stato in un traballante carrozzone e in un formidabile centro corporativo di potere governativo e sottogovernativo, e che hanno dimostrato varie volte di essere inattaccabili e di continuare indisturbati nell'esercizio arrogante del potere. Proprio perché le partecipazioni statali operano in settori basilari (servizi e produzione), la mancanza degli investimenti produttivi ha provocato ripercussioni pesanti nel settore privato già affetto da decenni da investimenti decrescenti (1); alla mancanza notevole di investimenti privati si è aggiunta la riduzione brusca degli investimenti statali che hanno avuto più volte un ragguardevole effetto sostitutivo rispetto a quelli privati. Quello che appare certo è che questa massa di disoccupati non si è formata in un anno (come invece sostengono sfacciatamente i dirigenti dell'Istat, insuperabili portavoce delle menzogne delle classi dominanti) e che rappresenta invece la punta di un grosso iceberg affiorato solo ultimamente, le fondamenta del quale erano però venute creandosi nel corso dell'ultimo decennio. Certo non tutti i notabili del potere erano a conoscenza della grave crisi imminente, ma molti di questi credevano assurdamente (e diffondevano altrettanto assurdamente questa credenza) in un sicuro miglioramento della situazione che avrebbe dovuto derivare meccanicamente da un aumento della produzione che non si è verificato. Già cinque anni fa comunque non c'era rivista economica di un certo livello che non avvertisse, illustrando indici molto eloquenti, che si stava verificando una riduzione delle forze di lavoro totali in Europa (cioè il numero delle persone che si presentavano sul mercato del lavoro) e la riduzione - iniziata come cessazione della crescita - dei lavoratori addetti alle attività secondarie (le attività manifatturiere, quelle cioè che realizzano l'aumento più appariscente della produzione fisica nell'economia industriale) e alle primarie (attività agricolo-alimentari) cioè una diminuzione degli addetti alle produzioni di base. Pur conoscendo questi dati il problema dell'esplosione imminente della disoccupazione venne invece taciuto dai vari governi della comunità economica europea.

La crisi negli Stati Uniti

La crisi ha colpito anche gli Stati Uniti e le cifre che indicano questa crisi sono abbastanza note: un forte tasso di disoccupazione e di sottoccupazione (superiore all'8%) e un'inflazione sempre molto elevata (10%).
Come già si annunciava verso la fine del 1974, il 1975 è stato un anno in cui l'attività economica ha continuato a subire un declino continuo e non si è nemmeno sicuri se per il 1976 vi saranno i primi sintomi di ripresa; a questo riguardo l'Economist, settimanale economico, in riferimento alla crisi americana ha scritto: "Se queste segnalazioni sono corrette (le segnalazioni a cui si riferisce la rivista sono il tasso di inflazione e il saggio di disoccupazione, n.d.r.)- e spesso lo sono stati in passato - le previsioni dell'Amministrazione circa la produzione e la disoccupazione sembrano entrambe insufficientemente pessimistiche". Sempre secondo il settimanale inglese "Questa recessione americana sarà lunga e profonda". E se bisogna giudicare dalla percentuale dei disoccupati (alla fine di gennaio di quest'anno la percentuale dei disoccupati era pari all'8,2% contro una prognosi dell'8,1% per l'intero anno) effettivamente la crisi americana è molto grave e a nulla è valso seguire la classica e vuota politica antinflazionistica di minori spese (non però quelle per gli armamenti, che al contrario sono in aumento) per una serie di provvidenze sociali, restrizione del credito, per riportare in salute una economia malata ma non moribonda; l'inflazione però non fu debellata e la recessione è arrivata puntuale e non accenna a scomparire in seguito alla timida politica antirecessiva. Infatti le facilitazioni per il credito, il rialzo del dollaro, una generica riduzione di imposte, sotto la duplice forma di una restituzione di una parte delle tasse già pagate quest'anno e di una attenuazione di quelle che dovrà pagare, non hanno avuto nessun effetto. Si spera da parte di Ford e del suo seguito in questo modo (accrescendo il deficit del bilancio statale) di stimolare l'attività economica e di spingere il consumatore a spendere di più e quindi di assorbire le scorte delle imprese formatesi in seguito al calo degli acquisti. Se però da una parte sono state adottate queste misure "antirecessive", dall'altra si sono introdotte nuove imposte indirette su molti prodotti - specie derivati dal petrolio.
Il risultato di questo tiro alla corda è che il lavoratore americano si vede sottrarre con una mano quello che con l'altra gli viene concesso: le imposte indirette riducono infatti il suo salario e questo non potrà incoraggiare gli acquisti. In pratica la politica economica americana volutamente è incapace di combattere e l'inflazione e la recessione congiunta ed è assurda e ingiusta perché accoglie la credenza che bisogna accettare una disoccupazione alta (cioè una delle peggiori piaghe sociali) alla minaccia di una nuova spinta al rialzo dei prezzi.

