Rivista Anarchica Online
Le manette sulla città
di R. D. L.
Più uomini e più potere alla polizia - Licenza di sparare - La nuova-vecchia politica
dell'ordine
pubblico - Lo "stato di polizia" è una costante nella storia d'Italia
Proposta di legge sul fermo preventivo di polizia; aumento dei contingenti
di PS (5.000 nuove unità che,
con i 3.000 carabinieri richiamati nel '71, si aggiungono ai 150.000 già in servizio attivo); licenza
di
sparare per motivi di "ordine pubblico" (assassinio di Franceschi e ferimento di un altro giovane a
Milano, ferimento di due manifestanti anti-M.S.I. a Torino).... Da un paio di mesi la polizia s'è
guadagnata un posto eminente nelle cronache e nei commenti. Un posto meritato (e proporzionato alla
funzione centrale che la repressione poliziesca svolge nella presente fase politica), perché non
è
irrilevante che nello spazio di pochi giorni la polizia abbia sparato alla schiena di giovani
inermi (quindi
chiaramente con scopi terroristici e non difensivi). Non è irrilevante l'aumento delle forze di
polizia in
un Paese che ha il più alto numero di poliziotti d'Europa, in rapporto alla popolazione (il doppio
dell'Inghilterra, il triplo dell'Olanda). Né irrilevante è la proposta di ampliare i poteri di
una polizia che,
ad esclusione dei regimi fascisti e pseudo-socialisti, ha già i più ampi poteri del
mondo!
il fermo di polizia
"Oggi, martedì 16 dicembre 1969, il fermato Giuseppe Pinelli viene rilasciato e torna in
libertà". Così
la mano di un poliziotto della questura di Milano scriveva sull'apposito registro, il giorno dopo
l'assassinio dell'anarchico. Ciò avveniva nello stesso mese (dicembre '69) in cui venivano
limitati
formalmente, come mai prima d'allora, i poteri della polizia, scatenando i dolorosi lamenti di
poliziotti
e "benpensanti". Si parlò, allora, di un vero e proprio disarmo morale della polizia, di cedimenti
dello
stato di fronte alla delinquenza ed alla sovversione, di anarchia dilagante. Preoccupazioni
ingiustificate,
che dovrebbero sparire al solo pensiero che, nonostante quelle nuove disposizioni liberali, la polizia ha
sempre fatto quel che voleva, con zelo e precisione. Come dimostra la vicenda del cittadino Pinelli, che
formalmente risulta essere stato "rimesso in libertà". Se si tengono presenti le cronache
poliziesche degli ultimi anni, si vede che in fondo le nuove
disposizioni sul fermo di polizia e sulle perquisizioni domiciliari, proposte dal governo Andreotti, non
servono che a legalizzare in buona parte quello che la polizia fa, ha sempre fatto e sempre
continuerà
a fare (in buona parte, perché solo un regime di carattere nazista potrebbe legalizzare
l'intero operato
delle forze dell'ordine). È certo, comunque, che le nuove disposizioni proposte sono
particolarmente gravi e ci riportano alla
spudoratezza repressiva dell'epoca fascista. Nel progetto di legge in esame si afferma testualmente che
gli sbirri possono fermare "la persona la cui condotta, in relazione ad obiettive circostanze di
tempo
e di luogo, faccia fondatamente ritenere che stia per commettere reati, ovvero costituisce grave e
concreta minaccia alla pubblica sicurezza". Come si vede, si dà alla polizia l'assoluta
licenza di fermare
i cittadini con il solo pretesto che qualche sbirro pensi che stiano per commettere un
qualsiasi reato.
escalation
La proposta di legge, il grilletto facile, la presenza costante della polizia davanti alle scuole e alle
fabbriche in lotta... tutto lascia ritenere che in Italia siamo di fronte a una
escalation del potere
poliziesco. In effetti, dopo la breve parentesi degli anni '63-'67, anni di relativa pace sociale durante
i quali, si
preferisce una politica dell'ordine pubblico moderata e conciliativa, dal '68 rientra di scena la polizia che
spara sui dimostranti, che uccide con i candelotti, con i calci dei fucili, con i manganelli. Avola,
Battipaglia, i fatti della Bussola sono il campanello d'allarme di un ritorno all'uso della polizia che
richiama i tempi bui di Scelba è Tambroni. Dopo il fallimento politico del centro-sinistra, le
esigenze
della destra politica ed economica spingono nuovamente per il ritorno alla linea dura, alla polizia come
unico colloquio con le classi inferiori. Non possiamo però considerare nuova
questa politica dell'ordine pubblico, è più esatto parlare di "corsi
e ricorsi storici" nell'uso della polizia. C'è una costante nella nostra società: lo "stato
di polizia", che è
il frutto logico di un sistema basato sulla disuguaglianza economica e sociale. Quanto più
l'equilibrio di
questo sistema viene intaccato dal basso verso l'alto tanto più si accentua l'aspetto poliziesco
e violento
del potere; quanto più regna la pace sociale, tanto meno incide l'uso della polizia, la cui
