Rivista Anarchica Online
Cavie in grigioverde
di R. Pernice
Nonostante l'importanza sempre maggiore assunta negli ultimi anni dai mass-media (radio, televisione,
cinema,
ecc.), il servizio militare conserva la sua funzione di "scuola di vita". Credere, obbedire, combattere:
questo può
essere considerato il vecchio ma sempre valido motto delle gerarchie militari. In questo articolo un
compagno
"reduce" dalla naja analizza la spersonalizzazione attuata dalla assurda vita militare tramite un vero e
proprio
terrorismo psicologico. Dalle reazioni istintive di ribellione alla lotta per l'abolizione di ogni esercito: la
funzione
dell'antimilitarismo anarchico.
L'esercito è uno dei fondamenti essenziali su cui poggiano gli
istituti del potere. L'educazione militare ne
costituisce l'ineliminabile organo di produzione. Ogni organismo sociale tende infatti naturalmente alla
propria
conservazione. Funzione preminente dell'esercito è la riproduzione, ad ogni livello gerarchico,
della mentalità
autoritaria. Sarà bene intendersi su questo punto. Facendo questa asserzione, voglio riferirmi in
modo particolare
all'esercito di leva. Le analisi apparse ultimamente sulla nostra stampa, hanno puntualizzato
sufficientemente
questo concetto di progressiva separazione tra esercito di leva ed esercito professionale, per cui mi
sembra
superfluo in questa sede, insistere sulla distinzione. Vorrei invece contribuire a sviluppare con questo mio
intervento l'analisi delle forme specifiche che la repressione assume nelle caserme, allo scopo di
identificarle
aprendo la strada a soluzioni alternative. Effettivamente molto è stato scritto allo scopo di chiarire
- almeno nelle
linee generali - i rapporti tra struttura militare e società autoritaria: lucidamente si è
valutato il ruolo dell'esercito
nella formazione di coscienze attente ad obbedire passivamente. Si sono tuttavia trascurati quelli che
potrei
definire i "momenti di produzione" attraverso cui funziona quella mastodontica "fabbrica del consenso"
che è
l'esercito di leva, molto ben esemplificata nella vignetta del grasso generale che ingoia uomini e defeca
soldati.
Il lavaggio del
cervello
Dal punto di vista "pedagogico", tutto il servizio militare non
consiste altro che in un gigantesco "lavaggio del
cervello". Si possono distinguere grosso modo due momenti essenziali tipici contemporaneamente
presenti in ogni
fase del processo "educativo" e costantemente relazionati tra di loro: 1) la distruzione della personalità creativa (o
distruzione a livello individuale dei modelli culturali che il sistema
giudica dannosi per la propria sopravvivenza); 2)
la costruzione di una personalità "consenziente" (attraverso la imposizione di
comportamenti funzionali al
sistema autoritario). Premio e punizione rappresentano i metodi attraverso cui i condizionamenti
repressivi si
consolidano facendo leva sul naturale istinto di conservazione degli individui e sulla primordiale paura
dell'autorità. E' uno schema abbastanza semplice, oserei dire "classico". Ogni società
autoritaria utilizza a diversi
livelli lo stesso meccanismo: basta osservare attentamente le strutture del nostro mondo consumistico per
rendersi
conto che il funzionamento degli organi di manipolazione della personalità è impostato
nello stesso modo: fin
dall'infanzia e via via lungo il processo di maturazione dell'individuo, la famigli, la scuola e i cosiddetti
"mass-media" sviluppano condizionamenti sempre più pesanti e raffinati, sopprimendo
pignolescamente ogni forma di
pensiero autonomo e capacità critica che non ricalchi fedelmente l'immagine della società
e i suoi modelli di
comportamento. Per chi malgrado tutto non si adegua è aperta la strada dei ghetti, le porte delle
carceri e
manicomi. Ora, in questa luce il servizio militare non è altro che l'ultima occasione "educativa"
che il potere ha
per piegare i "dissenzienti" ai propri fini. L'esperienza in effetti è unica: la persona viene
praticamente cancellata,
ridotta come in un carcere ad un numero di matricola priva in assoluto di controllo effettivo su ogni
decisione e
della possibilità stessa di averne. Ogni contatto attivo, "politico" con la società esterna
viene violentemente
troncato. Il soldato-bambino-deficiente, completamente isolato dal resto del mondo, dipende interamente
dall'ufficiale-padrone-onnipotente, virtualmente disponibile per ogni forma di
imposizione.