Le ripercussioni della crisi in Italia

Le ripercussioni attuali di questo grave problema si sono riversate su tutti i paesi industrializzati e in particolare sul nostro paese che ha superato di gran lunga il milione di disoccupati della Germania occidentale, mentre i baroni dell'Istat hanno avuto la faziosità di affermare che il numero di disoccupati e sottoccupati attribuibile all'Italia è simile a quello della Germania.
Fin dal 1972 si sapeva (e qualche economista lo aveva dichiarato pubblicamente) che la simultanea maturazione delle contraddizioni presenti nel sistema economico internazionale e di quelle, gravissime, del nostro paese avrebbe molto probabilmente causato in Italia una crisi profondissima, una delle più profonde dal 1947.
Per il nostro paese la crisi è stata più dura perché viveva, come ho detto, da due anni almeno una espansione drogata dalla manovra inflazionistica (che ha preceduto la drastica riduzione della domanda). Il processo era ben chiaro ed era impossibile (2) non prevedere che alla recente e drammatica crisi occupazionale si sarebbe velocemente arrivati. Quando le sole misure di politica economica adottate per un'economia in difficoltà a causa dell'esasperato tasso di inflazione come la nostra, sono la drastica riduzione delle importazioni di materie prime e semilavorati, la chiusura del credito, l'effetto più preoccupante per gli sfruttati è un repentino calo dell'attività produttiva (che come risultato temporaneo darà un miglioramento effimero della bilancia dei pagamenti, nel nostro paese sempre passiva) e quindi un conseguente e grave alto numero di disoccupati veri e propri e un altrettanto alto numero di lavoratori in forzata inattività, cioè in cassa integrazione, il risultato pratico che balza agli occhi e sempre s'impone all'attenzione critica proprio per l'allargarsi della disoccupazione, è che praticamente le disorganiche misure antinflazionistiche quali la stretta creditizia, la rapina fiscale sui redditi di lavoro, la brusca e forzata diminuzione dei consumi popolari hanno ridotto l'inflazione in modo poco sensibile (attualmente sta marciando al tasso del 15%) e le misure antirecessive attuali non hanno ridotto la disoccupazione. Questi fallimenti dimostrano indubbiamente (3) lo stato attuale di crisi delle varie teorie economiche che hanno avuto in passato una posizione dominante nel pensiero economico ufficiale. Mi riferisco in particolare alle teorie marginalistiche e alla più recente teoria keynesiana che teorizza una politica di intervento pubblico nella economia. Queste teorie nell'interpretare gli attuali squilibri delle economie capitalistiche e la manifesta inutilità di tali politiche di intervento a garantire condizioni di stabilità nello sviluppo, ha contribuito a mettere in luce la crisi di alcuni modelli teorici che pretendono di interpretare la dinamica della realtà economica e di fornire previsioni sulla sua evoluzione e strumenti adatti per correggerla. Conseguenza di questo stato di confusione è la perdita totale di credibilità da parte delle teorie sopra ricordate.
Quindi coloro che dovrebbero predisporre le politiche economiche si trovano in profondo stato di disagio e non nascondono più (dopo il fallimento totale dei modelli teorici che sostenevano l'effetto anti-crisi dell'intervento statale a fini di stabilità e di sviluppo) l'incapacità di agire trovandosi di fronte a forze ingovernabili come sono appunto le forze operanti alla base dei processi interconnessi di inflazione e deflazione nelle economie capitalistiche avanzate. (4).

