Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 5 nr. 35
gennaio 1975


Rivista Anarchica Online

Cavie in grigioverde
di R. Pernice

Nonostante l'importanza sempre maggiore assunta negli ultimi anni dai mass-media (radio, televisione, cinema, ecc.), il servizio militare conserva la sua funzione di "scuola di vita". Credere, obbedire, combattere: questo può essere considerato il vecchio ma sempre valido motto delle gerarchie militari. In questo articolo un compagno "reduce" dalla naja analizza la spersonalizzazione attuata dalla assurda vita militare tramite un vero e proprio terrorismo psicologico. Dalle reazioni istintive di ribellione alla lotta per l'abolizione di ogni esercito: la funzione dell'antimilitarismo anarchico.

L'esercito è uno dei fondamenti essenziali su cui poggiano gli istituti del potere. L'educazione militare ne costituisce l'ineliminabile organo di produzione. Ogni organismo sociale tende infatti naturalmente alla propria conservazione. Funzione preminente dell'esercito è la riproduzione, ad ogni livello gerarchico, della mentalità autoritaria. Sarà bene intendersi su questo punto. Facendo questa asserzione, voglio riferirmi in modo particolare all'esercito di leva. Le analisi apparse ultimamente sulla nostra stampa, hanno puntualizzato sufficientemente questo concetto di progressiva separazione tra esercito di leva ed esercito professionale, per cui mi sembra superfluo in questa sede, insistere sulla distinzione. Vorrei invece contribuire a sviluppare con questo mio intervento l'analisi delle forme specifiche che la repressione assume nelle caserme, allo scopo di identificarle aprendo la strada a soluzioni alternative. Effettivamente molto è stato scritto allo scopo di chiarire - almeno nelle linee generali - i rapporti tra struttura militare e società autoritaria: lucidamente si è valutato il ruolo dell'esercito nella formazione di coscienze attente ad obbedire passivamente. Si sono tuttavia trascurati quelli che potrei definire i "momenti di produzione" attraverso cui funziona quella mastodontica "fabbrica del consenso" che è l'esercito di leva, molto ben esemplificata nella vignetta del grasso generale che ingoia uomini e defeca soldati.

Il lavaggio del cervello

Dal punto di vista "pedagogico", tutto il servizio militare non consiste altro che in un gigantesco "lavaggio del cervello". Si possono distinguere grosso modo due momenti essenziali tipici contemporaneamente presenti in ogni fase del processo "educativo" e costantemente relazionati tra di loro:
1) la distruzione della personalità creativa (o distruzione a livello individuale dei modelli culturali che il sistema giudica dannosi per la propria sopravvivenza);
2) la costruzione di una personalità "consenziente" (attraverso la imposizione di comportamenti funzionali al sistema autoritario). Premio e punizione rappresentano i metodi attraverso cui i condizionamenti repressivi si consolidano facendo leva sul naturale istinto di conservazione degli individui e sulla primordiale paura dell'autorità. E' uno schema abbastanza semplice, oserei dire "classico". Ogni società autoritaria utilizza a diversi livelli lo stesso meccanismo: basta osservare attentamente le strutture del nostro mondo consumistico per rendersi conto che il funzionamento degli organi di manipolazione della personalità è impostato nello stesso modo: fin dall'infanzia e via via lungo il processo di maturazione dell'individuo, la famigli, la scuola e i cosiddetti "mass-media" sviluppano condizionamenti sempre più pesanti e raffinati, sopprimendo pignolescamente ogni forma di pensiero autonomo e capacità critica che non ricalchi fedelmente l'immagine della società e i suoi modelli di comportamento. Per chi malgrado tutto non si adegua è aperta la strada dei ghetti, le porte delle carceri e manicomi. Ora, in questa luce il servizio militare non è altro che l'ultima occasione "educativa" che il potere ha per piegare i "dissenzienti" ai propri fini. L'esperienza in effetti è unica: la persona viene praticamente cancellata, ridotta come in un carcere ad un numero di matricola priva in assoluto di controllo effettivo su ogni decisione e della possibilità stessa di averne. Ogni contatto attivo, "politico" con la società esterna viene violentemente troncato. Il soldato-bambino-deficiente, completamente isolato dal resto del mondo, dipende interamente dall'ufficiale-padrone-onnipotente, virtualmente disponibile per ogni forma di imposizione.

