Rivista Anarchica Online
Parlando di Giovanni Marini
di Andrea M.
Interviste con parenti, amici e compagni dell'anarchico detenuto
"Ma perché? Perché?" La donna che mi sta dinnanzi
interrompe il suo discorso, e ripete ancora il suo
"perché?". Poi riprende a parlare, con accento inconfondibilmente campano. "A mio figlio
vogliono tutti
bene, quelli che lo hanno conosciuto; in carcere è ben voluto dai carcerati. Ma le guardie... quel
che gli
hanno fatto a Caltanissetta! Perché?". L'anziana donna che sono andato a trovare a
Salerno, e che ora mi sta parlando accoratamente è la
madre di Giovanni Marini, il giovane anarchico che sedici mesi fa fu aggredito da una squadraccia
fascista, e nel difendersi ferì mortalmente il capo dei teppisti missini. Da allora Marini ha
"girato"
quindici carceri, e continuamente ha subito e subisce in pieno la cinica violenza dell'istituzione
carceraria: pestaggi, intimidazioni, segregazione, trasferimenti, blocco della corrispondenza, ecc. Di
tutto questo periodo di persecuzione contro il suo Giovanni, la vecchia madre vuole ricordare un
nome: Caltanissetta. Il maresciallo mi sorrise, mi rassicurò quando andai a trovare
Giovanni, che aveva appena interrotto uno
sciopero della fame in solidarietà con i detenuti, mi pare, di Regina Coeli. Mi ricordo che quel
maresciallo mi disse di non preoccuparmi, che Giovanni era stato buono e non aveva combinato guai.
Quella volta ripartii da Caltanissetta per Salerno abbastanza tranquilla". Mentre la madre mi
parla, istintivamente mi immagino la fatica fisica che deve costare a questa donna
anziana un viaggio come quello che da Salerno, in pieno agosto, l'ha portata nel cuore della Sicilia:
un viaggio lungo, estenuante, certo il più faticoso fra i tanti, tantissimi spostamenti che ha
dovuto
affrontare in tutti questi mesi, per poter almeno vedere suo figlio a Potenza, a Matera, a Lagonegro,
a Roma...".
maresciallo carogna
"Dopo alcune settimane dalla mia partenza - prosegue la madre di Marini - lo
andò a trovare per
parlargli un avvocato amico di famiglia, ma non permisero il colloquio perché dicevano che i
permessi
non erano in regola. Nessuno pensava, nessuno poteva pensare che mio figlio stesse in una fossa
sotterranea legato ad un tavolaccio, fra la vita e la morte. Dopo tanto che non scriveva, lo andai a
trovare. Appena arrivata a Caltanissetta, non volevano farmelo vedere. Il maresciallo era molto agitato
e mi allarmai. Dopo ore di insistenze finalmente me lo portarono.... Povero figlio mio! Non disse una
parola. Non lo riconoscevo quasi! Gli occhi rossi di sangue, le lacrime gli scendevano abbondanti... il
volto, le mani tutte un livido! Non disse una parola. Trattenni a stento l'emozione, capii tutto e me ne
andai. La carogna maresciallo mi scrutava intensamente, ma trovai la forza di sorridergli: la qual cosa
lo meravigliò molto". Si interrompe un attimo, come per raccogliere i ricordi, per
centrare il racconto dell'essenziale. "Andai subito a Roma, a casa di Manca (allora
capo del sistema penitenziario italiano), nella sua villa
fuori città. Mi trattò male. Gridò tutto agitato e sudato. Disse che mio figlio
era buono solo per la
Sardegna. E continuava a dire che la villa non è sua.... Ma che m'importava a me della villa?