Gli effetti della crisi recessiva nel sud e a Napoli in particolare

Nel mezzogiorno, prima l'inflazione (che ha prodotto l'effetto di aumentare il divario tra sud e resto d'Italia) e poi la recessione hanno ripercussioni gravissime e drammatiche soprattutto per quanto riguarda lo stato dell'occupazione e hanno prodotto l'effetto di aumentare la distanza cronica tra l'apparato industriale del sud (molto modesto e diversificato) e l'apparato del nord. Questa recessione sarebbe una occasione validissima per potenziare l'apparato industriale del meridione, ma le scelte governative "antirecessive" sembrano voler concentrare tutte le risorse su alcuni settori (p. es. 200 miliardi per agevolare le esportazioni) del vecchio apparato industriale tradizionale per tentare assurdamente in qualche modo e momentaneamente (dico momentaneamente perché senza cambiare si ricade nuovamente in un inflazione selvaggia) di forzare le esportazioni e di sanare temporaneamente il deficit cronico dei conti con l'estero. Queste sono le direttive del governo anche per il sud e queste direttive sono adottate da moltissimi anni anche a proposito dell'accumulazione di capitale pubblico nel sud. L'accumulazione di capitale pubblico nel sud infatti (lo 0,50% del reddito nazionale) ha contribuito a provocare un aumento della domanda nel sud che è stato soddisfatto al nord o all'estero. Non si capisce infatti perché citiamo sempre dati ufficiali riportati da molti giornali e contenuti nel rapporto sul mezzogiorno a cura della associazione di studi per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno) a seguito della spesa pubblica la raccolta bancaria è sempre stata ottima nelle regioni meridionali ed è aumentata nel 1974 in queste regioni di 2.412 miliardi, cioè del 21,8% rispetto al 16% del resto del paese. Il maggior risparmio liquido formatisi all'interno di questa area depressa non è servito però per impieghi bancari nel sud: infatti nello stesso periodo gli impieghi bancari sono scesi dal 60,8% al 56,8% della raccolta, con una riduzione del 4%. Le banche hanno cioè pompato denaro pubblico dal sud trasportandolo nel nord: questo meccanismo ha funzionato puntualmente fin dall'inizio dell'intervento dello Stato nel sud.
All'interno poi del Mezzogiorno, la crisi si è abbattuta pesantemente su Napoli e provincia (il mio più diretto campo di osservazione) dove in questi giorni numerosi cortei di disoccupati attraversano quotidianamente le strade della metropoli partenopea e delle città della provincia (Torre del Greco, Castellammare di Stabia, ecc. ecc.) per protestare contro i massicci licenziamenti nelle aziende pubbliche, in quelle controllate dallo Stato (si pensi agli operai e ai tecnici della Montedison di Casoria completamente in cassa integrazione e alla Montedison di Bagnoli che sta ormai smantellando), nelle aziende controllate dalle multinazionali (si pensi ai 400 operai della General Instruments, e i 420 della Merrel e i 500 dell'Angus che hanno ricevuto in questi giorni la lettera di licenziamento). Il problema dell'esplosione della disoccupazione (ironia e miracolo delle farse elettorali!) fu oggetto della "vertenza Campania" del 1973 e nel corso di questa vertenza si disse che nel giro di pochi mesi si sarebbe approdati a provvedimenti concreti capaci di incidere nella struttura economica e sociale della regione Campania; provvedimenti che sono stati abbandonati nei cassetti bancari assieme ai miliardi necessari per la realizzazione di quei provvedimenti. Oggi - anche per la mancata esecuzione dei provvedimenti di cui sopra - assistiamo invece ad un costante peggioramento della situazione economica caratterizzata da livelli di disoccupazione (contro i quali stanno lottando i lavoratori per rivendicare la difesa dell'occupazione, lo sviluppo degli investimenti e il recupero reale del potere di acquisto del salario) mai raggiunti da anni, dal diffuso ricorso alla cassa integrazione (il più delle volte l'utilizzazione della cassa integrazione ha lo scopo di mantenere in vita temporaneamente un complesso produttivo, costituisce cioè la premessa per poterlo liquidare), dal drastico calo della produzione industriale, dalla caduta degli investimenti e dal permanere di forti spinte inflazionistiche. Oggi nessuna impresa - nuove fabbriche giornalmente sono investite dalla crisi -, anche di grandi dimensioni dà garanzie sui futuri livelli di attività, quelle poche che non hanno ancora proceduto a massicci licenziamenti non hanno invece da anni sostituito i lavoratori andati in pensione e non assumono nuovi lavoratori (i cosiddetti licenziamenti invisibili) e per questa via, negli ultimi tre anni, l'occupazione è diminuita considerevolmente; interi settori come quello della pasta rischiano il tracollo.
Anche nella zona partenopea, dopo l'attuazione delle misure antinflazionistiche di cui sentiamo ancora i postumi, adottate dal governo italiano e dagli altri governi degli altri paesi industriali, il calo della produzione è stato ed è tuttora considerevole: secondo stime sindacali si aggira sui 12-13 per cento e conseguentemente gli impiegati delle industrie ancora non smantellate lavorano al 60% delle loro possibilità, le ore di cassa integrazione (cioè di inattività forzata) pagate ai lavoratori ammontano a 3.627.823 nei primi sette mesi del '75 rispetta 4.526.846 dell'intero '74. Segno indubbio che il quadro complessivo della situazione per quanto riguarda l'occupazione si è notevolmente aggravato. I disoccupati sono numerosissimi - solo 135.754 iscritti nelle liste di collocamento di Napoli - e non si riesce ad avere un quadro complessivo perché molti sono senza lavoro pur senza essere iscritti alle liste di collocamento. Pur considerando comunque questo dato parziale la situazione è allarmante perché se si considera il numero dei cittadini attivi, uno ogni sei è disoccupato ufficialmente. A questi dati si può aggiungere che più del quinto dei giovani in cerca di prima occupazione dell'intero paese è parcheggiato nella provincia di Napoli.
Data questa situazione, derivante dallo strozzamento delle attività produttive imposto selvaggiamente dal governo per cercare di frenare l'inflazione (obiettivo che come ho detto è riuscito solo parzialmente facendo cadere esclusivamente sui lavoratori il peso della crisi) ora che il paese si trova in recessione (e cioè la domanda è inferiore all'offerta) è difficilissimo avviare la ripresa produttiva. E chi paga sono sempre gli sfruttati.