La cavia e il
labirinto
Non si tratta di un paradosso: la tecnocrazia, il volto feudale
del potere verso cui tende a scivolare il vecchio
capitalismo, offre nelle caserme una anticipata immagine di sé. Prigioniera del labirinto, la cavia assorbe ad ogni scossa nuove
informazioni sull'ambiente che la circonda: così,
per prove ed errori, dominata dal terrore della punizione, impara a muoversi nella gabbia con la stessa
sicurezza
che nel proprio spazio naturale, ricevendo una ricompensa ad ogni risposta esatta. A quel punto paura
e tabù,
premio e comportamento giusto si assoceranno in un'equazione impedendo al ratto di deviare dalla norma
in ogni
situazione analoga che gli si presentasse fuori del labirinto anche se, in condizioni diverse, il rispetto della
norma
significasse la morte. La storia del goffo elefante
nel negozio di cristalli è nota almeno tanto quanto il tatto e le capacità intellettuali
delle caste militari del mondo intero (Cile docet). Così, con delicato discernimento, i nostri
"pedagoghi" in grigio-verde hanno pensato bene che se la faccenda del labirinto funzionava con le cavie,
l'uomo, che tutto sommato
è pur sempre un mammifero anche lui, se chiuso in una caserma, si sarebbe pressappoco
comportato come un
ratto. Partendo dunque dal presupposto che la punizione è un ottimo argomento per far fare alle
cavie (e... agli
uomini) ciò che allo stato più aggrada, i nostri generali - godendo fino a questo momento
di un rapporto di forza
(grazie a partiti e sindacati) che non esiterei a degnire dei più favorevoli - si mettono all'opera con
premurosa
sollecitudine fin dai primi giorni, dispensando a piene mani minacce, blandizie, consegne e regolamenti
atti a
terrorizzare e uniformare i giovani ratti impreparati e soprattutto disorganizzati. Non sempre, anzi raramente, si tratta di veri e propri generali stellati e
decorati: questo delicato compito di
"benvenuto" viene anzi lasciato il più delle volte a giovani ufficiali (di firma o di leva) allo scopo
di addolcire
l'amara pillola della sottomissione. Il primo
problema che si presenta a questi singolari domatori è quello di spersonalizzare gli individui. La
differenza tra i primi giorni in caserma e il mese successivo è, sotto questo aspetto, decisamente
impressionante.
Appena arrivato è tutto un pullulare multicolore di barbe, capelli, abiti dalle fogge più
diverse: le cavie non hanno
ancora ricevuto la scossa scioccante che immunizzerà il sistema dalle reazioni spontanee e
impreviste. Ci si
incontra, si chiacchiera, si studia l'ambiente con relativa lucidità, i gesti non sono controllati,
l'obbligatorietà è
minima, la critica ancora relativamente libera. Eppure aleggia il sospetto che qualcosa stia per accadere
da un
momento all'altro. E in effetti qualcosa accade, ma il più delle volte con lentezza: giorno per
giorno si affonda
nelle sabbie mobili della reazioni quasi senza accorgersi dei mutamenti che si verificano nel
comportamento. Il
taglio di capelli "d'ordinanza", l'uniforme d'ordinanza, il saluto dovuto al superiore, la tromba che
scandisce tutti
i momenti essenziali (o che diventano tali) della giornata gli inderogabili orari del rientro, il permesso per
uscire
un'ora, il permesso per andare al gabinetto durante l'istruzione, il permesso per portare gli occhiali scuri,
il
permesso per andare fuori presidio, il nulla osta per avere una licenza, il permesso per portare scarpe
civili di
foggia militare, il permesso di chiedere un permesso... Anche parlare con un vecchio
diventa un problema se
questo vecchio indossa una uniforme con stelle e torrette: occorre salire lungo una
complessa scala gerarchica.
