Rivista Anarchica Online
Il diritto d'avere paura
di F. M.
Psicologia della guerra - Aggressività naturale e deviazioni strumentali - Il coraggio imposto
In Medio Oriente arabi ed israeliani hanno appena finito (fino a quando?)
di scannarsi. Alcune migliaia
di cadaveri, di mutilati, di storpi si vanno ad aggiungere alla macabra lista delle vittime della guerra.
Alcune migliaia... una sciocchezza, per le statistiche. Secondo una stima, approssimata per difetto, i
morti in guerra, dal 1820 al 1945, sono stati cinquantanove milioni. Cinquantanove milioni di uomini
donne bambini assassinati nel corso delle stragi legali, nel corso di guerre di cui spesso non erano
neppure a conoscenza e che comunque mai avevano voluto. Accanto ai morti, i feriti, i mutilati, le
violenze, le distruzioni, gli sprechi di ricchezza prodotta, di lavoro umano. La guerra, tragica
costante della storia dell'umanità, è un problema etico, economico, politico, storico.
È anche un problema psicologico. Se le singole guerre trovano cause d'ordine economico o
politico, v'è
una costante in esse che è campo di indagine per la psicologia individuale e di massa: la
disponibilità alla
guerra del cittadino medio, l'accettazione (a volte entusiasta) di trucidare e farsi trucidare su
ordinazione,
la capacità di commettere atrocità comunemente catalogate tra i delitti più
efferati il nome di astrazioni
mistificatrici, la facilità con cui periodicamente gli sfruttati si scannano tra di loro per gli
interessi degli
sfruttatori. I frequenti e sanguinosi conflitti scaturiscono, secondo alcuni, dal riaffiorare dell'antica
bestialità umana.
Questa interpretazione è inesatta e senza dubbio offensiva nei riguardi degli altri animali,
poiché noi
siamo chiaramente l'unica specie che deliberatamente infligga sofferenze ai propri simili; del resto
William James già nel 1890 descrisse l'uomo come "la più formidabile delle bestie
predatrici e
sicuramente l'unica che depredi sistematicamente la sua stessa specie". L'uomo si trova cioè in
una
posizione unica nel mondo animale: infatti non se ne ritrovano di simili nemmeno tra le scimmie
antropomorfe. Si può cercare tuttavia, nel tentativo di assumere una seria posizione di fronte
a questo
triste dato di fatto, di capire le ragioni psicologiche di un comportamento tanto anomalo e certamente
dannoso. Come ormai è noto, alla base della guerra, manifestazione di violenza
indiscriminata, vi è l'aggressività
(1), nella quale sarebbe a parere di molti da ricercarsi la causa prima dei mali dell'umanità.
Ciò è falso,
considerando il fatto che una certa dose di aggressività è necessaria sia per l'auto-difesa
sia per il
mantenimento dell'equilibrio dei rapporti sociali. L'aggressività, in misura contenuta, è
innata in noi come
nella maggior parte degli animali, certamente in tutti i vertebrati e in molti
invertebrati. L'aggressività non è di per sé stessa una componente
pericolosa, al contrario è utile anche all'interno
della nostra attuale società. Si pensi infatti che le rivendicazioni e le ribellioni degli sfruttati nel
corso
della storia fino ad oggi non sarebbero certamente avvenute senza questa fondamentale componente del
nostro "essere uomini", che ha origini non solo culturali ma anche genetiche (2). Del resto una funzione
importante dell'aggressività è proprio quella di equilibrare i rapporti sociali. Quando fra
due individui
di una stessa specie si scatena un duello, l'animale più aggressivo, oltre che più forte,
è quello che vince.
Ma la crudeltà fine a se stessa, ovvero il sadismo, non è una componente naturale del
comportamento.