La cavia e il labirinto

Non si tratta di un paradosso: la tecnocrazia, il volto feudale del potere verso cui tende a scivolare il vecchio capitalismo, offre nelle caserme una anticipata immagine di sé.
Prigioniera del labirinto, la cavia assorbe ad ogni scossa nuove informazioni sull'ambiente che la circonda: così, per prove ed errori, dominata dal terrore della punizione, impara a muoversi nella gabbia con la stessa sicurezza che nel proprio spazio naturale, ricevendo una ricompensa ad ogni risposta esatta. A quel punto paura e tabù, premio e comportamento giusto si assoceranno in un'equazione impedendo al ratto di deviare dalla norma in ogni situazione analoga che gli si presentasse fuori del labirinto anche se, in condizioni diverse, il rispetto della norma significasse la morte.
La storia del goffo elefante nel negozio di cristalli è nota almeno tanto quanto il tatto e le capacità intellettuali delle caste militari del mondo intero (Cile docet). Così, con delicato discernimento, i nostri "pedagoghi" in grigio-verde hanno pensato bene che se la faccenda del labirinto funzionava con le cavie, l'uomo, che tutto sommato è pur sempre un mammifero anche lui, se chiuso in una caserma, si sarebbe pressappoco comportato come un ratto. Partendo dunque dal presupposto che la punizione è un ottimo argomento per far fare alle cavie (e... agli uomini) ciò che allo stato più aggrada, i nostri generali - godendo fino a questo momento di un rapporto di forza (grazie a partiti e sindacati) che non esiterei a degnire dei più favorevoli - si mettono all'opera con premurosa sollecitudine fin dai primi giorni, dispensando a piene mani minacce, blandizie, consegne e regolamenti atti a terrorizzare e uniformare i giovani ratti impreparati e soprattutto disorganizzati.
Non sempre, anzi raramente, si tratta di veri e propri generali stellati e decorati: questo delicato compito di "benvenuto" viene anzi lasciato il più delle volte a giovani ufficiali (di firma o di leva) allo scopo di addolcire l'amara pillola della sottomissione.
Il primo problema che si presenta a questi singolari domatori è quello di spersonalizzare gli individui. La differenza tra i primi giorni in caserma e il mese successivo è, sotto questo aspetto, decisamente impressionante. Appena arrivato è tutto un pullulare multicolore di barbe, capelli, abiti dalle fogge più diverse: le cavie non hanno ancora ricevuto la scossa scioccante che immunizzerà il sistema dalle reazioni spontanee e impreviste. Ci si incontra, si chiacchiera, si studia l'ambiente con relativa lucidità, i gesti non sono controllati, l'obbligatorietà è minima, la critica ancora relativamente libera. Eppure aleggia il sospetto che qualcosa stia per accadere da un momento all'altro. E in effetti qualcosa accade, ma il più delle volte con lentezza: giorno per giorno si affonda nelle sabbie mobili della reazioni quasi senza accorgersi dei mutamenti che si verificano nel comportamento. Il taglio di capelli "d'ordinanza", l'uniforme d'ordinanza, il saluto dovuto al superiore, la tromba che scandisce tutti i momenti essenziali (o che diventano tali) della giornata gli inderogabili orari del rientro, il permesso per uscire un'ora, il permesso per andare al gabinetto durante l'istruzione, il permesso per portare gli occhiali scuri, il permesso per andare fuori presidio, il nulla osta per avere una licenza, il permesso per portare scarpe civili di foggia militare, il permesso di chiedere un permesso... Anche parlare con un vecchio diventa un problema se questo vecchio indossa una uniforme con stelle e torrette: occorre salire lungo una complessa scala gerarchica. Il tenente ti mette a rapporto con il capitano, il capitano con il maggiore, il maggiore col colonnello, il colonnello con... e così via.
L'individuo perde la sua identità, le sue facoltà critiche si annebbiano, ogni diritto si riduce a un permesso, il dovere è unico: obbedire, credere, tacere.
Il punto è che ognuno di questi atti sembra "in sé" poco significativo: in fondo, che importanza può avere salutare un superiore o tenere i capelli corti, oppure perché non chiedere un permesso se questo può evitare fastidi e punizioni? Ora invece è proprio la somma di questi comportamenti che costituisce il condizionamento. Il campo delle scelte prima illimitate, si restringe ad una gamma di gesti codificati (gli unici permessi e dunque possibili) che si attuano di volta in volta selettivamente, in rapporto a situazioni analoghe e tipiche sotto il ferreo controllo di una disciplina interiorizzata, basata unicamente sulla preoccupazione di evitare guai. Le categorie della dipendenza si sostituiscono a quelle della libertà: il super-io, la legge, l'autorità, diventano le uniche strutture psicologiche alla cui ombra è consentito muoversi e agire. A questo punto il fine unico del soggetto è la sopravvivenza "dentro" il sistema, l'imitazione passiva della "massa" è la strada maestra per ottenere lo scopo, ogni atto, ogni pensiero "libero" va regolarmente soppresso al fine di non turbare l'equilibrio mentale faticosamente raggiunto: uomini e ratti si porgono la "zampa" in segno di calda amicizia.

