Rivista Anarchica Online
I "terroni" di Agnelli
di R. Brosio
Rabbia e integrazione dei proletari immigrati nei ghetti torinesi
Quando un pugliese, o un campano, o un calabrese, arriva a Torino in
cerca di lavoro, il primo shock che è
costretto a subire dal contatto con la città industriale, è la perdita della propria
identità individuale: egli cessa di
essera Salvatore Cacace o Antonio Pappalardo, come era stato fino a poco prima, e diventa qualcosa
di molto
meno preciso (per lui), di vago, di indeterminato, diventa semplicemente "un meridionale".
Improvvisamente
scopre di essere riconosciuti dagli altri per elementi a cui prima non dava alcun senso, il linguaggio,
l'aspetto, il
suono del proprio nome, cose che in precedenza non gli erano mai sembrati caratteri di
differenziazione. Viceversa, si accorge che quello che lui reputa importante per definire la propria
personalità, non viene tenuto
in considerazione. Carattere, gusti, inclinazioni, sono come coperti dalla cappa della nuova
identità che gli viene
attribuita. Passerà parecchio tempo, prima che possa ritornare ad essere Salvatore Cacace o
Antonio Pappalardo,
e non sarà più lo stesso Salvatore Cacace o Antonio Pappalardo di prima. Nel frattempo
dovrà accontentarsi di
essere semplicemente "un meridionale". Cioè un nessuno, un essere quasi indifferenziato, con
cui,
indipendentemente dalla presenza o meno di pregiudizi sul suo conto, non si può stabilire un
contatto né avere
rapporti approfonditi. Prima ancora dell'ostilità vera e propria (e anche in assenza di essa)
è questa mancanza di
comunicazione che rende il sopravvivere nella grande città un problema non solo economico,
ma etnico e razziale. Il discorso, significativamente, non riguarda (se non in misura assai minore) i
meridionali colti, destinati ad attività
intellettuali per i quali l'origine regionale è ben presto solo una qualità accessoria, e non
l'unico mezzo di
identificazione. Riguarda invece i fogli della miseria e del sottosviluppo, costretti a scegliere tra lo
sfruttamento
mal pagato di caso loro e quello un po' meglio retribuito della città sconosciuta e ostile. Per
costoro il cammino
verso l'integrazione è lungo, penoso, umiliante, e non sempre conduce al risultato
sperato. Con questa realtà, l'immigrato deve fare i conti con quasi tutti i centri industriali del
Nord, ma a Torino deve farli
in modo particolare. Qui, probabilmente per la presenza di un unico centro propulsore (la FIAT), che
condiziona
da solo tutta la vita produttiva della città, il processo di inserimento è
più standardizzato, più uniforme, e quindi
più crudele, meno capace di adattarsi alle diverse situazioni individuali. Per contro, la violenza
fatta alle persone
è più evidente che altrove. Noi cercheremo di descrivere il meccanismo di questa
violenza, per capire quale prezzo
la città esige dai nuovi arrivati per accettarli e cosa da loro in cambio. Per capire cioè,
quale razza di identità verrà
restituita a Cacace e Pappalardo, allorché cesseranno di essere solo dei "meridionali".
Schematizzando, si può
dire che l'esistenza degli immigrati povere a Torino attraversa tre fasi fondamentali, che sono
contemporaneamente tre momenti della storia dell'immigrazione, dagli anni '50 ad oggi, tre diversi livelli,
tuttora
presenti, di integrazione, e, per molti, tre stadi obbligati del processo di inserimento individuale. In altri
termini,
da quando è iniziato l'afflusso della mano d'opera dal Sud, il tipo di "accoglienza" (case, lavori,
ecc.) offerta
dalla città è venuto modificandosi, parallelamente alle modificazioni delle esigenze dello
sviluppo industriale e
quindi di quello urbano. Nonostante ciò, i tre momenti di quest'evoluzione permangono
ancora, nel senso che il nuovo non ha mai
cancellato il vecchio, dimodochè ancor oggi esistono a Torino meridionali che stanno vivendo
il primo, il
secondo, o il terzo di questi momenti (a parte le sfumature e le differenze tra caso e caso) e molte
persone, oltre
che quasi ogni famiglia, hanno dovuto percorrerli tutti prima di arrivare al punto in cui sono attualmente.