Il tenente ti mette a rapporto con il capitano, il capitano con il maggiore, il maggiore col colonnello, il
colonnello
con... e così via. L'individuo perde la sua
identità, le sue facoltà critiche si annebbiano, ogni diritto si riduce a un permesso, il
dovere è unico: obbedire, credere, tacere. Il punto è che ognuno di questi atti sembra "in sé" poco significativo: in fondo,
che importanza può avere salutare
un superiore o tenere i capelli corti, oppure perché non chiedere un permesso se questo
può evitare fastidi e
punizioni? Ora invece è proprio la somma di questi comportamenti che costituisce il
condizionamento. Il campo
delle scelte prima illimitate, si restringe ad una gamma di gesti codificati (gli unici permessi e dunque
possibili)
che si attuano di volta in volta selettivamente, in rapporto a situazioni analoghe e tipiche sotto il ferreo
controllo
di una disciplina interiorizzata, basata unicamente sulla preoccupazione di evitare guai. Le categorie della
dipendenza si sostituiscono a quelle della libertà: il super-io, la legge, l'autorità, diventano
le uniche strutture
psicologiche alla cui ombra è consentito muoversi e agire. A questo punto il fine unico del
soggetto è la
sopravvivenza "dentro" il sistema, l'imitazione passiva della "massa" è la strada maestra per
ottenere lo scopo,
ogni atto, ogni pensiero "libero" va regolarmente soppresso al fine di non turbare l'equilibrio mentale
faticosamente raggiunto: uomini e ratti si porgono la "zampa" in segno di calda amicizia.
Quali contenuti
Il più è fatto. Cancellata ogni forza di
coscienza autonoma, i nostri valenti psichiatri in divisa si accingono
all'arduo compito di ricostruire di sana pianta la coscienza dei fanciullini così genialmente ottenuti
trasformandoli
in uomini "virili" (sic!...). Tutto comincia con un
gioco grottesco: i bambini, tutti in fila, vengono indicati da un graduato; al segnale, il
prescelto uscirà fuori del gruppo recitando una incredibile filastrocca comprendente
grado-nome-cognome-reggimento-reparto-ecc., invariabilmente seguita dall'invito a essere comandato
("comandi!..."). La scena viene
ripetuta fino alla nausea: fino a quando cioè la personalità del soggetto si identifica
totalmente col ruolo
impostogli. Come se ciò non bastasse, il burattino viene fatto marciare intruppato per chilometri
e chilometri in
lungo e largo, per giorni interi, finché non sia in grado di eseguire meccanicamente tutti i
movimenti che gli
vengono insegnati in perfetto sincronismo con tutti gli altri commilitoni. E' un esercizio estenuante che
viene
ripetuto fino a quando l'insieme non risulti perfetto agli occhi dei superiori. Lentamente il cervello si
svuota di
ogni idea che non riguardi l'esatta esecuzione dell'ordine. E' una reazione istintiva: il fisico stanco
pretende la
fine dell'esercizio, ogni errore invece lo prolunga. La mente diviene schiava del comando e su di esso si
concentra
spasmodicamente. La rabbia si scatena il più delle volte all'interno del gruppo: lo sbaglio del
vicino è visto come
un ostacolo al necessario riposo. Ogni istintivi gesto di reazione è castrato in partenza dal
comportamento
ossessivamente ritmico della massa. Ma ogni
sacrificio esige una mistica. A integrare degnamente l'elevato valore pedagogico dei suddetti "lavori
forzati", si aggiunge poi una noiosissima sequela di lezioni teoriche banalissime e prive di qualsiasi forma
di
scientificità che vengono tenute regolarmente ai nuovi arrivati allo scopo di convincerli
dell'utilità di quanto sono
costretti a fare. Ne emerge il concetto aberrante di una virilità definita come obbedienza passiva
a un malinteso
"principio di realtà", ove ogni ribellione attiva, ogni forma di pensiero autonomo, è
bollato di infantilismo e
duramente punito. L'uomo vale la sua capacità di sottomettersi all'organizzazione, nel bambino
vi è invece la
rivolta irrazionale all'ordine prestabilito, rivolta che l'uomo sa e deve reprimere. La mitologia dell'esercito
è
tuttavia abbastanza rozza e lascia fortunatamente ancora molto spazio agli acidi corrosivi del ridicolo. E'
ridicolo,
ad esempio, parlare di "responsabilità" quando ogni scelta è un ordine; allo stesso modo,
le tradizionali "vacche
sacre", patria, bandiera e gerarchia, hanno subito ad opera dei movimenti giovanili sessantotteschi e delle
lotte
operaie, attacchi critici di notevole profondità che hanno letteralmente scavato un solco nella
coscienza delle
nuove generazioni, poco inclini a farsi abbindolare da quel formalismo parolaio di cui si nutre tuttora la
casta
militare. Per quanto i "teorici" del militarismo (se pure di "teoria" si può qui parlare) insistano
sull'argomento,
non esiste in realtà alcun motivo ragionevole per mettersi sull'attenti quando passa un individuo
con una divisa
più variopinta delle altre, né è possibile d'altra parte rintracciare una motivazione
logica al comportamento di
migliaia di individui che ogni mattina devono immobilizzarsi osservando una stoffa che sale su un'asta
al suono
di una tromba. Tutto ciò evidentemente
non ha un fine al di fuori di sé. Il contenuto dell'esercito, il suo scopo, la sua funzione
altro non sono che la vita dell'esercito stesso come meccanismo di compressione psicologica, cioè
fare accettare
attraverso l'uso della forza il rispetto delle gerarchie superiori e dei loro privilegi, restringere a
volontà i limiti
delle libertà concesse e dello sfruttamento imposto, adattare l'individuo ad uno stato di
rassegnazione passiva,
ad una struttura sociale ove il "signore" (o l'ufficiale) è il padrone assoluto e insindacabile di ogni
azione, ad un
contesto politico che tende a chiudere progressivamente gli spazi della responsabilità e
dell'iniziativa individuale.
