Rivista Anarchica Online
Condannato per antifascismo
di P.F.
A colloquio con Belgrado Pedrini. La drammatica vicenda di Pedrini è un caso esemplare
della "giustizia" di Stato.
Pochi giorni dopo la sua uscita dal carcere di Pisa, dopo trent'anni di
galera, ho intervistato Belgrado Pedrini nella
sua città nativa di Carrara, dove si trova grazie ad una "licenza" di 10 giorni, al termine della
quale ha dovuto
ripresentarsi in carcere (la "licenza", per ora, gli è stata rinnovata per un altro breve periodo). Ero
già stato con
lui a colloquio per una mezzoretta nel carcere di Pisa, pochi giorni prima della sua (provvisoria) uscita
e, pur nella
brevità del tempo concessoci e alla presenza dell'immancabile guardia carceraria, avevo avuto
modo di ascoltare
da lui la sua drammatica vicenda. La condanna a trent'anni che ho scontato - mi ha
detto Pedrini nel corso dell'intervista colloquio - è dovuta
a fatti connessi con la mia partecipazione alla lotta clandestina anti-fascista. Nel 1942 insieme con altri
due
compagni di Carrara iniziai la lotta armata contro i fascisti; dopo aver disarmato dei militi fascisti fummo
braccati e pertanto ci trasferimmo un po' a Milano. In un conflitto a fuoco con la polizia (fascista) noi
tre
fummo feriti ed arrestati dai poliziotti (quattro italiani, due tedeschi), uno dei quali però ci
lasciò la vita. Il processo non potè tenersi a causa della guerra e nel
giugno del '44 fummo liberati dai nostri compagni
partigiani che operavano sulle Alpi Apuane: i nostri liberatori erano tutti componenti di una banda
partigiana prettamente anarchica, alla quale ci unimmo immediatamente. Continuammo insieme a lottare
fino alla primavera del '45, accanto alle formazioni di Elio Wockievich, di Ugo Mazzucchelli ed altre
formazioni. All'indomani della "Liberazione" fummo arrestati per rispondere dei reati commessi nel '42,
ritenuti reati comuni. Nel 1949, dopo una lunga peregrinazione di carcere in carcere,
si celebrò alla Corte d'Assise di Livorno il
nostro processo, durante il quale fu accolta con benevolenza la nostra comprovata partecipazione alla
lotta
partigiana. Ma poiché durante il periodo della latitanza, proprio per poter continuare la lotta
armata e la
propaganda clandestina, eravamo stati costretti a sottrarre parte delle grandi ricchezze di alcuni industriali
fascisti di Carrara, Milano e La Spezia, per questa nostra "attività ladresca" fummo tutti e tre
condannati
a trent'anni di carcere. Senza mai scendere nel vittimismo, anzi sempre con la coscienza della
natura politica della persecuzione di cui
è stato vittima, Pedrini mi ha parlato dei trent'anni passati ospite dello Stato democratico nato
dalla Costituzione
antifascista: mi ha detto delle molte amnistie che senza lasciar traccia sono passate sulla sua pelle, mentre
a tanti
altri detenuti le pene venivano di volta in volta sempre più ridotte; nemmeno il condono del
dicembre 1953,
emanato apposta per i partigiani, che avrebbe ridotto a 20 anni la sua condanna, ebbe alcun effetto. I
suoi
trent'anni l'anarchico Pedrini, colpevole di aver lottato concretamente contro il fascismo mentre tanti
"antifascisti" ufficiali se ne stavano nascosti in Vaticano e altrove, i suoi trent'anni Pedrini se li è
fatti tutti. Il fatto
è - afferma - che quando si è fra le mani della Giustizia, soprattutto di
quella con i capelli bianchi, che per
vent'anni ha portato il distintivo fascista ed a spada tratta ha difeso il Regime, soprattutto quando oltre
ad
essere nelle sue mani si è anche anarchici, allora bisogna esser pronti ad affrontare tutta la loro
cattiveria,
tutta la loro ostilità. Pedrini ha scontato la pena dei trent'anni. Anzi, per essere precisi,
ha scontato più di ventinove anni di carcere,
in quanto a pochi mesi dalla fine è stato "graziato" dal Presidente della Repubblica Leone. Al
termine della pena,
però, a Pedrini erano stati affibbiati tre anni di libertà vigilata e questo supplemento di
pena, a discrezione del
Tribunale competente (in questo caso quello di Livorno), può sempre essere trasformato in
permanenza forzata
in una casa di lavoro. Così e successo che, appena graziato, Pedrini è stato trasferito nella
casa di lavoro di
Castelfranco Emilia, per essere poi recluso - sia pure con un trattamento un po' meno rigido di quello
riservato
ai detenuti - nel carcere di Pisa. Può così accadere che una persona, graziata dal capo
dello Stato ormai al termine
della sua pena, rimanga in galera al di là dei termini della pena stessa. Tutto ciò è
avvenuto ed avviene - Pedrini
lo ha sottolineato spesso - nella nostra Italia "antifascista". Al momento in cui la rivista deve
"chiudere" per andare in macchina, sappiamo solo che la "licenza" è stata
rinnovata a Pedrini per un altro brevissimo periodo. Due anni di casa di lavoro (o addirittura di carcere)
pendono
ancora sul capo di questo nostro compagno che ancora oggi sta pagando per la grave colpa di aver lottato
contro
il fascismo. La sua drammatica vicenda umana è un atto di accusa per chi si accinge a celebrare
il trentennale di
quella falsa "Liberazione" che non ci ha liberati né dallo sfruttamento né
dall'oppressione.
P.F.
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