attività si
incanala allora in una opera di "prevenzione". Con l'esplosione della contestazione studentesca del
'68, e "l'autunno caldo" operaio del '69 il clima
forzatamente disteso che si era instaurato in Italia fallisce clamorosamente. La risposta del potere
è il
ritorno alla violenza, alla polizia. Il suo uso è però diversificato fra gli studenti e gli
operai; dopo Avola
e Battipaglia, non vi sono più morti proletari, d'altra parte la polizia è sempre
più spesso presente nelle
lotte sindacali; per sfondare i picchetti, per denunciare, è più un'opera di prevenzione
che di repressione,
un monito per gli operai in lotta a testimoniare che oltre un certo livello di combattività
è pronta a
scatenarsi la violenza di Stato. Contro gli studenti e le avanguardie rivoluzionarie, l'opera di
prevenzione-repressione è più dura, le
"morti accidentali" più frequenti: Ardizzone, Pardini, Saltarelli, Serantini..., l'elenco è
più lungo. Ma se
è possibile riconoscere in queste uccisioni un'escalation del potere poliziesco in
Italia, è anche vero che
i massacri indiscriminati degli anni '50 non si ripetono; oggi il morto in piazza non è
premeditato,
piuttosto preventivato. Il motivo non risiede certo in una polizia più
democratica, la ragione è nel diverso "sovversivo" che oggi
si trova a fronteggiare la polizia: non più il contadino meridionale, solo nella sua lotta contro
la miseria
secolare, ma lo studente, che per quanto sia rivoluzionario e sovversivo, per la polizia è sempre
un "figlio
del padrone", perciò la sua vita è più importante e difesa, la sua morte
più scandalizzante per l'opinione
pubblica "che conta". In definitiva se di escalation possiamo parlare, non dobbiamo
stupircene, non è
altro che una conferma della continuità storica dello "stato di polizia", l'unico stato
possibile.
le origini
Finora abbiamo parlato genericamente di polizia, mentre come è noto esistono due corpi
militari che
svolgono funzioni di polizia e cioè i carabinieri e la PS. Questi due corpi sono nati, se non in
contrasto,
certamente da matrici diverse, anche se entrambi hanno visto la luce nello stato sabaudo che, conquistata
l'Italia con le vicende a tutti note, estende all'intera Penisola le sue strutture
politico-amministrative. Il Corpo dei Carabinieri, solo in seguito integrato nell'esercito e divenuto
"Arma", è costituito nel 1814
nel quadro della restaurazione socio-politica che fa seguito all'età napoleonica. Creato
dall'aristocrazia,
nasce come forza di reazione non solo per salvaguardare il ristabilito ordine sociale, ma anche col nuovo
scopo di frenare, militarmente, la scalata borghese al potere. È infatti il primo corpo di polizia
come lo
si intende modernamente, cioè un nuovo organismo capace di difendere l'assetto politico
esistente
dall'attacco che nuove forze politiche stanno muovendo. Viene anche appositamente costituito un
ministero di polizia (detto del "buon governo"!) per disciplinare questa nuova attività repressiva,
ma la
prima vittoria borghese, in questo campo, è proprio l'eliminazione del ministero di polizia e
l'integrazione
dell'Arma dei Carabinieri dapprima nel ministero degli Interni, poi in quello della Difesa, dove rimane
sino ai nostri giorni. Raggiunto un maggiore potere, la borghesia preferisce creare un nuovo corpo
poliziesco: la Guardia
Nazionale, costituita sul modello francese di spirito più liberale, perché eserciti un
contrappeso alla forza
armata dell'aristocrazia (i carabinieri). Il dualismo di polizia, ancora oggi esistente, trova qui la sua
origine storica. Col tempo, tuttavia, la divisione diviene piuttosto divisione di compiti che di
intendimenti. I Carabinieri infatti si caratterizzano come polizia militare e a dislocamento rurale, mentre
la Guardia Nazionale prima perde di importanza e poi viene soppressa. Nasce al suo posto il Corpo delle
Guardie di Pubblica Sicurezza, cui vengono affidate le funzioni di polizia nelle città. È
questa
l'espressione compiuta della borghesia ormai al potere che tende a difenderlo e a salvaguardarlo dagli
attacchi che altre realtà sociali cominciano ad abbozzare. Siamo già lontani dallo spirito
liberale che
aveva caratterizzato la Guardia Nazionale, la PS è a tutti gli effetti lo Stato di fronte ai cittadini,
la sua
espressione più violenta ed estrema. Compito precipuo del corpo di polizia è il
"mantenimento dell'ordine
sociale"; la PS si erge a salvaguardia dello status quo e della "rispettabilità
borghese". È interessante rilevare che pur essendo nata l'Arma dei Carabinieri in funzione
anti-borghese, con la
sconfitta dell'aristocrazia, i carabinieri diventano uno strumento dei nuovi padroni.. Questo passaggio
è indicativo della natura di polizia: corpo armato al servizio del potere.