Quali contenuti

Il più è fatto. Cancellata ogni forza di coscienza autonoma, i nostri valenti psichiatri in divisa si accingono all'arduo compito di ricostruire di sana pianta la coscienza dei fanciullini così genialmente ottenuti trasformandoli in uomini "virili" (sic!...).
Tutto comincia con un gioco grottesco: i bambini, tutti in fila, vengono indicati da un graduato; al segnale, il prescelto uscirà fuori del gruppo recitando una incredibile filastrocca comprendente grado-nome-cognome-reggimento-reparto-ecc., invariabilmente seguita dall'invito a essere comandato ("comandi!..."). La scena viene ripetuta fino alla nausea: fino a quando cioè la personalità del soggetto si identifica totalmente col ruolo impostogli. Come se ciò non bastasse, il burattino viene fatto marciare intruppato per chilometri e chilometri in lungo e largo, per giorni interi, finché non sia in grado di eseguire meccanicamente tutti i movimenti che gli vengono insegnati in perfetto sincronismo con tutti gli altri commilitoni. E' un esercizio estenuante che viene ripetuto fino a quando l'insieme non risulti perfetto agli occhi dei superiori. Lentamente il cervello si svuota di ogni idea che non riguardi l'esatta esecuzione dell'ordine. E' una reazione istintiva: il fisico stanco pretende la fine dell'esercizio, ogni errore invece lo prolunga. La mente diviene schiava del comando e su di esso si concentra spasmodicamente. La rabbia si scatena il più delle volte all'interno del gruppo: lo sbaglio del vicino è visto come un ostacolo al necessario riposo. Ogni istintivi gesto di reazione è castrato in partenza dal comportamento ossessivamente ritmico della massa.
Ma ogni sacrificio esige una mistica. A integrare degnamente l'elevato valore pedagogico dei suddetti "lavori forzati", si aggiunge poi una noiosissima sequela di lezioni teoriche banalissime e prive di qualsiasi forma di scientificità che vengono tenute regolarmente ai nuovi arrivati allo scopo di convincerli dell'utilità di quanto sono costretti a fare. Ne emerge il concetto aberrante di una virilità definita come obbedienza passiva a un malinteso "principio di realtà", ove ogni ribellione attiva, ogni forma di pensiero autonomo, è bollato di infantilismo e duramente punito. L'uomo vale la sua capacità di sottomettersi all'organizzazione, nel bambino vi è invece la rivolta irrazionale all'ordine prestabilito, rivolta che l'uomo sa e deve reprimere. La mitologia dell'esercito è tuttavia abbastanza rozza e lascia fortunatamente ancora molto spazio agli acidi corrosivi del ridicolo. E' ridicolo, ad esempio, parlare di "responsabilità" quando ogni scelta è un ordine; allo stesso modo, le tradizionali "vacche sacre", patria, bandiera e gerarchia, hanno subito ad opera dei movimenti giovanili sessantotteschi e delle lotte operaie, attacchi critici di notevole profondità che hanno letteralmente scavato un solco nella coscienza delle nuove generazioni, poco inclini a farsi abbindolare da quel formalismo parolaio di cui si nutre tuttora la casta militare. Per quanto i "teorici" del militarismo (se pure di "teoria" si può qui parlare) insistano sull'argomento, non esiste in realtà alcun motivo ragionevole per mettersi sull'attenti quando passa un individuo con una divisa più variopinta delle altre, né è possibile d'altra parte rintracciare una motivazione logica al comportamento di migliaia di individui che ogni mattina devono immobilizzarsi osservando una stoffa che sale su un'asta al suono di una tromba.
Tutto ciò evidentemente non ha un fine al di fuori di sé. Il contenuto dell'esercito, il suo scopo, la sua funzione altro non sono che la vita dell'esercito stesso come meccanismo di compressione psicologica, cioè fare accettare attraverso l'uso della forza il rispetto delle gerarchie superiori e dei loro privilegi, restringere a volontà i limiti delle libertà concesse e dello sfruttamento imposto, adattare l'individuo ad uno stato di rassegnazione passiva, ad una struttura sociale ove il "signore" (o l'ufficiale) è il padrone assoluto e insindacabile di ogni azione, ad un contesto politico che tende a chiudere progressivamente gli spazi della responsabilità e dell'iniziativa individuale.

