Rivista Anarchica Online
Tempo di crisi
di L.L.
Crisi economica e crisi DC, unitamente all'avanzata comunista, stanno creando nuovi equilibri nelle
strutture di
potere. Lo smaccato collaborazionismo dei sindacati. Nuovi spazi per un'azione rivoluzionaria?
Il perdurare della crisi economica, alla riapertura delle aziende, sta
facendo sentire i suoi effetti. La parentesi
estiva aveva momentaneamente accantonato tutti quei problemi che oggi si ripresentano in tutta la loro
drammaticità. Gli elementi principali sono presto elencati: inflazione, stagnazione della
produzione e degli
investimenti, cassa integrazione, licenziamenti. A questa crisi, ormai cronica e strutturale, che si
protrae con alti e bassi dal 1969, come stanno rispondendo le
forze in campo? Prima di esaminare le iniziative adottate o progettate da imprenditori, sindacati e classe
politica,
è necessario un rapido esame della situazione politica creatasi dopo le elezioni amministrative del
15 giugno. L'elemento di maggior clamore, assieme alla formazione delle giunte di sinistra, è
la crisi della DC. In termini
matematici e percentuali la Democrazia Cristiana non ha avuto quel tracollo che molti si auguravano, ha
subito
si una consistente fuga di voti ma ha recuperato a destra (soprattutto dal P.L.I. e dal P.S.D.I.) quasi
quanto aveva
perduto a sinistra? Quindi il pericolo, apparentemente, è esterno - il P.C.I. - e non
interno. Va precisato però che la DC ha perso il suo primato in molti, moltissimi comuni e
questo l'ha privata, in misura
sensibile, di quel potere locale che è il fertile humus su cui prospera il potere
centrale. Così, all'indomani delle elezioni, i notabili democristiani hanno capito che il loro
predominio è destinato tra breve
a finire, ed è subentrato il panico. Panico manifestatosi appieno all'ultimo Consiglio Nazionale,
caratterizzato da
faide interne che hanno portato il partito al limite del collasso. Situazione curiosa, i più
preoccupati per la crisi
della DC sono i partiti di sinistra che puntano ad un suo ridimensionamento ma che non ritengono
auspicabile
un suo repentino tracollo. Fenomeno questo che innescherebbe processi difficilmente controllabili e che
genererebbe reazioni sia in campo nazionale sia negli "alleati occidentali". Quello che infatti i comunisti
temono
è un improbabile intervento U.S.A. qualora un "governo rosso" assumesse il controllo del Paese.
Non a caso si
parla di un prossimo viaggio negli Stati Uniti di Sergio Segre - il "ministro degli esteri" del PCI - per
tranquillizzare la Casa Bianca sulla "ragionevolezza" dei comunisti italiani. Comunque il PCI al
governo, o nell'area di governo, ci vuole andare perché, come dice Amendola: "vogliamo
prenderci le responsabilità che ci spettano" e perché "per superare la crisi è
necessaria l'entrata del PCI nell'area
di governo". La crisi, come accennavamo prima, è veramente grave. I disoccupati superano
il milione e duecentomila, destinati
tra breve ad aumentare di altre trecentomila unità a cui si aggiungeranno i lavoratori in cassa
integrazione. Inoltre
questo autunno non vedrà quella ripresa produttiva da molti auspicata, mentre il pacchetto
anticongiunturale
approvato verso la metà di agosto non sortirà effetti sensibili così come non ne
hanno sortito i precedenti. Ma,
fatto ancora più sintomatico, la classe dirigente "con questa inerzia - sono sempre parole di
Amendola - rischia
di perdere l'occasione storica offerta dalla classe operaia attraverso l'atteggiamento responsabile dei
sindacati che
hanno espresso la loro volontà di lottare per la riconversione produttiva e di accettare le
priorità". Quindi nemmeno le dichiarazioni di disponibilità dei sindacati nell'accettare
ulteriori aggravi a carico dei
lavoratori (che già stanno sopportando quasi per intero l'onere della crisi) riesce a far uscire la
situazione
economica dall'impasse nella quale si trova. Siamo arrivati al paradosso. I cosiddetti
rappresentanti dei lavoratori (cioè gli sfruttati) vogliono aiutare i padroni
(cioè gli sfruttatori) a perpetuare la loro funzione, vogliono rimetterli in condizione di poter
continuare a sfruttare.
A tutto questo i lavoratori non riescono a dare una risposta adeguata. L'abitudine alla delega li ha
disabituati a
decidere e ad agire in prima persona e i casi di autogestione delle aziende in crisi sono sempre attuati
come
momento strumentale di pressione, più che come modo alternativo di produrre. Qui si apre
un discorso che ci interessa da vicino. Dobbiamo - e la crisi ci dà lo spazio per farlo - ricostruire
la
nostra presenza rivoluzionaria tra ai lavoratori per risvegliare in loro quello spirito libertario pur sempre
presente,
anche se addormentato da oltre mezzo secolo di fascismo prima e di riformismo poi. Nel momento in
cui si
assottigliano i margini di profitto e quindi di manovra, il sindacalismo riformista si presenta ai lavoratori
nella sua
vera veste. Un'occasione che non dobbiamo perdere per sviluppare un processo di alternativa libertaria
nel
movimento dei lavoratori.
L. L.
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