Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 4 nr. 29
maggio 1974


Rivista Anarchica Online

I "terroni" di Agnelli
di R. Brosio

Rabbia e integrazione dei proletari immigrati nei ghetti torinesi

Quando un pugliese, o un campano, o un calabrese, arriva a Torino in cerca di lavoro, il primo shock che è costretto a subire dal contatto con la città industriale, è la perdita della propria identità individuale: egli cessa di essera Salvatore Cacace o Antonio Pappalardo, come era stato fino a poco prima, e diventa qualcosa di molto meno preciso (per lui), di vago, di indeterminato, diventa semplicemente "un meridionale". Improvvisamente scopre di essere riconosciuti dagli altri per elementi a cui prima non dava alcun senso, il linguaggio, l'aspetto, il suono del proprio nome, cose che in precedenza non gli erano mai sembrati caratteri di differenziazione.
Viceversa, si accorge che quello che lui reputa importante per definire la propria personalità, non viene tenuto in considerazione. Carattere, gusti, inclinazioni, sono come coperti dalla cappa della nuova identità che gli viene attribuita. Passerà parecchio tempo, prima che possa ritornare ad essere Salvatore Cacace o Antonio Pappalardo, e non sarà più lo stesso Salvatore Cacace o Antonio Pappalardo di prima. Nel frattempo dovrà accontentarsi di essere semplicemente "un meridionale". Cioè un nessuno, un essere quasi indifferenziato, con cui, indipendentemente dalla presenza o meno di pregiudizi sul suo conto, non si può stabilire un contatto né avere rapporti approfonditi. Prima ancora dell'ostilità vera e propria (e anche in assenza di essa) è questa mancanza di comunicazione che rende il sopravvivere nella grande città un problema non solo economico, ma etnico e razziale.
Il discorso, significativamente, non riguarda (se non in misura assai minore) i meridionali colti, destinati ad attività intellettuali per i quali l'origine regionale è ben presto solo una qualità accessoria, e non l'unico mezzo di identificazione. Riguarda invece i fogli della miseria e del sottosviluppo, costretti a scegliere tra lo sfruttamento mal pagato di caso loro e quello un po' meglio retribuito della città sconosciuta e ostile. Per costoro il cammino verso l'integrazione è lungo, penoso, umiliante, e non sempre conduce al risultato sperato.
Con questa realtà, l'immigrato deve fare i conti con quasi tutti i centri industriali del Nord, ma a Torino deve farli in modo particolare. Qui, probabilmente per la presenza di un unico centro propulsore (la FIAT), che condiziona da solo tutta la vita produttiva della città, il processo di inserimento è più standardizzato, più uniforme, e quindi più crudele, meno capace di adattarsi alle diverse situazioni individuali. Per contro, la violenza fatta alle persone è più evidente che altrove. Noi cercheremo di descrivere il meccanismo di questa violenza, per capire quale prezzo la città esige dai nuovi arrivati per accettarli e cosa da loro in cambio. Per capire cioè, quale razza di identità verrà restituita a Cacace e Pappalardo, allorché cesseranno di essere solo dei "meridionali". Schematizzando, si può dire che l'esistenza degli immigrati povere a Torino attraversa tre fasi fondamentali, che sono contemporaneamente tre momenti della storia dell'immigrazione, dagli anni '50 ad oggi, tre diversi livelli, tuttora presenti, di integrazione, e, per molti, tre stadi obbligati del processo di inserimento individuale. In altri termini, da quando è iniziato l'afflusso della mano d'opera dal Sud, il tipo di "accoglienza" (case, lavori, ecc.) offerta dalla città è venuto modificandosi, parallelamente alle modificazioni delle esigenze dello sviluppo industriale e quindi di quello urbano.