Forme istintive di reazione

Bisogna tuttavia aggiungere che, sebbene il quadro dipinto non sia certamente roseo, la situazione non è neppure così pessimistica. Chi entri in una caserma per la prima volta e abbia modo di soffermarvisi senza smarrire il senno (cosa invero problematica) ha infatti la gradevole sensazione che qualcosa - negli sforzi innaturali delle gerarchie militari - non funzioni e che, malgrado tutto, la fantasia umana, l'inventiva, la creatività mantengano, sia pure a livello embrionale, un potenziale esplosivo che attenda solo il momento giusto per rivelarsi eversivamente. Scritte ovunque disseminate inneggiano ai contingenti che stanno per congedarsi, calendari appesi ad ogni parete vengono regolarmente aggiornati dagli "anziani" che contano le ore che li separano dall'alba sospirata in cui lasceranno per sempre le mura di quella che ormai, a livello più o meno cosciente, è diventata agli occhi di tutti una infame prigionia. Giorno e notte - specie in prossimità del congedo - urla fortissime e ormai semidemenziali portano violentemente a galla una somma di energie vitali troppo spesso e a lungo compresse, ricordando a tutti ossessivamente che la fine è ormai vicina. Con sempre maggiore frequenza, i "nonni" (cioè i soldati con maggiore anzianità e quindi prossimi al congedo) cominciano a sfidare (sia pur timidamente) quei regolamenti che per lunghi mesi li hanno inchiodati ad una disciplina obbligata.
L'impressione comune che si ricava è quella di trovarsi in un gigantesco manicomio popolato da schizofrenici dalla doppia personalità. Ad un comportamento apparentemente ossequioso si sostituisce improvvisamente, a balzi imprevisti, un rifiuto collerico della realtà militare, quali che siano le idee e gli orientamenti politici di ciascuno: si allarga a dismisura il diaframma fra ciò che si è e quello che si è costretti a fare, tra il pensiero e l'azione.
Fuori, nella società "civile" tutto questo esiste indubbiamente, ma il gioco del sistema è più sottile, più subdolo. Qui invece l'alienazione assume contorni precisi, dettagliati e non è più possibile ignorare la differenza tra sé e il potere, tra sfruttati e sfruttatori, tra oppressi e oppressori.
La reazione "umana" al meccanismo assume a volte forme deteriori. Gli "anziani" ad esempio tendono a ridurre modelli di comportamento gerarchici più o meno coscientemente assorbiti durante i primi mesi, nel duplice tentativo di alleggerire l'oppressione ormai insopportabile e di scaricare sulle "reclute" la rabbia accumulata durante lunghi mesi di naja. Così facendo essi tendono ad identificarsi con le strutture di potere che contemporaneamente sono costretti a subire, imitando passivamente i modi dei quadri intermedi (tenenti di leva, sottufficiali etc...). In altri casi subentra invece la rassegnazione, l'attesa passiva del congedo, il masochismo oppure anche un malinteso senso di solidarietà che si esprime nel voler fare ciò che l'altro non riesce o non vuole fare senza alcun motivo reale per farlo, senza altra conseguenza oggettiva che un collaborazionismo cieco e inutile nei confronti della struttura repressiva. Il tutto in un concetto decisamente maniacale ove nessuno crede veramente in quello che fa, ove ognuno cerca di fare il meno possibile, ove tutti si muovono come automi in un labirinto senza perché, cercando ogni giorno la via per uscirne.

