Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 5 nr. 39
maggio 1975


Rivista Anarchica Online

Federconsorzi feudo DC
di R. Brosio

Fondata nel 1892 con fini cooperativistici, la Federconsorzi è stata trasformata sotto il regime fascista in uno strumento della politica rurale imposta dal governo - L'insediamento della burocrazia statale ai vertici della Federconsorzi è proseguito nel dopoguerra trasformandola progressivamente in un carrozzone clientelare al servizio della DC - Qual è il suo potere effettivo attuale?

Abbiamo già avuto occasione di parlare (A 35) delle cooperative, e di come stiano degenerando (e in molti casi, siano ormai degenerate) da strumenti di difesa popolare contro le varie forme di sopraffazione economica e sociale, in centri di potere che nulla hanno a che fare con gli scopi originari del loro sorgere. In particolare, si faceva notare come lo sviluppo notevole, spesso sottovalutato, del movimento cooperativo, invece di mettere in crisi lo sfruttamento, come speravano i primi cooperativisti, sia diventato adesso perfettamente funzionale, sì da trasformarsi in un cardine del sistema e in un fattore della sua stabilità. Inoltre, proprio questo sviluppo, questo crescere di dimensioni e di importanza, tende a snaturare la capacità di controllo dei soci, a massimizzare il peso decisionale dei consigli di amministrazione e degli organismi direttivi in genere, e contribuisce al formarsi, in seno alle cooperative, di una vera e propria casta dirigenziale, in tutto simile alle tecnoburocrazie statali e private che ormai condizionano l'assetto economico-sociale, in Italia come negli altri paesi industrialmente avanzati. Quanto più tale casta cresce e prende coscienza di sé, tanto più il movimento cooperativo tende a confondersi con le altre strutture economiche proprie del sistema. Viceversa, quanto più il sistema tende ad "usare" la cooperazione per i propri fini, tanto più è portato a favorire il consolidamento di tale casta. Le due cose non sono che diversi aspetti del medesimo fenomeno.
Un esempio tipico, e per alcuni versi macroscopico, di tutto ciò, è rappresentato in Italia dalla Federazione dei Consorzi Agrari, meglio nota come Federconsorzi, e assai "chiacchierata" per la sua assoluta e pressoché istituzionale dipendenza dalla Democrazia Cristiana, che se ne serve, in stretto collegamento con la Confederazione dei Coltivatori Diretti e il suo capintesta Bonomi, come fabbrica di voti, centro di sottogoverno e manipolazione clientelare, fonte di finanziamento ed altre attività consimili, sempre volta al consolidamento della potenza democristiana nel nostro paese. Ma non è questo l'aspetto che più ci interessa, in questa sede. La Federconsorzi non è semplicemente uno strumento di partito, ma un vero e proprio organo dello Stato, cioè una delle istituzioni attraverso cui la tecnoburocrazia statale esercita il potere e ne gode i privilegi conseguenti. È così pesantemente condizionata dalla DC, soltanto perché quest'ultima è ormai giunta a confondersi, in trent'anni di governo, con tutte (o quasi) le strutture dello Stato, e ciò ne caratterizza le scelte e l'efficienza, ma non ne modifica il ruolo fondamentale. Un po' di storia servirà a convalidare quest'affermazione.
Come si è verificato anche per altre attuali "creature" del partito di maggioranza relativa (l'IRI, per esempio), la Federconsorzi non è un'invenzione democristiana. Anzi, i suoi natali "ufficiali" (nel 1892 a Piacenza) sono sufficientemente onorevoli: cooperativa di II grado (cioè cooperativa di cooperative), aveva lo scopo di rendere più efficace l'azione dei Consorzi Agrari, sorti anch'essi da poco per l'acquisto mutualistico di attrezzature e materiali per l'agricoltura. Entrambi, Consorzi Agrari e Federconsorzi, non avevano nessuna caratteristica di ufficialità: erano nati spontaneamente, senza l'intervento dello Stato, e riflettevano unicamente gli interessi degli associati.
