Rivista Anarchica Online
Federconsorzi feudo DC
di R. Brosio
Fondata nel 1892 con fini cooperativistici, la Federconsorzi è stata trasformata sotto il regime
fascista in uno
strumento della politica rurale imposta dal governo - L'insediamento della burocrazia statale ai vertici
della
Federconsorzi è proseguito nel dopoguerra trasformandola progressivamente in un carrozzone
clientelare al
servizio della DC - Qual è il suo potere effettivo attuale?
Abbiamo già avuto occasione di parlare (A 35) delle cooperative,
e di come stiano degenerando (e in molti casi,
siano ormai degenerate) da strumenti di difesa popolare contro le varie forme di sopraffazione economica
e
sociale, in centri di potere che nulla hanno a che fare con gli scopi originari del loro sorgere. In
particolare, si
faceva notare come lo sviluppo notevole, spesso sottovalutato, del movimento cooperativo, invece di
mettere in
crisi lo sfruttamento, come speravano i primi cooperativisti, sia diventato adesso perfettamente
funzionale, sì da
trasformarsi in un cardine del sistema e in un fattore della sua stabilità. Inoltre, proprio questo
sviluppo, questo
crescere di dimensioni e di importanza, tende a snaturare la capacità di controllo dei soci, a
massimizzare il peso
decisionale dei consigli di amministrazione e degli organismi direttivi in genere, e contribuisce al formarsi,
in seno
alle cooperative, di una vera e propria casta dirigenziale, in tutto simile alle tecnoburocrazie statali e
private che
ormai condizionano l'assetto economico-sociale, in Italia come negli altri paesi industrialmente avanzati.
Quanto
più tale casta cresce e prende coscienza di sé, tanto più il movimento cooperativo
tende a confondersi con le altre
strutture economiche proprie del sistema. Viceversa, quanto più il sistema tende ad "usare" la
cooperazione per
i propri fini, tanto più è portato a favorire il consolidamento di tale casta. Le due cose
non sono che diversi aspetti
del medesimo fenomeno. Un esempio tipico, e per alcuni versi macroscopico, di tutto ciò,
è rappresentato in Italia dalla Federazione dei
Consorzi Agrari, meglio nota come Federconsorzi, e assai "chiacchierata" per la sua assoluta e
pressoché
istituzionale dipendenza dalla Democrazia Cristiana, che se ne serve, in stretto collegamento con la
Confederazione dei Coltivatori Diretti e il suo capintesta Bonomi, come fabbrica di voti, centro di
sottogoverno
e manipolazione clientelare, fonte di finanziamento ed altre attività consimili, sempre volta al
consolidamento
della potenza democristiana nel nostro paese. Ma non è questo l'aspetto che più ci
interessa, in questa sede. La
Federconsorzi non è semplicemente uno strumento di partito, ma un vero e proprio organo
dello Stato, cioè una
delle istituzioni attraverso cui la tecnoburocrazia statale esercita il potere e ne gode i privilegi conseguenti.
È così
pesantemente condizionata dalla DC, soltanto perché quest'ultima è ormai giunta a
confondersi, in trent'anni di
governo, con tutte (o quasi) le strutture dello Stato, e ciò ne caratterizza le scelte e l'efficienza,
ma non ne
modifica il ruolo fondamentale. Un po' di storia servirà a convalidare
quest'affermazione. Come si è verificato anche per altre attuali "creature" del partito di
maggioranza relativa (l'IRI, per esempio), la
Federconsorzi non è un'invenzione democristiana. Anzi, i suoi natali "ufficiali" (nel 1892 a
Piacenza) sono
sufficientemente onorevoli: cooperativa di II grado (cioè cooperativa di cooperative), aveva lo
scopo di rendere
più efficace l'azione dei Consorzi Agrari, sorti anch'essi da poco per l'acquisto mutualistico di
attrezzature e
materiali per l'agricoltura. Entrambi, Consorzi Agrari e Federconsorzi, non avevano nessuna caratteristica
di
ufficialità: erano nati spontaneamente, senza l'intervento dello Stato, e riflettevano unicamente
gli interessi degli
associati. Le cose cambiarono con l'avvento del fascismo, che decise di trasformare i Consorzi Agrari
in uno strumento della
propria politica rurale, obbligandoli a riunirsi in un unico organismo per ogni provincia e a sottostare alle
direttive
e al controllo del Ministero dell'Agricoltura. Tali direttive venivano date attraverso la Federconsorzi, che
dal
Ministero dipendeva e a cui i singoli Consorzi erano istituzionalmente (e quindi coattivamente) affiliati.