Per un antimilitarismo rivoluzionario

La domanda che ci si pone a questo punto, viste e valutate le considerazioni precedenti, è la seguente: che cosa vuol dire oggi antimilitarismo? Quali prospettive di lavoro concreto si aprono alle organizzazioni rivoluzionarie e ai militanti che intendono agire attivamente contro questo stato di cose? Siamo ben lontani dal''ingenuo entusiasmo sessantottesco che immaginava giorno dopo giorno l'insorgere continuo di combattive cellule di "proletari in divisa" pronte ad unirsi - novella armata rossa - contro la cadente borghesia capitalistica. Il movimento di massa che aveva incoraggiato tante speranze si è da tempo arenato sulle secche del rivendicazionismo sindacale, della politica dell'aumento, dei giochi di potere di una sempre meno improbabile "repubblica conciliare". L'esercito è parte pulsante e attiva della società, qualunque essa sia. Ogni forma di insurrezione armata che non sia la diretta espressione di un avanzato momento di scontro tra sfruttati e sfruttatori è destinata inevitabilmente ad abortire o a risolversi in un autoritario colpo di Stato che nulla modifica nella sostanza, sottolineando al massimo l'ascesa di una nuova classe dirigente. D'altra parte, gesti isolati ed "esemplari" che pure nel passato contribuirono a dare un impulso estremamente significativo alle lotte antimilitariste, come quello di Augusto Masetti, sarebbero oggi condannati al silenzio ed alla repressione più dura non trovando respiro, incoraggiamento, spinta - come invece accadde allora - in un vasto fronte di lotte popolari e capaci di sostenerne il valore fino in fondo.
Non sembra affatto convincente nemmeno l'attuale orientamento dei "gruppi extraparlamentari". Da un esagitato avventurismo guerrigliero - generato probabilmente da una sommaria analisi della "contestazione" operaia e studentesca - costoro sono passati nello spazio di pochi mesi ad un "codismo" quantomeno sorprendente (naturalmente per chi a tali sorprese non è abituato) nei confronti della sinistra istituzionale, non avendo di meglio da proporre che tutta una serie di zuccherini per far stare i soldati un po' meno peggio dentro le caserme (ma... pur sempre "dentro").
Che senso ha ad esempio, la proposta di un aumento quantitativo delle licenze e la garanzia di una loro concessione sistematica quando sappiamo benissimo che esse servono unicamente a scaricare tensioni altrimenti insopportabili? In che modo la leva "regionale" (ciascuno fa il soldato a casa propria) altererebbe seriamente il rapporto gerarchico tra superiore e soggetto? Quali organismi di controllo paritetico (tra strutture militari e civili) offrirebbero - se pur accolti - autentiche garanzie di partecipazione popolare critica e attiva alla gestione delle decisioni senza risolversi in una farsa diretta dall'altro dietro lo schermo di un'apparente democraticità? Quale logico sbocco può avere la proposta di un esercito di leva volontario o la riduzione della ferma se non quello di gonfiare pericolosamente le componenti più rigide e reazionarie dell'organizzazione militare? Modifica i termini essenziali del rapporto autoritario la lotta per nuove mense, orari di lavoro meno pesanti, salari più alti?
L'impressione generale che si ricava è che tali obiettivi non servano ad altro che a "ringiovanire" le sclerotiche strutture portanti dell'esercito, inserendole in un nuovo contesto repressivo-avanzato ove lo sfruttato tende ad essere sempre di più l'artefice del proprio sfruttamento.
Tutto questo s'inserisce infatti perfettamente nella logica delle più moderne socialdemocrazie e corrisponde ad una configurazione aziendale ove l'operaio diventa progressivamente azionista del complesso ove lavora ma si rivela sempre più irresponsabile nei confronti delle scelte "manageriali", ad un modello sociale ove quanto più aumenta la partecipazione formale delle classi subalterne alla direzione della società, tanto più decrescono le capacità delle stesse di intervenire attivamente nelle decisioni che le coinvolgono concentrandosi invece tali capacità e conoscenze nelle mani di un numero sempre più ristretto di "eletti".