Nonostante ciò, i tre momenti di quest'evoluzione permangono ancora, nel senso che il nuovo non ha mai cancellato il vecchio, dimodochè ancor oggi esistono a Torino meridionali che stanno vivendo il primo, il secondo, o il terzo di questi momenti (a parte le sfumature e le differenze tra caso e caso) e molte persone, oltre che quasi ogni famiglia, hanno dovuto percorrerli tutti prima di arrivare al punto in cui sono attualmente. Inoltre, a questi tre stadi corrisponde una localizzazione topologica molto precisa: gli appartenenti all'uno o all'altro gruppo vivono in ambienti ben distinti, omogenei al loro interno ma senza comunicazione tra sé, dal cui esame si possono ottenere ulteriori indicazioni circa i modi tenuti dalla città per accogliere e integrare questi suoi nuovi "figli". Per comodità di esposizione, converrà partire proprio da quest'ultimo aspetto.
La prima localizzazione topografica della comunità meridionale a Torino è rappresentata da quello normalmente definito come "centro storico" della città, inteso nel suo significato più ampio: le case vecchie e malsane (cortili angusti, ballatoi, lenzuola stese) intorno a Porta Palazzo, tra questa e Piazza Castello, dall'una e dall'altra parte di via Po, intorno a via Garibaldi. E' un vero e proprio ghetto, che ormai i piemontesi hanno abbandonato come luogo di abitazione e che stanno abbandonando anche come luogo di lavoro. Esso è stato lasciato all'insediamento degli immigrati e, negli anni '50, ha rappresentato per essi l'unica possibilità di sistemazione offerta dalla città, quindi il primo stadio della stratificazione "socio-razziale". Questa caratteristica, di lasciare al meridionale la casa che il torinese non vuole più, si riscontra anche negli altri esempi, che faremo in seguito, della topografia dell'immigrazione a Torino. Il caso del centro storico, però, è il più drammatico, oltre che per l'estrema miseria di condizioni offerta in cambio della residenza, anche per la precarietà economica che ad essa si accompagna. I torinesi hanno lasciato ai nuovi immigrati non solo le case che non volevano più, ma anche, man mano che potevano accede ad occupazioni più redditizie o più sicure, le funzioni lavorative che rifiutavano: impieghi saltuari, piccoli commerci, attività d'artigianato, eccetera. Funzioni che vennero raccolte dai primi immigrati, arrivati a Torino alla disperata negli anni del boom, senza certezze, senza aiuto, senza esperienza. Funzioni che vengono ancora svolte da chi continua ad arrivare in tali condizioni, e sulle quali si è innestato, a causa della precarietà di cui si diceva, quel giro di traffici illegali o semi-illegali (contrabbando, prostituzione, ricettazione) che fa lanciare fulmini alla stampa benestante sulla presunta delinquenza dei meridionali. In realtà, all'immigrato che capita a Torino senza la prospettiva concreta di un lavoro o senza l'aiuto di un parente già sistemato, la città continua ad offrire solo questo: un buco nel centro storico e l'opportunità di finire in galera, il ghetto e la sottoccupazione.
Il meridionale che riesce a sfuggire alla stratificazione del centro storico, o quello che ha la fortuna di non doverci passare, ha di fronte a sé un'altra destinazione obbligata: i paesi della cintura cittadina, che ormai confinano direttamente e si confondono con l'estrema periferia, Orbassano, Grugliasco, Beinasco, S. Mauro, eccetera. Anche qui il processo di insediamento è cominciato in concomitanza con l'abbandono di questi centri da parte dei vecchi abitanti piemontesi. Essi sono ex-borghi agricoli, dove l'esodo rurale ha creato le condizioni necessarie per trasformarli nei nuovi ghetti verso cui convogliare il "flusso" proveniente dal Sud. Questo processo avviene grosso modo negli anni '60, ed è il secondo stadio di sviluppo dell'accoglienza che Torino ha riservato agli immigrati. Per molti è anche il secondo gradino della scala verso l'integrazione individuale. Per molti, il primo. Per quasi tutti, comunque, anche l'ultimo, nel senso che il terzo stadio, di cui parleremo più avanti, è riservato a pochi eletti e non si configura ancora come un'esperienza generalizzabile.