Inoltre,
a questi tre stadi corrisponde una localizzazione topologica molto precisa: gli appartenenti all'uno o
all'altro
gruppo vivono in ambienti ben distinti, omogenei al loro interno ma senza comunicazione tra sé,
dal cui esame
si possono ottenere ulteriori indicazioni circa i modi tenuti dalla città per accogliere e integrare
questi suoi nuovi
"figli". Per comodità di esposizione, converrà partire proprio da quest'ultimo
aspetto. La prima localizzazione topografica della comunità meridionale a Torino è
rappresentata da quello normalmente
definito come "centro storico" della città, inteso nel suo significato più ampio: le case
vecchie e malsane (cortili
angusti, ballatoi, lenzuola stese) intorno a Porta Palazzo, tra questa e Piazza Castello, dall'una e dall'altra
parte
di via Po, intorno a via Garibaldi. E' un vero e proprio ghetto, che ormai i piemontesi
hanno abbandonato come
luogo di abitazione e che stanno abbandonando anche come luogo di lavoro. Esso è stato lasciato
all'insediamento degli immigrati e, negli anni '50, ha rappresentato per essi l'unica possibilità di
sistemazione
offerta dalla città, quindi il primo stadio della stratificazione "socio-razziale". Questa
caratteristica, di lasciare
al meridionale la casa che il torinese non vuole più, si riscontra anche negli altri esempi, che
faremo in seguito,
della topografia dell'immigrazione a Torino. Il caso del centro storico, però, è il
più drammatico, oltre che per
l'estrema miseria di condizioni offerta in cambio della residenza, anche per la precarietà
economica che ad essa
si accompagna. I torinesi hanno lasciato ai nuovi immigrati non solo le case che non volevano
più, ma anche, man
mano che potevano accede ad occupazioni più redditizie o più sicure, le funzioni
lavorative che rifiutavano:
impieghi saltuari, piccoli commerci, attività d'artigianato, eccetera. Funzioni che vennero raccolte
dai primi
immigrati, arrivati a Torino alla disperata negli anni del boom, senza certezze, senza aiuto,
senza esperienza.
Funzioni che vengono ancora svolte da chi continua ad arrivare in tali condizioni, e sulle quali si
è innestato, a
causa della precarietà di cui si diceva, quel giro di traffici illegali o semi-illegali (contrabbando,
prostituzione,
ricettazione) che fa lanciare fulmini alla stampa benestante sulla presunta delinquenza dei meridionali.
In realtà,
all'immigrato che capita a Torino senza la prospettiva concreta di un lavoro o senza l'aiuto di un parente
già
sistemato, la città continua ad offrire solo questo: un buco nel centro storico e
l'opportunità di finire in galera,
il ghetto e la sottoccupazione. Il meridionale che riesce a sfuggire alla stratificazione del centro
storico, o quello che ha la fortuna di non doverci
passare, ha di fronte a sé un'altra destinazione obbligata: i paesi della cintura cittadina, che ormai
confinano
direttamente e si confondono con l'estrema periferia, Orbassano, Grugliasco, Beinasco, S. Mauro,
eccetera. Anche
qui il processo di insediamento è cominciato in concomitanza con l'abbandono di questi centri
da parte dei vecchi
abitanti piemontesi. Essi sono ex-borghi agricoli, dove l'esodo rurale ha creato le condizioni necessarie
per
trasformarli nei nuovi ghetti verso cui convogliare il "flusso" proveniente dal Sud. Questo processo
avviene grosso
modo negli anni '60, ed è il secondo stadio di sviluppo dell'accoglienza che Torino ha riservato
agli immigrati.