L'esercito non può e non deve restare - in questa prospettiva - un'isola nei confronti della società in trasformazione. Specie nell'attuale contesto politico, un esercito abbandonato a se stesso potrebbe diventare un utile strumento di potere nelle mani di forze economiche retrive, decise ad ostacolare in ogni modo l'ascesa della "nuova classe" tecnoburocratica che minaccia seriamente la loro sopravvivenza. Ecco quindi l'utilità di "aprire" l'esercito al popolo (o meglio, ai suoi rappresentanti "illuminati"), di sottolineare la realtà repubblicana, l'attaccamento mistico agli ideali della resistenza, il legame con le forze vive e mature della società (leggi i sindacati) e a volte persino la sua gloriosa tradizione... antifascista (sic!...). Nella lotta tra due re - insegna la storia - vince quasi sempre (e, alla lunga, sempre) quello che meglio riesce a trarre in inganno la maggior parte del popolo coinvolgendo nei propri disegni con promesse più o meno realistiche di doni e benessere per tutti. Le proposte dei "gruppi", strettamente legati al gran carro del riformismo marxista, sembrano non avere alcuna funzione che quella di "sedurre" questo grosso animale diffidente (per ottusità dei suoi generali) che è l'esercito, attraverso due operazioni fondamentali:
1) accrescerne la funzionalità eliminando alcune contraddizioni che impediscono ai militari di leva di responsabilizzarsi nei suoi confronti (cioè a dire, nei confronti del proprio sfruttamento);
2) aumentare la "permeabilità" politica, attirandolo verso una significativa inversione di tendenza, capace di modificare profondamente certi rapporti di forza sociali attualmente favorevoli ai nuovi padroni.
Senza alcun dubbio tutto ciò è molto "attraente" nei confronti di chi, chiuso tra le mura di una caserma, a centinaia di chilometri da casa, praticamente isolato e soggetto a tutti i capricci dei superiori, nella quasi più totale ignoranza dei regolamenti e dei loro limiti, ha finito ormai per dimenticare il significato stesso della parola libertà, confondendola forse con quel simulacro di falsa democrazia che continua ad essere la nostra società civile. In tali condizioni è facile che il progetto riformatore suoni come tromba di riscossa tra le pareti anguste della camerata anche se poi si tratta in fondo della stessa musica.
La realtà è ben diversa: lo stato non muta la sua natura violenta camuffando tale violenza o affidando gli strumenti di tortura; l'esercito non altera la sua funzione di "fabbrica del consenso" rendendo l'adattamento meno duro. Non esistono eserciti "migliori": il ritmo di marcia dei tamburi accompagna l'insolente tracotanza del potere nel cortile delle nostre caserme come in Mozambico, a Leningrado come a West Point, a Madrid come a Pechino; tra generali e soldati passa dovunque l'identica linea di demarcazione che distingue da sempre il macellaio dalle docili e tenere costolette d'agnello.
Agli oppressi, agli sfruttati di sempre, a coloro cui né ieri, né oggi è e sarà dato di gestire l'organizzazione economica e politica della società se non attraverso un atto cosciente e collettivo di espropriazione e abolizione del potere (qualunque esso sia), si presenta ancora una volta il vecchio quesito: che fare? Come intervenire originalmente in questo duello tra giganti senza cadere nei rozzi tranelli della reazione, né in quelli viscidi e seducenti della nuova classe dirigente? Quali obiettivi, quali strategie intermedie possono coerentemente inserirsi lungo il progetto di una liberazione reale?
L'esercito - abbiamo visto - è in gran parte una scuola di adattamento ed obbedienza, una scuola fondata sulla paura e il rifiuto della critica. Non c'è alcuna ragione numerica (i "coscritti" son quantitativamente superiori - e di molto - al numero di ufficiali e sottufficiali) o di superiorità intellettuale (lo scarto culturale tra ufficiali e truppa tende continuamente a ridursi in rapporto allo sviluppo della scolarizzazione) che giustifichi la paura, oltre ad un singolare stato di impotenza collettiva, di isolamento, generato da una ingiustificata sfiducia nelle possibilità di auto-organizzazione.
Allo stesso modo non si può spiegare diversamente il senso di apatia intellettuale che lentamente ma inesorabilmente s'impadronisce della mente.
Alla paura corrisponde da sempre l'assenza di una organizzazione alternativa, alla negazione del pensiero corrisponde un livello di politicizzazione praticamente nullo, l'alienante disperazione di non poter tradurre in atti le proprie idee.
Le due cose sono a loro volta strettamente connesse: lo sviluppo della analisi tende inesorabilmente alla sperimentazione pratica - nella lotta - delle strategie formulate, al confronto, al dibattito e, da qui, alla costruzione di una organizzazione capace a sua volta di alimentare costantemente e arricchire di nuovi spunti l'analisi.