Forme istintive di
reazione
Bisogna tuttavia aggiungere che, sebbene il quadro dipinto
non sia certamente roseo, la situazione non è neppure
così pessimistica. Chi entri in una caserma per la prima volta e abbia modo di soffermarvisi senza
smarrire il senno
(cosa invero problematica) ha infatti la gradevole sensazione che qualcosa - negli sforzi innaturali delle
gerarchie
militari - non funzioni e che, malgrado tutto, la fantasia umana, l'inventiva, la creatività
mantengano, sia pure a
livello embrionale, un potenziale esplosivo che attenda solo il momento giusto per rivelarsi eversivamente.
Scritte
ovunque disseminate inneggiano ai contingenti che stanno per congedarsi, calendari appesi ad ogni parete
vengono
regolarmente aggiornati dagli "anziani" che contano le ore che li separano dall'alba sospirata in cui
lasceranno
per sempre le mura di quella che ormai, a livello più o meno cosciente, è diventata agli
occhi di tutti una infame
prigionia. Giorno e notte - specie in prossimità del congedo - urla fortissime e ormai
semidemenziali portano
violentemente a galla una somma di energie vitali troppo spesso e a lungo compresse, ricordando a tutti
ossessivamente che la fine è ormai vicina. Con sempre maggiore frequenza, i "nonni"
(cioè i soldati con maggiore
anzianità e quindi prossimi al congedo) cominciano a sfidare (sia pur timidamente) quei
regolamenti che per
lunghi mesi li hanno inchiodati ad una disciplina obbligata. L'impressione comune che si ricava è quella di trovarsi in un gigantesco manicomio
popolato da schizofrenici
dalla doppia personalità. Ad un comportamento apparentemente ossequioso si sostituisce
improvvisamente, a
balzi imprevisti, un rifiuto collerico della realtà militare, quali che siano le idee e gli orientamenti
politici di
ciascuno: si allarga a dismisura il diaframma fra ciò che si è e quello che si è
costretti a fare, tra il pensiero e
l'azione. Fuori, nella società "civile" tutto
questo esiste indubbiamente, ma il gioco del sistema è più sottile, più subdolo.
Qui invece l'alienazione assume contorni precisi, dettagliati e non è più possibile ignorare
la differenza tra sé e
il potere, tra sfruttati e sfruttatori, tra oppressi e oppressori. La reazione "umana" al meccanismo assume a volte forme deteriori. Gli "anziani" ad esempio
tendono a ridurre
modelli di comportamento gerarchici più o meno coscientemente assorbiti durante i primi mesi,
nel duplice
tentativo di alleggerire l'oppressione ormai insopportabile e di scaricare sulle "reclute" la rabbia
accumulata
durante lunghi mesi di naja. Così facendo essi tendono ad identificarsi con le strutture di potere
che
contemporaneamente sono costretti a subire, imitando passivamente i modi dei quadri intermedi (tenenti
di leva,
sottufficiali etc...). In altri casi subentra invece la rassegnazione, l'attesa passiva del congedo, il
masochismo
oppure anche un malinteso senso di solidarietà che si esprime nel voler fare ciò che l'altro
non riesce o non vuole
fare senza alcun motivo reale per farlo, senza altra conseguenza oggettiva che un collaborazionismo cieco
e inutile
nei confronti della struttura repressiva. Il tutto in un concetto decisamente maniacale ove nessuno crede
veramente in quello che fa, ove ognuno cerca di fare il meno possibile, ove tutti si muovono come automi
in un
labirinto senza perché, cercando ogni giorno la via per uscirne.