Le cose cambiarono con l'avvento del fascismo, che decise di trasformare i Consorzi Agrari in uno strumento della propria politica rurale, obbligandoli a riunirsi in un unico organismo per ogni provincia e a sottostare alle direttive e al controllo del Ministero dell'Agricoltura. Tali direttive venivano date attraverso la Federconsorzi, che dal Ministero dipendeva e a cui i singoli Consorzi erano istituzionalmente (e quindi coattivamente) affiliati. Essa diventava così ciò che sarebbe poi rimasta per sempre, un organo dello Stato. La nomina dei dirigenti e del personale subalterno, sia nei Consorzi che nella Federazione, veniva sottratta alla volontà degli associati e sottomessa al controllo statale. In altri termini, la burocrazia fascista si insediava nel movimento cooperativo, per plasmarlo secondo le proprie esigenze. Viceversa, la possibilità di esercitare funzioni tecniche e direttive che, fino ad allora, venivano svolte da "privati", era un'ottima occasione per estendere e ramificare il potere statale. Proprio come si diceva all'inizio, descrivendo il fenomeno da un punto di vista generale.
Con la caduta del fascismo, la situazione sembrò inizialmente destinata a modificarsi. Lo stesso Bonomi, fin d'allora presidente della Coldiretti, affermò spesso, negli anni tra il '45 e il '46, che Consorzi Agrari e Federconsorzi dovevano "tornare agli agricoltori", ed in particolare che bisognava sfrondarli "dei compiti che non sono loro propri e che vennero accollati ad essi in periodo fascista" in modo da "eliminare nella vita dei Consorzi e della loro Federazione ogni ingerenza da parte degli organi statali" (Il Coltivatore, 16 ottobre 1945). Ma era solo fumo negli occhi, spudoratamente gettato dalla Democrazia Cristiana per accaparrarsi le simpatie degli agricoltori, che certamente non sarebbero andate a chi avesse proposto apertamente la perpetuazione dell'impostazione fascista. A tal proposito, non bisogna dimenticare che a quei tempi la DC era ancora ben lontana dall'aver "fatto suo" lo Stato italiano e, oltre che con gli altri partiti, doveva fare i conti con le aspettative genuine delle masse popolari, sulle quali non aveva ancora steso la sua "alla protettrice".
La spudoratezza con cui Bonomi auspicava un "ritorno alle origini", comunque, era veramente grande. Infatti, l'opera di ripristinare le antiche funzioni mutualistiche dei Consorzi e della Federazione presentava notevoli difficoltà obiettive, superabili solo da una volontà rivoluzionaria quale i democristiani in generale, e Bonomi, in particolare certamente non possedevano. Durante il fascismo, il patrimonio della Federconsorzi e dei Consorzi Agrari si era enormemente accresciuto per le funzioni pubbliche che erano state loro affidate dallo Stato, sì da far apparire impensabile la sua ridistribuzione ad organismi mutualistici liberati da ogni controllo dall'alto. Soprattutto, si era accresciuta la schiera di enti, uffici, organizzazioni, collegati o dipendenti in vario modo da Consorzi e Federazione, e con essi l'esercito di burocrati, tecnici, quadri intermedi, impiegati ecc., preposti al funzionamento di tutto questo apparato. Ancora, intorno a questa burocrazia "consortile", c'era la rete gigantesca di clientele, amicizie, interessi, affari, coinvolgimenti e mafie di vario genere, che il funzionamento dell'apparato aveva inevitabilmente prodotto. Si poteva, di punto in bianco, licenziare tutta questa gente, in gran parte saldamente ammanigliata e ben protetta? Certamente no, e principalmente per la ragione che molti avrebbero dovuto licenziare se stessi. Erano ormai un pezzo dello Stato, o meglio un pezzo di quella tecnoburocrazia statale che dal fascismo aveva ricevuto una bella fetta di potere che adesso non aveva alcuna intenzione di cedere. E d'altronde, a chi avrebbe dovuto cederlo? Le funzioni svolte dalla tecnoburocrazia statale non avevano perso certo di importanza, al contrario si presentavano vitali e decisive anche per il nuovo Stato, all'interno del quale la nuova classe si apprestava a continuare la propria opera dominatrice. In altri termini Federconsorzi e Consorzi Agrari non avevano alcuna possibilità di "tornare alle origini", erano un organo incapace di svolgere la funzione primitiva perché ne era stata alterata profondamente la struttura e la composizione. Alterazione derivata soprattutto dallo sviluppo della dirigenza tecnoburocratica che ora postulava inevitabilmente, con la sua presenza, il proseguimento dell'attività consortile come organo del potere statale.