Oscar Corenai

1) La caduta degli investimenti continua, come risulta dalle previsioni del centro studi del ministero della programmazione secondo le quali nel corso del presente hanno globalmente gli investimenti nell'industria subiranno un drastico calo del 20% rispetto al 1974.

2) La gravità della situazione era evidente se uomini di governo e impettiti giornalisti diffondevano l'interessata speranza di un miglioramento della situazione che avrebbe dovuto derivare dalla concessione di prestiti internazionali, ma fatto sintomatico, una volta ottenuti, questi furono impiegati in un tentativo di riequilibrare le partite contabili e non in investimenti per rilanciare l'economia, e quindi l'occupazione, e non farla precipitare nella crisi attuale.

3) cfr. l'Internazionale del 1 febbraio 1975: "Le scuole economiche borghesi di fronte alla crisi del modello capitalistico".

4) I sostenitori della politica keynesiana sostengono che si possa combattere l'inflazione attraverso un contenimento del deficit del bilancio statale mediante una idonea politica fiscale che secondo loro avrebbe come conseguenza una diminuzione del saggio di inflazione attraverso una riduzione della domanda globale provocando per forza di cose una dilagante disoccupazione (i cui postumi stiamo attualmente soffrendo in Italia). La adozione in questi ultimi venti anni di misure di politica economica keynesiana non ha avuto il risultato previsto proprio perché questa dottrina economica è superata e non riesce più a spiegare la realtà economica. Si verifica quindi a tutti livelli una completa inadeguatezza delle terapie anticongiunturali proposte da Keynes nel 1929 e accolte dai suoi seguaci p. es. italiani, i quali a livello governativo hanno proposto, per superare la recessione (domanda inferiore all'offerta) un "pacchetto" di misure anticongiunturali di 400 miliardi che costituisce una tipica politica keynesiana e che già si rivela sulla carta come un intervento parziale e temporaneo finalizzato a tonificare la domanda aggregata e che si ricondurrà nuovamente ad una selvaggia inflazione.