Per un antimilitarismo
rivoluzionario
La domanda che ci si pone a questo punto, viste e valutate
le considerazioni precedenti, è la seguente: che cosa
vuol dire oggi antimilitarismo? Quali prospettive di lavoro concreto si aprono alle organizzazioni
rivoluzionarie
e ai militanti che intendono agire attivamente contro questo stato di cose? Siamo ben lontani dal''ingenuo
entusiasmo sessantottesco che immaginava giorno dopo giorno l'insorgere continuo di combattive cellule
di
"proletari in divisa" pronte ad unirsi - novella armata rossa - contro la cadente borghesia capitalistica. Il
movimento di massa che aveva incoraggiato tante speranze si è da tempo arenato sulle secche
del
rivendicazionismo sindacale, della politica dell'aumento, dei giochi di potere di una sempre meno
improbabile
"repubblica conciliare". L'esercito è parte pulsante e attiva della società, qualunque essa
sia. Ogni forma di
insurrezione armata che non sia la diretta espressione di un avanzato momento di scontro tra sfruttati e
sfruttatori
è destinata inevitabilmente ad abortire o a risolversi in un autoritario colpo di Stato che nulla
modifica nella
sostanza, sottolineando al massimo l'ascesa di una nuova classe dirigente. D'altra parte, gesti isolati ed
"esemplari" che pure nel passato contribuirono a dare un impulso estremamente significativo alle lotte
antimilitariste, come quello di Augusto Masetti, sarebbero oggi condannati al silenzio ed alla repressione
più dura
non trovando respiro, incoraggiamento, spinta - come invece accadde allora - in un vasto fronte di lotte
popolari
e capaci di sostenerne il valore fino in fondo. Non
sembra affatto convincente nemmeno l'attuale orientamento dei "gruppi extraparlamentari". Da un
esagitato
avventurismo guerrigliero - generato probabilmente da una sommaria analisi della "contestazione" operaia
e
studentesca - costoro sono passati nello spazio di pochi mesi ad un "codismo" quantomeno sorprendente
(naturalmente per chi a tali sorprese non è abituato) nei confronti della sinistra istituzionale, non
avendo di meglio
da proporre che tutta una serie di zuccherini per far stare i soldati un po' meno peggio dentro le caserme
(ma...
pur sempre "dentro"). Che senso ha ad esempio,
la proposta di un aumento quantitativo delle licenze e la garanzia di una loro
concessione sistematica quando sappiamo benissimo che esse servono unicamente a scaricare tensioni
altrimenti
insopportabili? In che modo la leva "regionale" (ciascuno fa il soldato a casa propria) altererebbe
seriamente il
rapporto gerarchico tra superiore e soggetto? Quali organismi di controllo paritetico (tra strutture militari
e civili)
offrirebbero - se pur accolti - autentiche garanzie di partecipazione popolare critica e attiva alla gestione
delle
decisioni senza risolversi in una farsa diretta dall'altro dietro lo schermo di un'apparente
democraticità? Quale
logico sbocco può avere la proposta di un esercito di leva volontario o la riduzione della ferma
se non quello di
gonfiare pericolosamente le componenti più rigide e reazionarie dell'organizzazione militare?