All'inizio, si sono "aperte" all'immigrazione solo le vecchie case abbandonate dai piemontesi trasferiti in città, ambienti poco diversi da quelli del centro storico. In seguito i paesi sono stati letteralmente assaliti dalla speculazione edilizia e in pochi anni si sono trasformati in fitti agglomerati di case, in spregio a qualunque piano regolatore e al benché minimo criterio urbanistico, senza che crescessero proporzionalmente anche i servizi sociali, le scuole, gli asili, gli ospedali: solo case, immensi dormitori, pressoché spopolati durante le ore di lavoro, destinati ad accogliere la mano d'opera che, ad ore fisse, si smista nelle fabbriche all'intorno. Tutto ciò è stato facilitato dalla scarsa resistenza che le amministrazioni dei piccoli comuni sono in grado di opporre alla rete di favori, clientele, amicizie interessate, intessuta dalla speculazione. Inoltre è stato pressoché postulato dallo sviluppo industriale, dalla miriade di aziende grandi e piccole che occupano, nella cintura cittadina, gli spazi lasciati liberi dalle case, che hanno potuto espandersi e crescere negli anni '60 proprio sfruttando il lavoro degli immigrati. In altri termini, l'accesso dei meridionali alla grande città è stato organizzato, di fatto, su misura dello sviluppo industriale, in funzione unicamente di esso. Quando la crescita delle aziende ha creato i primi nuovi posti di lavoro, e questi sono stati "coperti" con le riserve dei sotto- e disoccupati piemontesi (o dei contadini inurbati), ai meridionali sono stati offerti i lavori precari abbandonati da costoro e le catapecchie del centro storico. Quando la mano d'opera piemontese non è stata più sufficiente a far fronte alle necessità dell'industrializzazione, i nuovi posti di lavoro sono stati offerti ai meridionali, ma al prezzo dell'isolamento nei dormitori della cintura. Questo, beninteso, non è avvenuto sulla base di un piano coscientemente predisposto: ciononostante è avvenuto, perché il sistema non è capace, strutturalmente, di elevare le condizioni di alcuni dei suoi sudditi senza mettere altri disgraziati al loro posto, in una continua stratificazione dello sfruttamento e del privilegio.
Il risultato, comunque, per i provenienti dal Sud è, sia nel centro storico che nei paesi della cintura, l'emarginazione, cioè la perdita della propria identità individuale, come si accennava in apertura. Anzi, paradossalmente, questo processo di disidentificazione è più avanzato nel secondo caso che non nel primo, come se la città non possa concedere la maggior "sicurezza" di un lavoro stabile e inquadrato ai nuovi arrivati, se non ricevendo in cambio da essi la piena disponibilità a lasciarsi plasmare senza reagire.
Proprio nei paesi della cintura, infatti, quell'insieme vago di caratteristiche superficiali che, agli occhi del piemontese, contraddistingueva l'immigrato, diventa una realtà concreta.
La convivenza annulla le differenze di accento e di linguaggio delle varie provenienze regionali, la distanza da casa fa dimenticare le tradizioni d'origine, le abitudini, prese tutte dentro il medesimo ingranaggio lavoro-riposo-lavoro, si livellano, mentre l'isolamento impedisce ogni osmosi di linguaggio, tradizioni e abitudini da parte dei vecchi abitanti della città. La fabbrica, per parte sua plasma e rende uniformi le personalità. Qui l'identità personale non è semplicemente negata, non riconosciuta: è persa, nel senso quasi letterale del termine. Vivere significa recitare una serie di atti stereotipati, indipendenti dalle inclinazioni e dall'adesione degli individui, senza radici culturali e senza vere possibilità di scelta. Le persone parlano allo stesso modo, si comportano allo stesso modo, passano nello stesso modo il tempo libero, hanno spesso gli stessi problemi e li risolvono nella stessa maniera.