la prefettocrazia
Con l'unificazione dell'Italia si sviluppa un processo di accentramento all'interno delle forze di
Polizia,
che si inserisce nel quadro generale di un fortissimo centralismo statale, perseguito dalla nuova classe
dirigente per frenare le spinte centrifughe sia della destra reazionaria, sia delle nuove correnti
democratiche, soprattutto mazziniane. All'interno della PS si gettano le basi della "prefettocrazia",
così
come la definirà il Salvemini: i prefetti diventano i rappresentanti del potere esecutivo nelle
province,
pur dipendendo amministrativamente dal Ministero degli Interni, e ricoprono la carica specifica di "capo
della polizia". È appunto nell'Italia post-unitaria che per la prima volta si parla di "stato di
polizia" e l'uso preferenziale
che si fa della polizia per "risolvere" i problemi sociali giustifica ampiamente il termine. Non solo, ma
è proprio in questo periodo che aumentano i poteri della polizia con l'adozione della formula
cara alla
"destra storica", che rimarrà un retaggio di tutti i governi italiani sino ai nostri giorni,
cioè "prevenire
è meglio che reprimere". Il che altro non vuol dire che mettere l'avversario in condizioni
di non poter
agire, attraverso le più gravi sopraffazione dei diritti individuali. Risale a questo periodo, nel
quadro
dello strapotere dato alla polizia, l'istituzione dell'autorizzazione di PS in tutta una serie di
attività
commerciali e produttive. Con l'andata della "sinistra storica" al potere, nel 1876, la tendenza non
s'inverte, anzi sono gli anni delle
durissime persecuzioni contro l'Internazionale. Nasce proprio in questo periodo, nel quadro della
prevenzione, l'uso di agenti provocatori infiltrati nelle sezioni dell'Internazionale. Anche questo
diverrà
un normale costume poliziesco. Durante questo periodo storico, che dalla nascita dello stato italiano
arriva sino al fascismo, si chiarifica
maggiormente la diversa funzione delle due forze di polizia: la PS viene adoperata soprattutto nell'opera
di prevenzione e agisce nelle città, tant'è che, in un tentativo di dare corrispondenza
più esatta tra
funzione e denominazione, cambia il nome con quello di Corpo delle Guardie di
Città. La repressione
violenta, soprattutto nei frequenti moti contadini, viene invece affidata ancora ai carabinieri. Questi
stanno a loro volta sostituendo nelle azioni repressive l'esercito, che prima era il normale antagonista
di
chi manifestava contro il potere. Era stato infatti l'esercito, ad esempio, a reprimere in Sicilia i Fasci
rivoluzionari del 1893-94; era stato l'esercito a sparare sulla folla nelle tragiche giornate del '98 a
Milano.... D'ora in poi, l'esercito sarà usato raramente in funzione di ordine pubblico, carabinieri
e
polizia, assolveranno la duplice funzione di prevenzione e repressione.
il fascismo
Il fascismo non rappresenta un rovesciamento e un'inversione del regime "liberale" per quanto
riguarda
l'uso della violenza di stato, ma soltanto un mutamento nell'organizzazione di questa violenza ed una
sua
accentuazione. Il fascismo, sia ben chiaro, non istituisce lo "stato di polizia", tale lo stato italiano era
prima, tale continuerà ad essere dopo. L'uso di classe della polizia è identico prima,
durante e dopo la
dittatura fascista. Sotto il fascismo si arriva alla sublimazione della prevenzione come costume
poliziesco, impedendo la stessa possibilità di esprimersi e di organizzarsi sotto la cappa di
piombo che
forma l'intero apparato statale; il fascismo è la cristallizzazione autoritaria di uno stato che era
già
poliziesco. Pur mantenendo la maggior parte delle strutture, come il prefetto, vi sono comunque
dei mutamenti nel
"panorama poliziesco" di quegli anni. Accanto ai carabinieri, "arma benemerita", lo stesso Mussolini
fonda la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. A parte la retorica che ha
circondato questa
milizia, la sua nascita si deve ad un calcolo politico di Mussolini, che con un atto legalizza le squadracce
nere, togliendole così alla discrezionalità dei "ras" locali e tende a neutralizzarle in
quanto possibili
strumenti di potere alternativo al suo. La sua funzione è stata quasi totalmente folcloristica,
tranne al confino dove si distinguevano per la
brutalità. Il motivo per cui vegeta per l'intero ventennio si deve alla volontà di Mussolini
che fonda e
potenzia organizzazioni repressive in potenziale contrasto fra loro al fine di ottenere un più
ampio
margine di sicurezza personale attraverso il reciproco spiarsi di questi organismi. Operando in
questo senso il "duce", ricostituisce il Corpo degli Agenti di Pubblica Sicurezza, al cui
commando mette Arturo Bocchini, che possiamo considerare il braccio destro di Mussolini e il
responsabile delle attività poliziesche del regime. Proprio sotto di lui viene stilato il testo unico
di PS,
che ancor oggi è il testo valido per la polizia "in regime democratico".
la gestapo italiana
Altri strumenti propri del fascismo sono gli ispettorati speciali di PS che, noti col nome di OVRA,
rappresentano la vetta del sistema poliziesco del ventennio. L'OVRA non è altro che la polizia
segreta
fascista per la sicurezza dello stato, un equivalente della Gestapo nazista all'italiana. All'italiana per due
motivi: primo perché non ha mai raggiunto l'efficienza e l'efferatezza della sorella tedesca,
secondo
perché non è una novità dell'organizzazione poliziesche italiana, che l'ha avuta
in precedenza e continuerà
ad averla anche dopo la caduta del fascismo con altro nome e, forse, con altra gente. Le azioni
dell'OVRA sono state soprattutto dirette a stroncare l'antifascismo, ma le stesse frange fasciste,
più o
meno contrarie a Mussolini, hanno avuto le attenzioni della polizia segreta, in effetti l'OVRA ha formato
uno stato nello stato, utilizzate come scudo personale del duce e come strumento diretto del suo
potere.