Fuori della caserma

Ciò va fatto dentro ma anche e soprattutto fuori della caserma: i contingenti si avvicendano e d'altro canto, con le nuove proposte di legge in materia, si tende a ridurre obbligatoriamente l'età di partenza. Il fine è evidente: quello di cogliere i giovani in un momento di minore maturità intellettuale e culturale allo scopo di plasmarli più facilmente. Un contro-intervento capillare consentirebbe di immettere - da un lato - nelle caserme individui coscienti della realtà che stanno per affrontare (e dunque preparati a forme autonome di organizzazione) e dall'altro di far fallire in partenza questi progetti di autentico "terrorismo psicologico" che lo stato prepara per le nuove leve.
In questo modo - quali che siano i risultati delle eventuali lotte specifiche - sarà se non altro possibile strappare centinaia di individui ad un cupo periodo di passività intellettuale, tenendo continuamente viva la critica al sistema e arricchendola magari di nuovi spunti, vanificando una delle fondamentali funzioni della "ferma" così trasformata in una gigantesca polveriera nella società autoritaria. Si tratta in definitiva di impedire l'identificazione degli sfruttati col ruolo loro imposto, di rifiutare tale ruolo attraverso un atto personale e deliberato capace di restituire l'individuo alla propria dimensione umana, naturalmente antagonista nei confronti di qualsiasi imposizione. E' inoltre a partire da questo tipo di intervento che è possibile la nascita e lo sviluppo di forme di lotta e di organizzazioni relativamente stabili, di orientamento antimilitarista, lungo una direzione che abbia come meta la conquista di spazi politici sempre più ampi (magari attraverso l'utilizzazione di strumenti già esistenti in molte caserme, come "l'adunata-assemblea" tra truppa e ufficiali) e la negazione dell'autorità.
In questa luce, anche il perseguimento di obiettivi di natura "riformista" può servire da trampolino di lancio per lotte sul terreno rivoluzionario. Non è cioè tanto rilevante ciò per cui si lotta (naturalmente entro certi limiti), quanto piuttosto il metodo che reca implicito il suo fine.
C'è ad esempio un autentico salto di qualità tra una lotta per mense migliori condotta sul terreno legalitario attraverso petizioni, trattative al vertice etc. e una condotta invece mediante "azioni dirette", organizzate, decise e portate avanti in prima persona dagli stessi interessati. L'obiettivo è il medesimo, ma mentre nel primo caso non muta l'atteggiamento servile e rassegnato di chi implora graziose concessioni riconoscendo il potere e la sua autorità, nel secondo caso questo stesso potere, questa stessa autorità, vengono negate con un atto cosciente e collettivo che reclama imperiosamente i propri diritti.
E' estremamente importante tuttavia che tali sforzi non restino isolati; il militarismo è un cancro della società e sul piano sociale va quindi affrontato: la propaganda, la demistificazione, la lotta all'apparato militare, per dare risultati apprezzabili devono necessariamente coinvolgere le classi subalterne, devono far leva su contraddizioni reali, quotidianamente presenti nella vita dei coscritti e dei loro familiari, allo scopo di ricomporre un vasto fronte popolare che spezzi una volta per tutte l'artificiosa barriera tra sfruttati "dentro" e "fuori" le caserme.
Il problema non è infatti quello di sostituire un esercito con un altro di segno opposto: il problema degli sfruttati è quello di abolire lo sfruttamento, il problema degli oppressi è quello di eliminare l'oppressione. Lottare contro l'esercito come centro di condizionamenti repressivi significa lottare per la sua abolizione.

R. Pernice