Non sono piemontesi, ma non sono nemmeno più lucani, calabresi, pugliesi. Sono "meridionali" e basta, proprio come appaiono negli occhi differenti dei subalpini. Terroni a Torino, una nuova razza umana creata dalla città industriale su misura per le proprie esigenze produttive.
Il quadro non è certamente piacevole e forse qualcuno si risentirà (specie se "parte in causa") a vederlo così impietosamente rappresentato. Ma è la realtà, a dispetto della fierezza regionale o del savoir faire. Anzi, a confronto di quella del centro storico, questa è quasi certamente la situazione più generalizzata, quella in cui si trova la maggior parte dei cittadini immigrati. Il centro storico, comunque, continua ad esistere, essendo un'ottima "sala di aspetto" per i nuovi arrivati, una specie di palestra dove la città allena gli immigrati a diventare così come li vuole. Nello stesso tempio funziona da monito per quanti sono al gradino superiore, avvertendo chi avesse grilli per la testa che c'è di peggio dei dormitori della cintura, c'è un inferno in cui si può sempre finire per non aver accettato il purgatorio.
Però, accanto all'inferno, c'è anche il paradiso, e sempre per far apparire sopportabile il purgatorio. E' il terzo stadio del processo di integrazione, l'ultimo gradino, il premio finale per chi ha sopportato in silenzio i due stadi precedenti. A differenza di questi ultimi, la collocazione topografica che gli corrisponde non ha una delimitazione così precisa. Gli immigrati del terzo stadio non vivono in un unico quartiere, o in "riserve" fatte solo per loro, ma sono mescolati agli altri cittadini torinesi in quella periferia, estrema o no, che sta diventando la residenza di quanti non appartengono a ceti particolarmente abbienti. Anche qui, però, il luogo d'abitazione ha un particolare significato.
Il fatto che vivano con "altri", cioè con persone che non portano sulla fronte il marchio del luogo d'origine, è il sintomo che anch'essi hanno perso questo marchio, e ormai sono accettati come individui e non come "meridionali". E' il sintomo della riconquista dell'identità personale. E' il sintomo dell'avvenuta integrazione.
Presentata così, la cosa può sembrare un successo, anche se pagato caro. Ma alcune considerazioni la riporteranno alle sue reali dimensioni.
La trafila penosa che ognuno ha dovuto percorrere, o l'effetto esemplare della trafila percorsa da altri, lascia il segno. Abituati ad essere considerati cittadini di seconda classe in quanto meridionali, gli integrati fanno di tutto, adesso che è loro concesso, per scrollarsi di dosso questa qualifica, per camuffarsi, per risultare diversi da quello che sono e che temono possa estrometterli dalla posizione raggiunta. Il processo di disidentificazione, così, continua, e spesso con la collaborazione cosciente dell'interessato. Salvatore Cacace e Antonio Pappalardo sono tornati ad essere individui, e non indistintamente razza, eppure non sono ancora se stessi, probabilmente non lo saranno più. Ancora una volta, al posto della propria personalità c'è un cliché precostituito: quello del buon cittadino, ansioso di assorbire quanto l'ambiente vorrà comunicargli, non avito di quello che gli verrà negato, che accetta senza discutere le regole del nuovo "status" cui gli è stato concesso il privilegio di accedere.
Un elemento d'ordine, insomma. Agli abitanti del centro storico si chiede di fare i lavori odiosi che i torinesi non vogliono più fare. A quelli della cintura di sopportare il peso dell'industrializzazione. Agli integrati della periferia cittadina di lasciarsi condizionare senza ribellione. In cambio, ai primi si regala la residenza, e basta. Ai secondi il salario, e basta. A questi, si regala l'eguaglianza: l'uguaglianza di lasciarsi sfruttare come gli altri, e la soddisfazione di sentirsi qualcuno per questo. E basta.

R. Brosio