Pensavo
a mio figlio, in quelle condizioni, picchiato al buio da vigliacchi aguzzini! Poi Spazzali (uno degli
avvocati difensori di Marini) fece la conferenza-stampa ed i giornali ne
parlarono". L'impressione che mi fa questa donna anziana, così decisa ed incapace
di scoraggiarsi, è notevole: mi
ricorda la "zia Rachele", la zia di Valpreda. Anche in lei ciò che soprattutto
mi colpiva era il fatto che una donna anziana, completamente estranea
a qualsiasi interesse ed attività politica, non si lasciava assolutamente invischiare dalla burocrazia
e
dai regolamenti, ma sapeva e voleva andare fino in fondo, lottando con tenacia, senza farsi intimidire
né scoraggiare da quelle istituzioni e da quelle persone che subito riconosceva come nemiche
del
popolo. La zia Rachele passava anche tre giorni dalla mattina alla sera al palazzo di "giustizia" di
Milano, bussando a centinaia di porte, "tormentando" uscieri, pretori, magistrati, per ottenere il
permesso di colloquio con il suo Piero: e alla fine lo otteneva (e se non l'otteneva, ripartiva subito da
capo). Così, la stessa ammirazione provo per la madre di Giovanni, che pur nella drammatica
vicenda
del figlio ha saputo e sa sempre mantenersi all'altezza della situazione, all'altezza di suo
figlio.
la tessera stracciata
A Salerno sono venuto per parlare con i parenti di Marini ed anche con amici e conoscenti
di
Giovanni, per raccogliere dalla loro viva voce testimonianze sulla sua attività di militante
anarchico,
sulla situazione del salernitano, sulle aggressioni sistematiche degli squadristi missini. Ne è
venuto
fuori un quadro drammatico, una situazione impressionante di povertà, di sfruttamento, di
clientelismo,
e soprattutto una grande rabbia popolare, per ora latente. "Qui ci sta molta disoccupazione
- mi dice un operaio. - I padroni sono tutti fascisti e se vuoi lavorare
devi prendere la tessera del MSI. Anche per andare al Nord ci vuole quella maledetta tessera. I
compagni
costretti dalla fame devono prendere la tessera se vogliono lavorare. Io pure l'ho presa e poi l'ho
stracciata. Conoscevo Marini. Era un vero compagno e perciò lo picchiarono. Lo volevano far
fuori
perché sapeva certe cose sui fascisti. Per questo anche in galera lo vogliono far fuori. Dite ai
compagni
che si sveglino prima che lo ammazzino!". L'accenno alle "certe cose" che Marini sapeva sui
fascisti si riferisce alle indagini svolte da lui su vari
episodi di delinquenza missina, indagini tese a svelare gli strettissimi legami intercorrenti fra i padroni
del vapore (industriali, grossi proprietari agricoli, ecc.), le forze dell'ordine e la terapia in camicia
nera. I fascisti, inoltre, non potevano sopportare la sua continua attività rivoluzionaria, fra i
proletari
dei quartieri più poveri di Salerno.
"mi parlava di garibaldi"
Molti bambini di questi quartieri si ricordano benissimo di Giovanni, che dava loro lezioni
per aiutarli
nei compiti di scuola, e soprattutto per aiutarli a comprendere la realtà in cui vivono. Parlo con
uno
di loro, un bambino di dodici anni, figlio di un operaio edile che ha altri sei figli. "A scuola non
andavo bene - mi racconta - Giovanni ha cominciato a darmi lezioni, assieme ad altri
bambini. Non
voleva nulla. Con lui era diverso che con i libri: la storia per esempio. A me piaceva molto quando mi
parlava di Garibaldi ed altri come non c'è scritto nei libri. Di politica non parlava.... Era
così buono, che
mi pareva impossibile che avesse ammazzato il fascista. Mi scrive qualche cartolina dal carcere, e mi
dice
che non devo preoccuparmi per lui". Se per un bambino è difficile concepire il "fatto
Marini" dal momento che Giovanni era conosciuto
soprattutto come il "buon" amico che aiuta disinteressatamente, ho però incontrato molta gente
che
ha chiara coscienza dei fatti del 7 luglio 1972.
"al processo ci andremo"
"Ho lavorato quindici anni nei cantieri edili in Francia: ho costruito tanti palazzi e mi sono
ammalato.