la polizia nello "stato democratico"
Nell'incandescente situazione politica che segue l'armistizio del '43, tra le primissime preoccupazioni
del
governo Badoglio è la ricostituzione del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, cui
vengono
"concesse le stellette" e quindi l'integrazione nelle forze armate. È un gesto significativo che
testimonia
una precisa volontà nella gestione dell'ordine pubblico, che non cambierà nemmeno con
l'avvento della
Repubblica nel '46. La preferenza si dà alla PS, anziché ai carabinieri, per due
motivi: in primo luogo essa, non avendo fatto
la guerra, non è scompaginata come i carabinieri; in secondo luogo, non essendosi schierata con
nessuna
delle due parti (fascisti e antifascisti), mentre i carabinieri erano rimasti leali alla corona, le si
può
attribuire maggiore affidamento di imparzialità! Quindi si intende affidare l'ordine pubblico, in
una
società nata dalla lotta antifascista, a chi a questa lotta non ha partecipato. Giusto per mantenere
questa
"imparzialità" della PS; le viene integrata anche la PAI (Polizia dell'Africa Italiana), polizia
fascista e
biecamente razzista, guidata dai caporioni del ventennio. Tutto ciò di cui sono capaci quei
"rivoluzionari" del CLN è di fare entrare un certo numero di partigiani
nella PS. Ma, naturalmente, i risultati di questo ridicolo tentativo di collegare la polizia alla Resistenza
sono prevedibilmente fallimentari. L'organismo poliziesco reagisce ai "corpi estranei" fagocitandoli
oppure rigettandoli. Con la fine del governo militare alleato, i funzionari di nomina resistenziale si
trovano di fronte alla scelta
di entrare in servizio di carriera e farsi esecutori passivi delle disposizioni avute dall'alto o di andarsene.
Quasi tutti preferiscono la seconda via e di 133 prefetti immessi dalla Resistenza, ne rimangono 8. Con
un provvedimento amministrativo si elimina anche a livello di truppa i partigiani entrati nella PS, si tratta
come si esprime una fonte ufficiale: "Di ricomporre, nell'assoluta legalità, le file di un organismo
che (...)
aveva perduto la fisionomia di una forza ordinata e inquadrata su adeguate basi normative". Il che vuol
dire che i fascisti, già nella PS, e i razzisti e colonialisti della PAI rispondono a questi requisiti,
i
partigiani no. La forza motrice della nuova restaurazione è indubbiamente la Democrazia
Cristiana, che pur non
potendosi riallacciare all'immediato passato, continua però la tradizione italiana dello "stato di
polizia". Il sistema della prevenzione è sempre in auge. Basti dare alcune cifre: le spese per
i "confidenti" passano
da 8 milioni nel '48 a 112 milioni nel '49.
nasce la celere
La polizia è di nuovo lo stato in piazza contro gli operai e i contadini, contro gli sfruttati
l'unica risposta
è lo scontro, la repressione violenta. È appunto del '47 la costituzione dei reparti celeri
di PS, che
diventano la punta d'assalto delle forze poliziesche. Mario Scelba, ministro degli Interni dal '47 al '51,
né è il padre putativo. Nello stesso '47 si procede, con circolare ministeriale, alla
soppressione di quei
diritti politici che la Resistenza ha conquistato con le armi: si vietano le assemblee e i cortei all'interno
delle fabbriche, si proibiscono gli assembramenti, si sciolgono con la forza le riunioni non autorizzate,
si impedisce qualsiasi forma di critica contro il governo e, in particolare, contro il ministro Scelba, si
sciolgono con la forza tutta una serie di amministrazioni comunali e provinciali di sinistra "per ragioni
di ordine pubblico". Ricominciano gli arresti massicci dei militanti del movimento popolare, piovono le
denunce. Le analogie con i sistemi fascisti sono la testimonianza più viva e indiscutibile che
lo "stato di polizia"
è l'unico possibile in Italia; liberali, fascisti, democristiani sono il filo diretto della repressione
anti-popolare che testimonia la continuità storica dello "stato di polizia". In questo periodo
aumentano i
contingenti di PS, che passano a 75.604 nel '49, mentre carabinieri e guardie di finanza raggiungono
circa
le 180.000 unità. Si dilatano anche i bilanci della pubblica sicurezza 93,3 miliardi nel biennio
'49-'50. Mancano cifre ufficiali, o comunque certe, dei morti uccisi dalla polizia in questo periodo
(un parziale
elenco è stato già fatto sul numero 13 di questa rivista in "Morti senza telegramma");
una cifra
approssimativa per difetto segnala 75 omicidi tra il '48 e il '54. Lo scelbismo, che possiamo definire
come
la politica dell'ordine pubblico sotto il centrismo, è una necessità padronale per la
ricostruzione e la
riorganizzazione della vita economica: bisogna scoraggiare gli operai, e soprattutto i contadini,
dall'intraprendere una lotta sindacale e politica che può mettere il bastone fra le ruote alla
politica
economica che si intraprende. Ecco perché l'unica risposta alle rivendicazioni popolari era la
linea dura:
la polizia come unico dialogo con le classi subalterne. Dalla sconfitta della legge truffa, nel '53, che
segna la crisi del centrismo, i piani governativi cambiano
rotta (sfoceranno dieci anni dopo nel centro-sinistra) ed anche l'uso della polizia subisce un mutamento,
analogo a quello "giolittiano". Si ritiene più utile, anziché continuare nella politica della
repressione ad
oltranza, tendere all'integramento dei "sovversivi" nel sistema. Nella seconda metà degli anni
cinquanta
infatti si prevede già di assorbire un partito di sinistra nell'area governativa. È chiaro
che per un'azione
di questo tipo è necessario riprendere il dialogo, anche se limitato, con le forze
popolari. La tattica
terroristica del periodo scelbiano tende perciò a diminuire, anche se i 19 morti del periodo
'51-'59
denunciano che quando le pressioni popolari salgono oltre un certo livello, l'unica risposta è
sempre la
polizia e la violenza. È interessante notare quanta cura mette la DC nel giustificare l'operato
della polizia che spara e uccide.