Modifica i termini
essenziali del rapporto autoritario la lotta per nuove mense, orari di lavoro meno pesanti, salari
più alti? L'impressione generale che si
ricava è che tali obiettivi non servano ad altro che a "ringiovanire" le sclerotiche
strutture portanti dell'esercito, inserendole in un nuovo contesto repressivo-avanzato ove lo sfruttato
tende ad
essere sempre di più l'artefice del proprio sfruttamento. Tutto questo s'inserisce infatti perfettamente nella logica delle più moderne
socialdemocrazie e corrisponde ad
una configurazione aziendale ove l'operaio diventa progressivamente azionista del complesso ove lavora
ma si
rivela sempre più irresponsabile nei confronti delle scelte "manageriali", ad un modello sociale
ove quanto più
aumenta la partecipazione formale delle classi subalterne alla direzione della società, tanto
più decrescono le
capacità delle stesse di intervenire attivamente nelle decisioni che le coinvolgono concentrandosi
invece tali
capacità e conoscenze nelle mani di un numero sempre più ristretto di
"eletti". L'esercito non può e non deve
restare - in questa prospettiva - un'isola nei confronti della società in
trasformazione. Specie nell'attuale contesto politico, un esercito abbandonato a se stesso potrebbe
diventare un
utile strumento di potere nelle mani di forze economiche retrive, decise ad ostacolare in ogni modo
l'ascesa della
"nuova classe" tecnoburocratica che minaccia seriamente la loro sopravvivenza. Ecco quindi
l'utilità di "aprire"
l'esercito al popolo (o meglio, ai suoi rappresentanti "illuminati"), di sottolineare la realtà
repubblicana,
l'attaccamento mistico agli ideali della resistenza, il legame con le forze vive e mature della
società (leggi i
sindacati) e a volte persino la sua gloriosa tradizione... antifascista (sic!...). Nella lotta tra due re - insegna
la storia
- vince quasi sempre (e, alla lunga, sempre) quello che meglio riesce a trarre in inganno la maggior parte
del
popolo coinvolgendo nei propri disegni con promesse più o meno realistiche di doni e benessere
per tutti. Le
proposte dei "gruppi", strettamente legati al gran carro del riformismo marxista, sembrano non avere
alcuna
funzione che quella di "sedurre" questo grosso animale diffidente (per ottusità dei suoi generali)
che è l'esercito,
attraverso due operazioni fondamentali: 1)
accrescerne la funzionalità eliminando alcune contraddizioni che impediscono ai militari di leva
di
responsabilizzarsi nei suoi confronti (cioè a dire, nei confronti del proprio
sfruttamento); 2) aumentare la
"permeabilità" politica, attirandolo verso una significativa inversione di tendenza, capace di
modificare profondamente certi rapporti di forza sociali attualmente favorevoli ai nuovi
padroni. Senza alcun dubbio tutto ciò
è molto "attraente" nei confronti di chi, chiuso tra le mura di una caserma, a
centinaia di chilometri da casa, praticamente isolato e soggetto a tutti i capricci dei superiori, nella quasi
più totale
ignoranza dei regolamenti e dei loro limiti, ha finito ormai per dimenticare il significato stesso della parola
libertà,
confondendola forse con quel simulacro di falsa democrazia che continua ad essere la nostra
società civile. In tali
condizioni è facile che il progetto riformatore suoni come tromba di riscossa tra le pareti anguste
della camerata
anche se poi si tratta in fondo della stessa musica. La realtà è ben diversa: lo stato non muta la sua natura violenta camuffando
tale violenza o affidando gli strumenti
di tortura; l'esercito non altera la sua funzione di "fabbrica del consenso" rendendo l'adattamento meno
duro.
Non esistono eserciti "migliori": il ritmo di marcia dei tamburi accompagna l'insolente tracotanza del
potere nel
cortile delle nostre caserme come in Mozambico, a Leningrado come a West Point, a Madrid come a
Pechino;
tra generali e soldati passa dovunque l'identica linea di demarcazione che distingue da sempre il macellaio
dalle
docili e tenere costolette d'agnello. Agli oppressi,
agli sfruttati di sempre, a coloro cui né ieri, né oggi è e sarà dato di
gestire l'organizzazione
economica e politica della società se non attraverso un atto cosciente e collettivo di
espropriazione e abolizione
del potere (qualunque esso sia), si presenta ancora una volta il vecchio quesito: che fare? Come
intervenire
originalmente in questo duello tra giganti senza cadere nei rozzi tranelli della reazione, né in quelli
viscidi e
seducenti della nuova classe dirigente? Quali obiettivi, quali strategie intermedie possono coerentemente
inserirsi
lungo il progetto di una liberazione reale? L'esercito - abbiamo visto - è in gran parte una scuola di adattamento ed obbedienza,
una scuola fondata sulla
paura e il rifiuto della critica. Non c'è alcuna ragione numerica (i "coscritti" son quantitativamente
superiori - e
di molto - al numero di ufficiali e sottufficiali) o di superiorità intellettuale (lo scarto culturale tra
ufficiali e
truppa tende continuamente a ridursi in rapporto allo sviluppo della scolarizzazione) che giustifichi la
paura, oltre
ad un singolare stato di impotenza collettiva, di isolamento, generato da una ingiustificata sfiducia nelle
possibilità
di auto-organizzazione. Allo stesso modo non si
può spiegare diversamente il senso di apatia intellettuale che lentamente ma
inesorabilmente s'impadronisce della mente. Alla
paura corrisponde da sempre l'assenza di una organizzazione alternativa, alla negazione del pensiero
corrisponde un livello di politicizzazione praticamente nullo, l'alienante disperazione di non poter tradurre
in
atti le proprie idee. Le due cose sono a loro volta
strettamente connesse: lo sviluppo della analisi tende inesorabilmente alla
sperimentazione pratica - nella lotta - delle strategie formulate, al confronto, al dibattito e, da qui, alla
costruzione di una organizzazione capace a sua volta di alimentare costantemente e arricchire di nuovi
spunti
l'analisi.