Essa
diventava così ciò che sarebbe poi rimasta per sempre, un organo dello Stato. La nomina
dei dirigenti e del
personale subalterno, sia nei Consorzi che nella Federazione, veniva sottratta alla volontà degli
associati e
sottomessa al controllo statale. In altri termini, la burocrazia fascista si insediava nel movimento
cooperativo, per
plasmarlo secondo le proprie esigenze. Viceversa, la possibilità di esercitare funzioni tecniche
e direttive che, fino
ad allora, venivano svolte da "privati", era un'ottima occasione per estendere e ramificare il potere statale.
Proprio
come si diceva all'inizio, descrivendo il fenomeno da un punto di vista generale. Con la caduta del
fascismo, la situazione sembrò inizialmente destinata a modificarsi. Lo stesso Bonomi, fin
d'allora presidente della Coldiretti, affermò spesso, negli anni tra il '45 e il '46, che Consorzi
Agrari e
Federconsorzi dovevano "tornare agli agricoltori", ed in particolare che bisognava sfrondarli "dei compiti
che non
sono loro propri e che vennero accollati ad essi in periodo fascista" in modo da "eliminare nella vita dei
Consorzi
e della loro Federazione ogni ingerenza da parte degli organi statali" (Il Coltivatore, 16
ottobre 1945). Ma era
solo fumo negli occhi, spudoratamente gettato dalla Democrazia Cristiana per accaparrarsi le simpatie
degli
agricoltori, che certamente non sarebbero andate a chi avesse proposto apertamente la perpetuazione
dell'impostazione fascista. A tal proposito, non bisogna dimenticare che a quei tempi la DC era ancora
ben
lontana dall'aver "fatto suo" lo Stato italiano e, oltre che con gli altri partiti, doveva fare i conti con le
aspettative
genuine delle masse popolari, sulle quali non aveva ancora steso la sua "alla protettrice". La
spudoratezza con cui Bonomi auspicava un "ritorno alle origini", comunque, era veramente grande.
Infatti,
l'opera di ripristinare le antiche funzioni mutualistiche dei Consorzi e della Federazione presentava
notevoli
difficoltà obiettive, superabili solo da una volontà rivoluzionaria quale i democristiani in
generale, e Bonomi, in
particolare certamente non possedevano. Durante il fascismo, il patrimonio della Federconsorzi e dei
Consorzi
Agrari si era enormemente accresciuto per le funzioni pubbliche che erano state loro affidate dallo Stato,
sì da
far apparire impensabile la sua ridistribuzione ad organismi mutualistici liberati da ogni controllo dall'alto.