Il 7 maggio 1948, un decreto della Costituente sancì, nelle sue linee fondamentali, questa continuità, e la sancì, si badi, col consenso dei rappresentanti comunisti, a dimostrazione del fatto che l'intera faccenda non era una semplice operazione di partito, ma un'operazione di Stato: la burocrazia statale che perpetuava se stessa. In tale decreto, il principio fascista di un unico Consorzio per ogni provincia viene mantenuto, e così quello della dipendenza obbligatoria dalla Federazione nazionale. I dirigenti dei Consorzi sono elettivi ma devono essere scelti fra gli iscritti in un albo tenuto dalla Federconsorzi. Inoltre, una volta insediati, i vari consigli di amministrazione consortili hanno potere discrezionale per quanto concerne l'ammissione dei soci. Nei collegi sindacali (cioè gli organismi che controllano e avallano l'operato dell'amministrazione) sono presenti rappresentanti dei Ministeri dell'Agricoltura, del Tesoro e del Lavoro, sia nei singoli Consorzi che nella Federconsorzi, e le varie deliberazioni sono sottoposte all'approvazione o al veto dello stesso Ministero dell'Agricoltura. I compiti istituzionali della Federazione vengono chiaramente delineati: fra essi viene inserito quello di svolgere attività e interventi per conto dello Stato. Infine, per sancire ufficialmente il riconoscimento e l'accettazione di queste norme, al decreto viene abbinato uno statuto-tipo per i Consorzi Provinciali e uno per la Federconsorzi, cui gli enti devono obbligatoriamente uniformarsi. Il risultato è, in pratica, che lo Stato attraverso i suoi ministeri, indirizza l'azione della Federazione, ed essa, attraverso i Consorzi Provinciali, la porta fino agli agricoltori. I meccanismi di acquisizione dei membri della classe dirigente sono congegnati in modo da permettere l'esclusione del controllo diretto da parte degli associati, che cessano così di esercitare la mutualità, limitandosi a goderne passivamente i benefici, nei modi e nei sensi predisposti dalla dirigenza. Né più né meno, quello che avveniva durante il fascismo.
Tutto ciò, abbiamo detto, era stabilito dalla legge nelle sue linee fondamentali. Cioè, il decreto del 1948 rappresentava un'ossatura, un modello di funzionamento. Spettava agli uomini metterlo in pratica concretamente, e gli uomini furono quelli della Democrazia Cristiana. Nel quadro del già citato processo di "assimilazione" della maggior parte delle strutture del potere statale, essi si impadronirono dell'organizzazione federconsortile, facendone una cosa propria, coprendo via via lo scheletro originale col corpo, articolato e complesso, delle proprie scelte e delle proprie esigenze, in conformità ai propri modi specifici di esercitare il potere. Da questo processo, il cui svolgimento ha costellato di scandali grandi e piccoli le cronache di questi nostri trent'anni democristiani, è uscita la Federconsorzi così com'è oggi. Vediamone, seppure a grandi linee, le funzioni.