Per molti è anche il secondo gradino della scala verso l'integrazione individuale. Per molti, il
primo. Per quasi
tutti, comunque, anche l'ultimo, nel senso che il terzo stadio, di cui parleremo più avanti,
è riservato a pochi eletti
e non si configura ancora come un'esperienza generalizzabile. All'inizio, si sono "aperte"
all'immigrazione solo le vecchie case abbandonate dai piemontesi trasferiti in città,
ambienti poco diversi da quelli del centro storico. In seguito i paesi sono stati letteralmente assaliti dalla
speculazione edilizia e in pochi anni si sono trasformati in fitti agglomerati di case, in spregio a qualunque
piano
regolatore e al benché minimo criterio urbanistico, senza che crescessero proporzionalmente
anche i servizi
sociali, le scuole, gli asili, gli ospedali: solo case, immensi dormitori, pressoché spopolati durante
le ore di lavoro,
destinati ad accogliere la mano d'opera che, ad ore fisse, si smista nelle fabbriche all'intorno. Tutto
ciò è stato
facilitato dalla scarsa resistenza che le amministrazioni dei piccoli comuni sono in grado di opporre alla
rete di
favori, clientele, amicizie interessate, intessuta dalla speculazione. Inoltre è stato
pressoché postulato dallo
sviluppo industriale, dalla miriade di aziende grandi e piccole che occupano, nella cintura cittadina, gli
spazi
lasciati liberi dalle case, che hanno potuto espandersi e crescere negli anni '60 proprio sfruttando il lavoro
degli
immigrati. In altri termini, l'accesso dei meridionali alla grande città è stato organizzato,
di fatto, su misura dello
sviluppo industriale, in funzione unicamente di esso. Quando la crescita delle aziende ha creato i primi
nuovi posti
di lavoro, e questi sono stati "coperti" con le riserve dei sotto- e disoccupati piemontesi (o dei contadini
inurbati),
ai meridionali sono stati offerti i lavori precari abbandonati da costoro e le catapecchie del centro storico.
Quando
la mano d'opera piemontese non è stata più sufficiente a far fronte alle necessità
dell'industrializzazione, i nuovi
posti di lavoro sono stati offerti ai meridionali, ma al prezzo dell'isolamento nei dormitori della cintura.
Questo,
beninteso, non è avvenuto sulla base di un piano coscientemente predisposto: ciononostante
è avvenuto, perché
il sistema non è capace, strutturalmente, di elevare le condizioni di alcuni dei suoi sudditi senza
mettere altri
disgraziati al loro posto, in una continua stratificazione dello sfruttamento e del privilegio. Il risultato,
comunque, per i provenienti dal Sud è, sia nel centro storico che nei paesi della cintura,
l'emarginazione, cioè la perdita della propria identità individuale, come si accennava in
apertura. Anzi,
paradossalmente, questo processo di disidentificazione è più avanzato nel secondo caso
che non nel primo, come
se la città non possa concedere la maggior "sicurezza" di un lavoro stabile e inquadrato ai nuovi
arrivati, se non
ricevendo in cambio da essi la piena disponibilità a lasciarsi plasmare senza reagire. Proprio
nei paesi della cintura, infatti, quell'insieme vago di caratteristiche superficiali che, agli occhi del
piemontese, contraddistingueva l'immigrato, diventa una realtà concreta. La convivenza
annulla le differenze di accento e di linguaggio delle varie provenienze regionali, la distanza da
casa fa dimenticare le tradizioni d'origine, le abitudini, prese tutte dentro il medesimo ingranaggio
lavoro-riposo-lavoro, si livellano, mentre l'isolamento impedisce ogni osmosi di linguaggio, tradizioni e
abitudini da parte dei
vecchi abitanti della città. La fabbrica, per parte sua plasma e rende uniformi le
personalità. Qui l'identità
personale non è semplicemente negata, non riconosciuta: è persa, nel senso quasi letterale
del termine. Vivere
significa recitare una serie di atti stereotipati, indipendenti dalle inclinazioni e dall'adesione degli individui,
senza
radici culturali e senza vere possibilità di scelta. Le persone parlano allo stesso modo, si
comportano allo stesso