Un'abile propaganda giustifica sempre tali omicidi come "luttuosi incidenti", cercando di farli
considerare
dall'opinione pubblica come eventi inevitabili. Così si esprime una circolare ministeriale del '57,
che
ribadendo l'inevitabilità di tali "incidenti", aggiungeva che tali episodi avvengono: "(...) o per
accertati
motivi casuali e accidentali o comunque esulanti da ogni responsabilità delle forze di polizia".
È questa
una delle testimonianze ufficiali più lampanti sull'impunità della
polizia. L'ultimo tentativo di "pace sociale armata" che fa la DC, nella persona di Ferdinando
Tambroni, sono
gli avvenimenti del luglio '60. L'ex centurione della milizia fascista, Tambroni tiene il ministero degli
Interni dal '55 al '58, ed in questa
sua reggenza aveva instaurato un metodo di lavoro ed un uso della polizia che riprende i più
tipici sistemi
fascisti, a lui ben noti. Costituisce infatti un "ufficio psicologico" di polizia e un "ufficio speciale di
polizia politica", chiaro tentativo di creare un'altra OVRA. Lo scandalo SIFAR, del luglio '64,
è l'esempio più fulgido per comprendere le iniziative tambroniane
degli anni '50. Gli avvenimenti del luglio '60, che partono dalla rivolta del popolo di Genova contro
il raduno fascista,
non sono tuttora dimenticati: dodici morti nelle piazze italiane, la polizia scatenata (40 minuti di fuoco
ininterrotto a Reggio Emilia). D'altra parte questi fatti drammatici rappresentano uno spartiacque tra
due
modi di usare la polizia; con la restaurazione democratica del governo Fanfani, e il centro-sinistra alle
porte, nasce la nuova politica dell'ordine pubblico: si privilegiano le cariche alle sparatorie, i candelotti
alle bombe a mano, le lezioni esemplari ai massacri indiscriminati. Se negli anni che vanno dal '63
al '67 nessun morto funesta le piazze, la polizia ricopre però un compito
relativamente nuovo nella società italiana: comincia a svolgere una funzione anti-sindacale e
anti-operaia.
Sinora gli scontri erano avvenuti o nelle piazze per motivi politici o contro i contadini, soprattutto
meridionali, che erano stati protagonisti del dopoguerra. I primi sintomi del risveglio operaio si
hanno alla FIAT nel '62, quando dopo otto anni in cui il colosso
industriale non ha perso un'ora di lavoro, cominciano i primi scioperi per il rinnovo del contratto. La
risposta immediata della FIAT è la polizia in fabbrica, impedendo i picchetti, fermando,
bastonando,
denunciando i militanti più attivi. La magistratura interviene solo per avallare l'operato della
polizia. D'altronde la connivenza tra
magistratura e polizia è ovvia, dato il rapporto di complementarietà funzionale esistente
tra le due
istituzioni repressive. La collaborazione tra di esse è resa ancora più stretta dal fatto
che, essendo sempre
rimasta sulla carta la costituzione di una vera e propria polizia giudiziaria, la magistratura lascia alla
polizia lo svolgimento di indagini, gli interrogatori, ecc., in sua vece. Prima di esaminare i metodi
di azione usati dalla polizia nello "stato democratico", è interessante
conoscere in quale contesto giuridico e politico si muove. Sebbene risorga a nuova gloria in una
Repubblica democratica, nata dalla lotta antifascista, abbiamo già visto che i suoi caratteri
fondamentali
non cambiano (perché non possono cambiare essendo connaturali alla sua funzione).