La più nota è quella che potremmo definire "politica", al servizio della Democrazia Cristiana. La sua estensione capillare, per tramite dei Consorzi Agrari, la possibilità di venire in contatto quasi quotidiano con un enorme numero di persone, le offrono l'opportunità di tessere una rete, fitta e grandiosa, di clientele, connivenze, rapporti, che hanno come scopo ultimo quello di produrre una buona parte dei voti che costituiscono la base indispensabile per il mantenimento del potere DC nel paese. Ma non è certo questa la funzione più importante. E d'altronde non potrebbe esser esercitata se non fosse mantenuto efficiente il ruolo di ente con finalità pubbliche, che era e rimane il suo ruolo fondamentale. In altri termini i giochi di potere non avrebbero alcun modo di realizzarsi, se la Federconsorzi non gestisse un potere effettivo, da usare come merce di scambio, per produrre i vantaggi economici, politici, propagandistici, tecnici, ecc., da offrire in pagamento dei favori elettorali. Questo potere effettivo è quello che gli deriva dal ruolo di coadiutore della politica economica dello Stato, con particolare riferimento al settore dell'agricoltura. I bilanci della Federconsorzi hanno in genere un utile netto d'esercizio relativamente modesto se confrontato con le dimensioni dell'organizzazione (poco più di 112 milioni, nel 1973, ad esempio). Ciononostante presentano una notevole rilevanza le operazioni che essa svolge per conto dello Stato (Gestioni importazione cereali, importazione olii e semi oleosi, ammassi nazionali, assistenza, ecc.), oppure come intermediaria fra gli agricoltori (attraverso i Consorzi Agrari) e lo Stato (meccanizzazione agricola, credito, ecc.), operazioni che non generano utili, ma attestano l'importanza che l'ente riveste come strumento per l'attuazione di alcuni obiettivi della programmazione economica. Il valore monetario di tali operazioni raggiunge sempre parecchie centinaia di miliardi: solo le Gestioni per conto dello Stato hanno raggiunto, sempre nel 1973, la cifra di oltre 200 miliardi. È soprattutto su queste attività che la Federconsorzi basa il suo potere, ed è soprattutto grazie ad esse che gestisce la sua rete di intrallazzi: riduzioni di prezzi sui concimi e sulle sementi concesse ai soli iscritti alla "bonomiana", parzialità sulle valutazioni dei quantitativi di grano conferiti all'ammasso, guadagni illeciti alle spalle degli associati, ecc., ecc., ecc..
Oltre a questi due, esiste un terzo campo d'azione in cui la Federconsorzi svolge il proprio intervento, ed è quello della partecipazione azionaria. Di essa, i bilanci danno solo una pallida immagine, e pure è veramente degna di nota: moltissime della società di cui la Federconsorzi possiede azioni sono piccole società di comodo, che nascondono nel loro portafoglio partecipazioni in altre società, di importanza economica e politica ben maggiore, che vengono così ad entrare nell'orbita di influenza della Federconsorzi senza che di ciò restino tracce compromettenti nei bilanci. Non annoieremo il lettore riportando un elenco delle società controllate dalla Federconsorzi, perché sarebbe un'operazione che porterebbe via troppo tempo. Ernesto Rossi ("La Federconsorzi", Feltrinelli 1963) dedica a ciò ben 4 pagine della sua relazione, ed avverte che l'enumerazione non è completa. Notiamo però, che questa costruzione di un vero e proprio impero azionario non ha nulla a che vedere con i compiti "istituzionali" della Federconsorzi, e col suo ruolo di dipendenza dallo Stato. Al contrario, spesso con tale dipendenza viene a contrastare, per il conseguente agganciamento ad interessi particolari di natura diversa da quelli del potere statale vero e proprio. Ma ciò non deve essere motivo di meraviglia: è una testimonianza di più dell'esistenza ormai consolidata, all'interno della Federazione dei Consorzi Agrari, di una classe dirigente autonoma, che si muove secondo suoi propri disegni di potere e di controllo. Una tecnoburocrazia, appunto, che come tutte le tecnoburocrazie del mondo, non mira ad altro che all'ampliamento dell'istituzione in cui esercita la propria funzione.

R. Brosio