modo, passano nello stesso modo il tempo libero, hanno spesso gli stessi problemi e li risolvono nella
stessa
maniera. Non sono piemontesi, ma non sono nemmeno più lucani, calabresi, pugliesi. Sono
"meridionali" e basta, proprio
come appaiono negli occhi differenti dei subalpini. Terroni a Torino, una nuova razza umana creata dalla
città
industriale su misura per le proprie esigenze produttive. Il quadro non è certamente piacevole
e forse qualcuno si risentirà (specie se "parte in causa") a vederlo così
impietosamente rappresentato. Ma è la realtà, a dispetto della fierezza regionale o del
savoir faire. Anzi, a
confronto di quella del centro storico, questa è quasi certamente la situazione più
generalizzata, quella in cui si
trova la maggior parte dei cittadini immigrati. Il centro storico, comunque, continua ad esistere, essendo
un'ottima
"sala di aspetto" per i nuovi arrivati, una specie di palestra dove la città allena gli immigrati a
diventare così come
li vuole. Nello stesso tempio funziona da monito per quanti sono al gradino superiore, avvertendo chi
avesse grilli
per la testa che c'è di peggio dei dormitori della cintura, c'è un inferno in cui si
può sempre finire per non aver
accettato il purgatorio. Però, accanto all'inferno, c'è anche il paradiso, e sempre per
far apparire sopportabile il purgatorio. E' il terzo
stadio del processo di integrazione, l'ultimo gradino, il premio finale per chi ha sopportato in silenzio i
due stadi
precedenti. A differenza di questi ultimi, la collocazione topografica che gli corrisponde non ha una
delimitazione
così precisa. Gli immigrati del terzo stadio non vivono in un unico quartiere, o in "riserve" fatte
solo per loro, ma
sono mescolati agli altri cittadini torinesi in quella periferia, estrema o no, che sta diventando la residenza
di
quanti non appartengono a ceti particolarmente abbienti. Anche qui, però, il luogo d'abitazione
ha un particolare
significato. Il fatto che vivano con "altri", cioè con persone che non portano sulla fronte il
marchio del luogo d'origine, è il
sintomo che anch'essi hanno perso questo marchio, e ormai sono accettati come individui e non come
"meridionali". E' il sintomo della riconquista dell'identità personale. E' il sintomo dell'avvenuta
integrazione. Presentata così, la cosa può sembrare un successo, anche se pagato
caro. Ma alcune considerazioni la riporteranno
alle sue reali dimensioni. La trafila penosa che ognuno ha dovuto percorrere, o l'effetto esemplare
della trafila percorsa da altri, lascia il
segno. Abituati ad essere considerati cittadini di seconda classe in quanto meridionali, gli
integrati fanno di tutto,
adesso che è loro concesso, per scrollarsi di dosso questa qualifica, per camuffarsi, per risultare
diversi da quello
che sono e che temono possa estrometterli dalla posizione raggiunta. Il processo di disidentificazione,
così,
continua, e spesso con la collaborazione cosciente dell'interessato. Salvatore Cacace e Antonio
Pappalardo sono
tornati ad essere individui, e non indistintamente razza, eppure non sono
ancora se stessi, probabilmente non
lo saranno più. Ancora una volta, al posto della propria personalità c'è un
cliché precostituito: quello del buon
cittadino, ansioso di assorbire quanto l'ambiente vorrà comunicargli, non avito di quello che gli
verrà negato, che
accetta senza discutere le regole del nuovo "status" cui gli è stato concesso il privilegio di
accedere. Un elemento d'ordine, insomma. Agli abitanti del centro storico si chiede di fare i lavori
odiosi che i torinesi non
vogliono più fare. A quelli della cintura di sopportare il peso dell'industrializzazione. Agli integrati
della periferia
cittadina di lasciarsi condizionare senza ribellione. In cambio, ai primi si regala la residenza, e basta. Ai
secondi
il salario, e basta. A questi, si regala l'eguaglianza: l'uguaglianza di lasciarsi sfruttare come gli altri, e la
soddisfazione di sentirsi qualcuno per questo. E basta.
R. Brosio
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