il Testo Unico di PS
Solo gli ingenui si stupiscono che il famigerato Testo Unico di PS, filiazione fascista, è
ancora oggi
l'unico testo valido cui si ispira la politica dell'ordine pubblico. Naturalmente accanto al testo unico e
al
regolamento di polizia esistono innumerevoli leggi, disposizioni, regolamenti, e nello stesso testo sono
stati fatti alcuni (pochi) cambiamenti o perché ritenuti incostituzionali o
perché caduti in disuso o perché
superati da altri articoli di legge. Ma tutto sommato nella Repubblica democratica le forze di polizia si
muovono ancora secondo i criteri ritenuti validi dal fascismo e ribaditi tacitamente dal nuovo regime,
che non li ha abrogati. Quali quindi i criteri che muovono l'attuale polizia italiana? Possiamo segnare
in quattro i concetti cardini
del T.U.: la generalità, la discrezionalità, la politicità e l'impunità. Tutti
concetti che servono a dare alla
polizia uno spazio vasto di azione, anche se questa azione va in realtà anche contro le stesse
leggi del
potere (ma in determinate situazioni nelle quali la lotta delle classi subalterne raggiunge livelli
più alti
e pericolosi per il potere, si capovolge il criterio per il quale la forza esiste per difendere il diritto e di
fatto è il diritto che difende la forza). Per generalità si intende la vastità delle
competenze e delle
attribuzioni lasciate alla polizia, dal ministro degli interni all'ultimo agente. È di fatto lo
straripamento della polizia in tutte le attività sia della collettività che del singolo, una
tutela
non richiesta, ma imposta che tuteli lo stato e la sua dottrina in ogni manifestazione, anche la più
privata.
È la più fascista delle libertà che si dà alla polizia che tende ad
imbavagliare il cittadino anche nella sua
vita privata. Agganciata alla generalità, che sarebbe l'ampiezza quantitativa del potere che
le leggi di polizia
concedono alle forze di polizia, sta la discrezionalità, che sarebbe invece l'ampiezza qualitativa.
Si collega
questa attribuzione a quell'aspetto dello stato poliziesco che tende, in situazioni ritenute pericolose per
l'ordine pubblico, a permettere alla polizia di agire anche contro la legge o al di sopra della legge. Basti
un esempio dei più noti e frequenti per sottolineare la discrezionalità dell'operato della
polizia: le
manifestazioni vietate per motivi di ordine pubblico. Dietro questa formula di rito, mai
dettagliatamente spiegata o dimostrata, si erge la discrezionalità della
polizia. Questo non è altro che il "diritto di polizia", infatti compito della polizia non
è più solamente far
applicare la legge, ma fare la legge. Terzo criterio base del T.U. è la politicità della
polizia. È più una forma che un contenuto, ma è appunto
sulla vaghezza e l'indeterminatezza di vari articoli che si lascia alla polizia di giudicare quali siano le
persone socialmente pericolose che debbono essere perseguite con i cento modi di prevenzione che
può
usare l'autorità poliziesca. Ultimo, ma non certo il meno importante, dei quattro concetti
base del T.U. è l'impunità delle azioni di
polizia. Non si tratta dell'impunità che proviene dalla protezione statale, come abbiamo
precedentemente
visto, ma dell'impunità fatta legge, cioè dalla impossibilità tecnica per il cittadino
che è stato leso nei suoi
diritti a procedere penalmente contro i reati della polizia. Sulla carta c'è la possibilità
di ricorrere contro
le azioni subite dall'autorità di PS, ma questa possibilità viene intralciata dalla legge che
difende qualsiasi
operazione di polizia avvenuta per atti politici, solo per gli atti amministrativi si può
intraprendere
un'azione penale. Il che vuol dire, dato che non c'è nessun regolamento che differenzia gli atti
politici da
quelli amministrativi, che qualsiasi operazione di polizia può essere giudicata politica e quindi
soggetta
ad impunità.
le torture
È ormai chiara la linea di azione che la polizia segue per il conseguimento dei suoi fini: la
prevenzione
come tattica sistematica, la repressione più o meno violenta, nelle situazioni critiche per il
potere.
Vediamo praticamente come consegue i suoi fini. Nella vasta opera di controllo e contenimento
della situazione certamente gli aiutanti più validi sono il
numeroso esercito di spioni e confidenti assoldati a tale scopo o costretti a farlo con varie forme di
pressione o di ricatto. In Italia infatti non esiste, o quasi, la polizia scientifica che da un capello sul
sofà
risolve il clamoroso caso: lo testimoniano le spese ufficiali del bilancio di PS nel quale ammontano a
1.400 milioni le spese per i confidenti e a 800 milioni le spese per la polizia scientifica e
giudiziaria. Come abbiamo detto c'è una categoria di "confidenti forzati". In questa
categoria rientrano, perlomeno
potenzialmente, molte di quelle persone che dovendo richiedere l'autorizzazione di PS per la loro
attività
lavorativa sono esposte all'arbitrio dei poliziotti cioè: edicolanti, negozi di armi, teatri, cinema,
tipografie,
affittacamere, sale da ballo, agenzie di vario tipo, tassisti, portinai, investigatori privati,
maestri di sci,
ecc. ecc. Come si può vedere da questo vasto campionario, moltissimi sono gli agganci per una
vasta
rete di informatori, anche non volenti, a vari livelli. Tra gli strumenti polizieschi "preventivi", non
vanno dimenticati il foglio di via "per chi non dia contezza
di sé" (e naturalmente è la polizia che decide se il cittadino la dà o non la
dà questa "contezza") ed il
moderno metodo di "spionaggio comodo" con le intercettazioni telefoniche con le quali la questura entra
"discretamente" nelle case dei cittadini. (A questo proposito è bene ricordare che la magistratura
durante
lo scandalo SIFAR aveva firmato a scatola chiusa un blocchetto di autorizzazioni per intercettazioni
telefoniche). Ben più gravi sono i metodi usati nella fase di repressione violenta, di cui
già abbiamo dato alcuni
esempi: sparatorie, cariche, pestaggi ai fermati. Non ultimo è l'uso della "tortura blanda"
agli indiziati al fine di estorcere la sospirata "confessione" (vera
o falsa) che tanto lustro porta all'abilità della polizia. A seguito di precise accuse, è
stata fatta nella seconda metà degli anni cinquanta un'indagine
parlamentare che porta alla scoperta ufficiale (e quindi estremamente per difetto) di 315 casi di tortura
moderata in uso nelle questure italiane. Comunque per non andare lontano nel tempo, basta ricordare
e la vicenda dei carabinieri torturatori di Bergamo, per constatare che al fine di ottenere la "confessione"
certi metodi sono ancora in uso. C'è però una differenza tra l'indagine ministeriale nella
vicenda dei
carabinieri di Bergamo, infatti allora non si procede contro nessuno, perché si scusa, come al
solito, la
polizia affermando che si tratta di interpretazione di alcuni e non di un uso corrente da parte della
polizia.