Soprattutto, si era accresciuta la schiera di enti, uffici, organizzazioni, collegati o dipendenti in vario
modo da
Consorzi e Federazione, e con essi l'esercito di burocrati, tecnici, quadri intermedi, impiegati ecc.,
preposti al
funzionamento di tutto questo apparato. Ancora, intorno a questa burocrazia "consortile", c'era la rete
gigantesca
di clientele, amicizie, interessi, affari, coinvolgimenti e mafie di vario genere, che il funzionamento
dell'apparato
aveva inevitabilmente prodotto. Si poteva, di punto in bianco, licenziare tutta questa gente, in gran parte
saldamente ammanigliata e ben protetta? Certamente no, e principalmente per la ragione che molti
avrebbero
dovuto licenziare se stessi. Erano ormai un pezzo dello Stato, o meglio un pezzo di quella
tecnoburocrazia statale
che dal fascismo aveva ricevuto una bella fetta di potere che adesso non aveva alcuna intenzione di
cedere. E
d'altronde, a chi avrebbe dovuto cederlo? Le funzioni svolte dalla tecnoburocrazia statale non avevano
perso certo
di importanza, al contrario si presentavano vitali e decisive anche per il nuovo Stato, all'interno del quale
la nuova
classe si apprestava a continuare la propria opera dominatrice. In altri termini Federconsorzi e Consorzi
Agrari
non avevano alcuna possibilità di "tornare alle origini", erano un organo incapace di svolgere la
funzione primitiva
perché ne era stata alterata profondamente la struttura e la composizione. Alterazione derivata
soprattutto dallo
sviluppo della dirigenza tecnoburocratica che ora postulava inevitabilmente, con la sua presenza, il
proseguimento
dell'attività consortile come organo del potere statale. Il 7 maggio 1948, un decreto della
Costituente sancì, nelle sue linee fondamentali, questa continuità, e la sancì,
si badi, col consenso dei rappresentanti comunisti, a dimostrazione del fatto che l'intera faccenda non era
una
semplice operazione di partito, ma un'operazione di Stato: la burocrazia statale che perpetuava se stessa.
In tale
decreto, il principio fascista di un unico Consorzio per ogni provincia viene mantenuto, e così
quello della
dipendenza obbligatoria dalla Federazione nazionale. I dirigenti dei Consorzi sono elettivi ma devono
essere scelti
fra gli iscritti in un albo tenuto dalla Federconsorzi. Inoltre, una volta insediati, i vari consigli di
amministrazione
consortili hanno potere discrezionale per quanto concerne l'ammissione dei soci. Nei collegi sindacali
(cioè gli
organismi che controllano e avallano l'operato dell'amministrazione) sono presenti rappresentanti dei
Ministeri
dell'Agricoltura, del Tesoro e del Lavoro, sia nei singoli Consorzi che nella Federconsorzi, e le varie
deliberazioni
sono sottoposte all'approvazione o al veto dello stesso Ministero dell'Agricoltura. I compiti istituzionali
della
Federazione vengono chiaramente delineati: fra essi viene inserito quello di svolgere attività e
interventi per conto
dello Stato. Infine, per sancire ufficialmente il riconoscimento e l'accettazione di queste norme, al decreto
viene
abbinato uno statuto-tipo per i Consorzi Provinciali e uno per la Federconsorzi, cui gli enti devono
obbligatoriamente uniformarsi. Il risultato è, in pratica, che lo Stato attraverso i suoi ministeri,
indirizza l'azione
della Federazione, ed essa, attraverso i Consorzi Provinciali, la porta fino agli agricoltori. I meccanismi
di
acquisizione dei membri della classe dirigente sono congegnati in modo da permettere l'esclusione del
controllo
diretto da parte degli associati, che cessano così di esercitare la mutualità,
limitandosi a goderne passivamente
i benefici, nei modi e nei sensi predisposti dalla dirigenza. Né più né meno, quello
che avveniva durante il
fascismo. Tutto ciò, abbiamo detto, era stabilito dalla legge nelle sue linee
fondamentali. Cioè, il decreto del 1948
rappresentava un'ossatura, un modello di funzionamento. Spettava agli uomini metterlo in pratica
concretamente,
e gli uomini furono quelli della Democrazia Cristiana. Nel quadro del già citato processo di
"assimilazione" della
maggior parte delle strutture del potere statale, essi si impadronirono dell'organizzazione federconsortile,
facendone una cosa propria, coprendo via via lo scheletro originale col corpo, articolato e complesso,
delle
proprie scelte e delle proprie esigenze, in conformità ai propri modi specifici di esercitare il