Fuori della caserma
Ciò va fatto dentro ma anche e soprattutto fuori della
caserma: i contingenti si avvicendano e d'altro canto, con
le nuove proposte di legge in materia, si tende a ridurre obbligatoriamente l'età di partenza. Il fine
è evidente:
quello di cogliere i giovani in un momento di minore maturità intellettuale e culturale allo scopo
di plasmarli più
facilmente. Un contro-intervento capillare consentirebbe di immettere - da un lato - nelle caserme
individui
coscienti della realtà che stanno per affrontare (e dunque preparati a forme autonome di
organizzazione) e
dall'altro di far fallire in partenza questi progetti di autentico "terrorismo psicologico" che lo stato prepara
per
le nuove leve. In questo modo - quali che siano
i risultati delle eventuali lotte specifiche - sarà se non altro possibile strappare
centinaia di individui ad un cupo periodo di passività intellettuale, tenendo continuamente viva
la critica al
sistema e arricchendola magari di nuovi spunti, vanificando una delle fondamentali funzioni della "ferma"
così
trasformata in una gigantesca polveriera nella società autoritaria. Si tratta in definitiva di impedire
l'identificazione
degli sfruttati col ruolo loro imposto, di rifiutare tale ruolo attraverso un atto personale e deliberato
capace di
restituire l'individuo alla propria dimensione umana, naturalmente antagonista nei confronti di qualsiasi
imposizione. E' inoltre a partire da questo tipo di intervento che è possibile la nascita e lo
sviluppo di forme di
lotta e di organizzazioni relativamente stabili, di orientamento antimilitarista, lungo una direzione che
abbia come
meta la conquista di spazi politici sempre più ampi (magari attraverso l'utilizzazione di strumenti
già esistenti in
molte caserme, come "l'adunata-assemblea" tra truppa e ufficiali) e la negazione
dell'autorità. In questa luce, anche il
perseguimento di obiettivi di natura "riformista" può servire da trampolino di lancio per
lotte sul terreno rivoluzionario. Non è cioè tanto rilevante ciò per cui si lotta
(naturalmente entro certi limiti),
quanto piuttosto il metodo che reca implicito il suo fine. C'è ad esempio un autentico salto di qualità tra una lotta per mense migliori
condotta sul terreno legalitario
attraverso petizioni, trattative al vertice etc. e una condotta invece mediante "azioni dirette", organizzate,
decise
e portate avanti in prima persona dagli stessi interessati. L'obiettivo è il medesimo, ma mentre
nel primo caso non
muta l'atteggiamento servile e rassegnato di chi implora graziose concessioni riconoscendo il potere e la
sua
autorità, nel secondo caso questo stesso potere, questa stessa autorità, vengono negate
con un atto cosciente e
collettivo che reclama imperiosamente i propri diritti. E' estremamente importante tuttavia che tali sforzi non restino isolati; il militarismo è
un cancro della società e
sul piano sociale va quindi affrontato: la propaganda, la demistificazione, la lotta all'apparato militare,
per dare
risultati apprezzabili devono necessariamente coinvolgere le classi subalterne, devono far leva su
contraddizioni
reali, quotidianamente presenti nella vita dei coscritti e dei loro familiari, allo scopo di ricomporre un
vasto fronte
popolare che spezzi una volta per tutte l'artificiosa barriera tra sfruttati "dentro" e "fuori" le
caserme. Il problema non è infatti quello
di sostituire un esercito con un altro di segno opposto: il problema degli sfruttati
è quello di abolire lo sfruttamento, il problema degli oppressi è quello di eliminare
l'oppressione. Lottare contro
l'esercito come centro di condizionamenti repressivi significa lottare per la sua abolizione.
R. Pernice
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