I carabinieri vengono invece imputati e condannati. Ma non si cada nell'errore di credere a una
violazione
dell'impunità che protegge la polizia, in realtà i carabinieri hanno voluto strafare
inserendo nei malcapitati
cittadini anche dei "tranquilli borghesi", gente per bene che naturalmente è stata creduta e alla
quale si
possono sacrificare anche undici carabinieri e un po' di prestigio delle forze di polizia. Un fatto parallelo
non è mai avvenuto per le accuse frequenti che i "sovversivi" o la "plebaglia" lanciano contro
la polizia,
per questi vige sempre la legge dell'impunità e della copertura politica del potere.
un'industria del Sud
La polizia è stata definita a ragione come una "industria del meridione". Infatti basta
guardare le
statistiche di arruolamento per constatare che l'80% dei poliziotti proviene dal centro-sud. Sono tutti
giovani che si trovano davanti all'alternativa di emigrare o entrare nella polizia. Quelli che scelgono la
seconda soluzione lo fanno anche per motivi psicologici: nelle zone sottosviluppate del meridione
l'operaio e il contadino godono di minore considerazione sociale del poliziotto e del carabiniere. La
divisa e l'autorità - anche se minima - che ne deriva li porta a considerarsi partecipi di quel
potere che
come lavoratori li schiaccia e come poliziotti li protegge. Disoccupazione e miseria sono dunque
le molle principali che spingono il proletario ed il sottoproletario
meridionale a entrare nella polizia. La loro provenienza da una situazione di sottosviluppo economico
e culturale, d'altronde, facilita il compito di rieducazione cui vengono sottoposti gli aspiranti poliziotti
negli appositi corsi di addestramento (sei mesi per la PS, nove per l'arma dei CC). In questi corsi,
per quanto riguarda l'aspetto culturale, ci si limita a poco più che ai rudimenti della lingua
italiana (soprattutto verbi come proibire, vietare, favorire, circolare, sciogliersi, sgombrare
ed alcuni
sostantivi come autorizzazione, verbale, ordine, vilipendio, oltraggio...) e si insiste su una
versione
poliziesca dell'educazione civica (Religione, Stato, Governo, Istituzioni, Autorità, ecc.). Si
insegna la
cieca fiducia nei superiori, dai più diretti ai più alti; si inculca il senso del dovere al di
sopra di tutto:
credere, obbedire, combattere. Per quanto riguarda l'aspetto "tecnico" dei corsi di PS,
l'addestramento approssimativo all'uso delle armi
(pochi colpi per ogni arma) indica già l'impiego prevalente: sparare nel mucchio, sulla folla, un
impiego
che non richiede molta abilità. Anche l'addestramento al combattimento individuale conferma
una
preparazione pressoché esclusiva dell'agente in funzione antisciopero, antisommossa,
antimanifestazione.
Analoghi, quanto a contenuto culturale, i corsi per carabinieri hanno peraltro un'impostazione
più "seria"
per quanto riguarda gli aspetti militari dell'addestramento. Sradicato dalla sua originaria cultura
contadina, con un bagaglio culturale sovrapposto dall'esterno e che
gli rimarrà estraneo tutta la vita, il poliziotto viene immesso nel vivo del tessuto sociale, in
mezzo a
conflitti di classe di cui gli sfugge il significato. Egli non è certo soddisfatto della sua condizione,
del
trattamento economico, della disciplina, del suo ruolo di salariato della repressione.... Un poliziotto, in
una lettera ad un settimanale, ha scritto pieno di rabbia che lui ed i suoi colleghi di basso rango sono
"degli schiavi, dei mercenari, dei venduti e degli affamati". Questa, come numerose altre lettere scritte
ai giornali negli ultimi anni, è sintomatica di un diffuso malcontento. Un malcontento che
però sinora si
è tradotto (a parte episodiche insubordinazioni), in modo funzionale al potere, in un aumento
dell'aggressività di poliziotti e carabinieri verso quelli che funzionari e comandanti indicano loro
di volta
in volta come gli avversari (scioperanti, studenti, ecc.).