Così non appena un individuo sente che il proprio avversario è più forte,
"segnala" la propria resa, cioè
l'accettazione della superiorità dell'avversario. I duelli non si spingono quasi mai fino alle
estreme
conseguenze, cioè fino alla morte. Spesso i combattimenti sono ritualizzati, stereotipati allo
scopo di
ridurre al minimo i possibili danni. Anche la nostra specie conosce per via genetica questa prassi. La
pietà, sentimento alquanto strumentalizzato da varie fazioni, non è altro che
l'accettazione di segnali di
sottomissione. Il pianto, il sorriso, la supplica ne sono esempi. Anche le moderne truppe, beninteso,
hanno evidenti forme di ritualizzazione. Basti pensare alle divise,
agli ultimatum inviati e respinti, alle parate e in genere a tutti gli ornamenti ed orpelli di eserciti e guerre.
Sebbene risulti evidente che questa ritualizzazione non è più strumento utile ad evitare
gli stermini.
Infatti la nostra storia, storia di soprusi dei potenti, è costellata di guerre, episodi di violenza
indiscriminata e portata fino alle estreme conseguenze. Da quali cause scaturiscano le guerre è
stato più
volte dibattuto. Ragioni economiche, di prestigio, di potenza, di conquista di nuovi territori, mercati,
materie prime, questi in sintesi i motivi che le hanno causate a livello delle alte sfere. Ma presso il popolo
sono state presentate ed accettate diversamente: l'alta economia, si sa, non arriva al soldatino. Tuttavia
spesso egli diviene un eroe, si fa uccidere da altri soldati e ne uccide. Vale la pena di illustrare le
cause di questo comportamento, anche perché contribuiscono a chiarire come
uno sfruttato possa uccidere altri sfruttati. Bisogna pensare che l'uomo ha sviluppato un notevole grado
di cultoralizzazione che purtroppo, spesso, lungi dall'aiutare il suo sviluppo collettivo, altera e distorce
le sane tendenze fondamentali dell'individuo. In effetti ci sembra verosimile l'opinione di Timbergen
secondo la quale i problemi relativi all'aggressività umana risultino da una cattiva interazione
fra
componenti genetiche e culturali. Prima di qualunque guerra vengono inculcati dal potere al popolo
dei miti e dei falsi valori, spesso
presentati in maniera tanto suggestiva da causare una notevole risposta emotiva. Del resto le istituzioni,
quali la scuola e in modo più energico i tutori dell'ordine e le forze armate, hanno lo scopo
preciso di
esercitare un diretto controllo sul comportamento dei membri della società. Il fatto è
che il
comportamento degli uomini può essere controllato piuttosto efficacemente da chi esercita il
potere, e
in alcuni casi il grado di controllo è superiore a quello che potrebbe essere esercitato piazzando
degli
elettrodi nel cervello. Grazie a ciò, l'omicidio, il genocidio e le razzie non sono più tali
ma divengono
amor di patria. In secondo luogo, ancor più raffinatamente, il nemico, da entrambe
le parti, viene presentato in maniera
statica, come un soggetto con una smisurata aggressività sempre manifesta, che mira a trucidare
con
voluttà la sposa ed i figli dell'altro contendente. Spesso inoltre il nemico viene raffigurato con
un aspetto
orripilante. La fuga, la paura o la resa, d'altro canto, vengono presentate come componenti di
degenerazione dello spirito, mancanza di virilità, sintomo di vigliaccheria e di animo puerile,
mistificando
così degli elementi fondamentali della natura umana. Abbiamo tuttavia detto che l'uomo ha
innato un
meccanismo che gli rende quasi necessario ascoltare i segnali che la specie, nella lunga esperienza dei
millenni, ha elaborato per frenare l'aggressività. Per una psiche normale il non ascoltare il
messaggio
dell'avversario sconfitto è praticamente impossibile. Nel corpo a corpo l'aggressività
del vincitore verrebbe quindi nella maggior parte dei casi bloccata
dall'atteggiamento di sconfitta del vinto. I conflitti si ridurrebbero quindi a degli scontri se non pacifici,
di violenza comunque trascurabile. Ciò renderebbe evidentemente inutile il conflitto stesso.