Sono tornato a Salerno e mi hanno negato la casa per me e per la mia famiglia.... Marini ha fatto bene
a difendersi dai fascisti; li ho visti io nel '43 i fascisti ad impiccare con la corda dei ragazzi di vent'anni
colpevoli di volere la libertà del popolo. Ora i fascisti vogliono ancora mettere le catene al
popolo:
dobbiamo fermarli, Marini deve essere liberato!". La lotta contro lo squadrismo missino,
dunque, si lega nelle particolari condizioni del Sud alla lotta
di tutti i giorni contro lo sfruttamento, la disoccupazione, il marcio sistema clientelare instaurato dalla
DC con la complicità delle altre forze politiche. "Stavo in una cantina umida e fetida -
mi dice una
madre di famiglia che ha occupato una casa dello I.A.C.P. vuota da due anni, insieme ad altre
cinquanta famiglie. - I miei figlioletti vi si sono ammalati. Ho scritto a tutti, anche al presidente
della
Repubblica ma nessuno ha risposto. Allora ce la siamo presa la casa. Sono venuti i poliziotti e li abbiamo
cacciati. Sono venuti i fascisti e gliele abbiamo date. I compagni ci hanno aiutato. Marini è un
compagno
ed ha fatto bene a dargli il fatto suo al fascista.... Al processo ci andremo! Ci dobbiamo
andare!". Mentre ascolto questi operai, queste donne del popolo parlarmi dei loro problemi
drammatici, delle
loro lotte, dell'impegno di Marini al loro fianco, penso alle chiacchiere che si sentono sulla
"volontà
della classe politica di giungere a risolvere l'annosa questione meridionale": chiacchiere ipocrite,
tragica farsa alle spalle di questa gente oppressa da secoli, ma non per questo disposta ad
abbandonare la lotta. Valvole di sfogo di questa drammatica situazione sono l'emigrazione, i piccoli
traffici semilegali o illegali: ma la galera è spesso il punto di approdo inevitabile, la risposta dello
Stato ai problemi sociali del Sud.
"tuttocuore"
"Marini era un 'tuttocuore' - mi dice un ex-detenuto, di quelli che la stampa bolla subito come
'il
pregiudicato tal dei tali' -. Io lo conoscevo da prima, quando veniva nel mio quartiere: io facevo
contrabbando di sigarette perché non avevo lavoro. Poi ci siamo rivisti in galera. Era il
più maltrattato
dalle guardie, ma non si piegava; noi invece dobbiamo strisciare con le guardie. Tutti gli divennero
amici,
sebbene le guardie dicessero che dovevamo stargli alla larga. Marini per noi era un amico, non un
politico, che i politici ci schifano. Ci parlava da uomo ad uomo, non montava in cattedra. Divideva con
gli altri fin l'ultima sigaretta. A me ha aiutato a scrivere ai miei: io non so scrivere. I miei furono molto
contenti. I fascisti venivano ogni giorno ad insultarlo e minacciarlo di fronte alla finestra della sua cella.
Poi vennero tantissime guardie armate: mai s'era visto qualcosa di simile. Lo trasferirono. Noi si fece
quasi una sommossa per salutarlo. Molti piangevano. Ricevette in dono qualcosa come due o trecento
pacchetti di sigarette. Lui ci disse di stare tranquilli, di non dar pretesto a
provocazioni...". Marini, dunque, sia prima sia dopo il suo arresto, nelle lotte dei quartieri
proletari come fra le quattro
mura di una cella, ha continuato e continua la sua lotta, la nostra lotta. Le molte persone con cui ho
parlato a Salerno si sono dette decise a fare il possibile per la liberazione di Giovanni: in particolare,
molti attendono il processo per testimoniare la loro solidarietà, per prevenire ed impedire le
possibili
bravate degli squadristi, per esprimere ancora una volta la loro rabbia, la loro volontà di lotta
contro
i loro nemici, contro lo sfruttamento.
Andrea M.
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