potere. Da questo
processo, il cui svolgimento ha costellato di scandali grandi e piccoli le cronache di questi nostri trent'anni
democristiani, è uscita la Federconsorzi così com'è oggi. Vediamone, seppure
a grandi linee, le funzioni. La più nota è quella che potremmo definire "politica",
al servizio della Democrazia Cristiana. La sua estensione
capillare, per tramite dei Consorzi Agrari, la possibilità di venire in contatto quasi quotidiano con
un enorme
numero di persone, le offrono l'opportunità di tessere una rete, fitta e grandiosa, di clientele,
connivenze, rapporti,
che hanno come scopo ultimo quello di produrre una buona parte dei voti che costituiscono la base
indispensabile
per il mantenimento del potere DC nel paese. Ma non è certo questa la funzione più
importante. E d'altronde non
potrebbe esser esercitata se non fosse mantenuto efficiente il ruolo di ente con finalità pubbliche,
che era e rimane
il suo ruolo fondamentale. In altri termini i giochi di potere non avrebbero alcun modo di realizzarsi, se
la
Federconsorzi non gestisse un potere effettivo, da usare come merce di scambio, per produrre i vantaggi
economici, politici, propagandistici, tecnici, ecc., da offrire in pagamento dei favori elettorali. Questo
potere
effettivo è quello che gli deriva dal ruolo di coadiutore della politica economica dello Stato, con
particolare
riferimento al settore dell'agricoltura. I bilanci della Federconsorzi hanno in genere un utile netto
d'esercizio
relativamente modesto se confrontato con le dimensioni dell'organizzazione (poco più di 112
milioni, nel 1973,
ad esempio). Ciononostante presentano una notevole rilevanza le operazioni che essa svolge per conto
dello Stato
(Gestioni importazione cereali, importazione olii e semi oleosi, ammassi nazionali, assistenza, ecc.),
oppure come
intermediaria fra gli agricoltori (attraverso i Consorzi Agrari) e lo Stato (meccanizzazione agricola,
credito, ecc.),
operazioni che non generano utili, ma attestano l'importanza che l'ente riveste come strumento per
l'attuazione
di alcuni obiettivi della programmazione economica. Il valore monetario di tali operazioni raggiunge
sempre
parecchie centinaia di miliardi: solo le Gestioni per conto dello Stato hanno raggiunto, sempre nel 1973,
la cifra
di oltre 200 miliardi. È soprattutto su queste attività che la Federconsorzi basa il suo
potere, ed è soprattutto
grazie ad esse che gestisce la sua rete di intrallazzi: riduzioni di prezzi sui concimi e sulle sementi
concesse ai soli
iscritti alla "bonomiana", parzialità sulle valutazioni dei quantitativi di grano conferiti all'ammasso,
guadagni
illeciti alle spalle degli associati, ecc., ecc., ecc.. Oltre a questi due, esiste un terzo campo d'azione
in cui la Federconsorzi svolge il proprio intervento, ed è quello
della partecipazione azionaria. Di essa, i bilanci danno solo una pallida immagine, e pure è
veramente degna di
nota: moltissime della società di cui la Federconsorzi possiede azioni sono piccole società
di comodo, che
nascondono nel loro portafoglio partecipazioni in altre società, di importanza economica e
politica ben maggiore,
che vengono così ad entrare nell'orbita di influenza della Federconsorzi senza che di ciò
restino tracce
compromettenti nei bilanci. Non annoieremo il lettore riportando un elenco delle società
controllate dalla
Federconsorzi, perché sarebbe un'operazione che porterebbe via troppo tempo. Ernesto Rossi
("La
Federconsorzi", Feltrinelli 1963) dedica a ciò ben 4 pagine della sua relazione, ed avverte
che l'enumerazione
non è completa. Notiamo però, che questa costruzione di un vero e proprio impero
azionario non ha nulla a che
vedere con i compiti "istituzionali" della Federconsorzi, e col suo ruolo di dipendenza dallo Stato. Al
contrario,
spesso con tale dipendenza viene a contrastare, per il conseguente agganciamento ad interessi particolari
di natura
diversa da quelli del potere statale vero e proprio. Ma ciò non deve essere motivo di meraviglia:
è una
testimonianza di più dell'esistenza ormai consolidata, all'interno della Federazione dei Consorzi
Agrari, di una
classe dirigente autonoma, che si muove secondo suoi propri disegni di potere e di controllo. Una
tecnoburocrazia, appunto, che come tutte le tecnoburocrazie del mondo, non mira ad altro che
all'ampliamento
dell'istituzione in cui esercita la propria funzione.
R. Brosio
|