la riforma della polizia
La storia delle forze di polizia, la loro struttura, il loro modo di essere e di operare indicano senza
possibilità di dubbio che la loro funzione essenziale non è certo la tutela della sicurezza
pubblica da
assassini e stupratori, ma quella di braccio secolare del potere (funzione svolta in passato dall'esercito,
dal quale del resto derivano per specializzazione, come s'è visto, i carabinieri). La storia della
polizia
dimostra anche che la violenza della polizia ed il potere ad essa concesso sono determinate non dalle
forme più o meno democratiche del sistema politico, ma dalla violenza del conflitto di classe,
in cui la
polizia combatte per la classe dominante (della quale le sue gerarchie superiori fanno del resto
parte). Suona quindi risibile la pretesa, avanzata da partiti che si ispirano alla lotta di classe, di
"democratizzare"
la polizia. Non perché la polizia non possa essere meno strapotente e brutale, più
rispettosa dei diritti
individuali, ecc. (altri Paesi ce ne danno l'esempio), ma perché tali caratteristiche delle forze
repressive
sono inversamente proporzionali all'asprezza della lotta di classe ed alla forza del movimento
rivoluzionario.
R. D. L.
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Eia, eia, altolà!
Carlo, 80 anni, artigiano, anarchico dal 1919 mi riceve nel vecchio stabile che gli è servito
come
laboratorio e come abitazione negli ultimi 30 anni. Avvolto da un vecchio cappotto grigio, con un
colbacco spelacchiato, Carlo, seduto al tavolo scricchiolante, tra una boccata e l'altra di pipa, mi fissa
con occhi acuti e vivaci. "Cuntem su", cosa vuoi sapere da questo povero
vecchio? - Sai che il governo vuol fare una legge con la quale si ripristina il fermo preventivo
di polizia; tu cosa
ne pensi? Cosa vuoi che ti risponda, lo stato è in fondo sempre uno stato di polizia.
Le regole per mantenere il
potere sono sempre le stesse. Quel poco di libertà che abbiamo glielo abbiamo strappato, allo
stato.
Sarebbe da ingenui pensare che non cerchi di togliercelo di nuovo. - Tu non hai mai subito
il fermo preventivo? Molte volte, soprattutto dal 1920 al 1940, perlopiù quando
venivano a Milano delle "autorità" in visita
ufficiale, cioè frequentemente. Spesso però, si riusciva a evitare il fermo, tenendosi
informati sui
calendari delle visite ufficiali e rendendosi quindi irreperibili in quelle circostanze, andando qualche
giorno in campagna o da qualche parente fuori Milano. Chi aveva invece la libertà vigilata,
cioè
doveva farsi trovare in casa dopo un certo orario, finiva col presentarsi addirittura in questura
evitando di essere chiamato. - Ti ricordi qualche fermo in modo
particolare? Sì, il primo, perché mi è successo proprio il giorno in
cui mi sono sposato. Al mattino, in comune, con
la solita veloce cerimonia avevo accontentato la mia compagna che non era anarchica; a mezzogiorno
con due testimoni siamo andati in trattoria a festeggiare. Nel tardo pomeriggio, come "du piciuncin"
ci siamo ritirati in quell'appartamentino che avevo preso in affitto dalle parti di Porta Genova; ed
è
lì che alle nove di sera "m'han impachetat" e portato prima in questura e poi a S.
Vittore. - In genere a che ora ti venivano a prendere? Quasi sempre nel bel mezzo
della notte, ma alcune volte per essere più d'effetto anche sul luogo di
lavoro. - Come avveniva la "cerimonia" del fermo? "Nient". Ci portavano in
questura, ci tenevano nel camerone per un po' e poi, a seconda del numero,
ci dividevano e ci trattenevano in questura o ci mandavano a S. Vittore. Ti dirò che in genere
venivano
a prenderci in tre: un sottufficiale e due "milit". "Te purtaven dent", indi ti lasciavano senza neanche
le stringhe.... Ah, dimenticavo: l'orologio se era d'oro ti veniva ritirato e segnato come orologio di
metallo giallo, sul libro delle ricevute. - Ma quando vi smistavano e vi mandavano a S.
Vittore vi mettevano in un "raggio" speciale, per
politici? Durante i primi fermi il numero era elevato ed in quei casi spesso, dopo averci diviso
in gruppi di tre
persone, ci chiudevano nelle celle del secondo raggio finché c'era posto, i rimanenti venivano
divisi
e messi nelle celle dei delinquenti comuni. - Quanti giorni durava il fermo? Due,
tre, quattro giorni, anche una settimana, a seconda di quanto tempo durava la visita dei regnanti
o del duce o delle altre "autorità". - Secondo te quali erano i lati più negativi
del fermo? Se avevi un lavoro lo perdevi perché, per quanto il datore di lavoro
potesse essere elastico, il fatto che
un dipendente perdesse ore produttive o giornate non era ammissibile e perché l'avere un
dipendente
sovversivo significava trovarsi in casa come niente dei fascisti che ti bastonavano o che ti creavano
grane in quanto amico e datore di lavoro di antifascisti. - Ma come si sopravviveva - in quel
clima? Facendo l'ambulante più o meno clandestino, facendo lo strillone o facendo
piccoli lavori come
artigiano presso amici. La maggior parte visse 20 anni di miseria. Al compagno Fedeli, per esempio
morì il figlio, appena nato, di fame e di stenti, qui a Milano, in un sottotetto in cui viveva con
la sua
compagna.
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