Notiamo,
per inciso, che è sopravvissuta fin quasi ai giorni nostri l'usanza di non uccidere chi volgeva le
spalle,
poiché la fuga è un fortissimo segnale di sottomissione. Gli antichi risolsero il problema
creando il mito
della virilità coincidente con la mancanza di paura. Lo sconfitto, soffocando il terrore, non
mostrava così
segni di accettazione della vittoria dell'altro contendente. In tal modo l'aggressività del vincitore
non
veniva bloccata e il duello proseguiva sino alla morte. Nel corso della storia si è sviluppata
la soluzione di questo problema: l'eliminazione del corpo a corpo
attraverso l'invenzione di armi che colpiscono a distanza, la ricerca di strumenti bellici che rendano il
nemico sempre più lontano, addirittura invisibile. Si pensi ai bombardamenti aerei. Il nemico non
è
neppure individuabile e nel contesto dell'atmosfera del conflitto, sempre ricca di falsi ideali e di valori
bellici, il pilota non si rende nemmeno conto che, sotto la sua azione, cadono donne, uomini, bambini.
Persone che egli certamente non avrebbe ucciso e nemmeno ferito se avesse dovuto farlo in un corpo
a corpo. Che dire del resto dell'antica usanza della pallottola a salve presente in ogni plotone
d'esecuzione ed
affidata a caso? Quest'usanza è nata per vincere la repulsione emotivamente immotivata che
qualsiasi
uomo ha verso l'omicidio di un suo simile che, non solo non palesa certo un atteggiamento minaccioso,
ma spesso appare dimesso e spaurito. Così una pallottola a salve affidata a sorte fornisce l'alibi
morale
della speranza di non aver commesso l'assassinio. Del resto nella prefazione agli atti del simposio tenuto
al British Museum (Natural History) a Londra nell'ottobre del 1963 leggiamo: "In natura la paura ha una
fondamentale importanza nel rendere incruenti gli scontri. L'educazione al coraggio, basata su
gravissime
punizioni (dall'essere fucilato all'essere perennemente bollato quale vigliacco) ha rotto, nella nostra
specie, il delicato equilibrio, spesso sostenuto da fenomeni territoriali, che si instaura tra chi attacca e
chi scappa. A rinfocolare ancora la nostra crescente aggressività si aggiunge un altro
fenomeno, pure di origine
culturale, il sovraffollamento, che agisce in parte direttamente e in parte attraverso le sue conseguenze
quali la fame e il bisogno di conquistare nuove aree produttive. L'uomo dunque ha probabilmente
raggiunto un punto cruciale della sua evoluzione: lo splendido meccanismo culturale di adattamento gli
ha preso la mano. Le sue ultime scelte, bisogna dirlo, sono state terribilmente disadattative. Solo una
concreta presa di coscienza del suo stato unico di animale specializzato per la cultura potrà
evitargli il
fatale destino che la natura prepara agli specializzati. Sta alla mente umana produrre la mutazione
culturale che lo devii da una strada altrimenti segnata". Ancora una volta quindi riscopriamo un
fondamento di obiettività scientifica nella nostra posizione
antimilitarista anarchica, tanto criticata, ostacolata, e come ovvio non gradita al potere costituito. I
governi cercano di togliere all'individuo addirittura il diritto fisico di essere "uomo" con tutte le
implicazioni che ciò comporta. Il potere attraverso i sottili strumenti psicologici forza e distorce
l'essenza
stessa della nostra natura. L'uomo non è dunque, come si vuol far credere, spontaneamente
"homini
lupus"; ma diventa tale a causa delle condizioni di sfruttamento (fisico e morale) cui è
costretto. Il fondamento di qualsiasi analisi e azione rivoluzionaria è scoprire i caratteri
fondamentali del nostro
essere uomini (ciò che i preti chiamano con disprezzo e inesattamente "istinti") e smascherare
le violenze
che sotto varie forme, spesso raffinate e apparentemente inoffensive, tendono a distorcerli.
F. M.
(1) Harlow ed altri, Psicologia come scienza del comportamento, Milano
1973. (2) J. D. Carthy e F. J. Ebling, Storia naturale della aggressività, Milano
1973.
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