Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 2 nr. 11
marzo 1972


Rivista Anarchica Online

Alfa Romeo
di Gianluigi Cereda

Dalla lunga lotta degli operai dell'azienda parastatale milanese si possono trarre indicazioni per le vertenze del prossimo autunno.

La lotta all'Alfa Romeo si è conclusa. Dopo la conclusione della vertenza, la dirigenza dell'azienda ha affermato, come al solito, di dover sopportare degli aggravi molto pesanti e che pertanto si appella alla volontà dei lavoratori, al fine di incrementare la produzione.
In questi anni, le lotte all'Alfa sono state strettamente legate alle lotte delle altre aziende pubbliche. I legami di tali aziende hanno caratteristiche qualitative che differenziano, anche se non isolano, le lotte di tali aziende da quelle che la classe operaia ha condotto su tutto l'arco produttivo. Infatti le aziende a partecipazione statale non sono più, come all'inizio, l'ospedale dell'industria privata (l'Alfa Romeo venne acquistata dall'IRI nel 1953 quando la produzione annua, limitata ai soli impianti del Portello, non superava le 100 unità). Per inciso, va inoltre rilevato che, pur essendo denominata "a partecipazione statale", l'Alfa Romeo è in realtà completamente statale, in quanto appartiene per il 48,99% all'IRI e per il 51% alla Finmeccanica, che è una componente dell'IRI.
Due esempi sono significativi per inquadrare il nuovo ruolo assunto dalle aziende pubbliche:
a) Il settore siderurgico che negli anni '50 promuove la modernizzazione e lo sviluppo della produzione di acciaio.
b) La nascita parallela dell'ENI, il cui peso nella situazione economica nazionale ed internazionale diviene ben presto determinante.
In questo periodo assistiamo all'affermazione autonoma delle imprese pubbliche sia all'interno del paese e, soprattutto, sui mercati internazionali e alla nascita di un imperialismo italiano che già nel '67 si scontra parzialmente con quello americano durante la guerra dei sei giorni.
Nello stesso tempo il cosiddetto settore "privato" (FIAT, Pirelli, Olivetti, ecc.) si avviava verso la creazione delle società multinazionali.
Il tipo di crescita dell'azienda pubblica generava tutta una serie di contraddizioni, la sua modernizzazione, il suo allinearsi con i gruppi oligopolistici più avanzati, comportava infatti una trasformazione radicale del tipo di organizzazione del lavoro in fabbrica che potesse garantire il massimo di espansione produttiva e di aumento dei profitti.

Ristrutturazione Alfa

All'Alfa Romeo questo processo di ristrutturazione è iniziato con l'inserimento della lavorazione a catena ed è proseguito negli anni seguenti con l'adozione di macchine a controllo numerico (che eseguono la lavorazione automaticamente ed all'operaio rimangono solo le operazioni di carico, scarico e controllo) con un estrema ripetitività del lavoro ed un fortissimo aumento del ritmo, essendo elevatissima la velocità di queste macchine. Ultimamente si sono aggiunte le macchine "trasfert", vere e proprie linee di lavorazione completamente automatiche. Particolarmente massiccia ad Arese, questa nuova organizzazione del lavoro è stata notevolmente introdotta anche al Portello, dove esistono attualmente sia linee a catena che linee a flusso. La produzione risulta quindi sempre più scomposta in una serie di operazioni ripetitive e parcellizzate, le cosiddette "mansioni", per le quali non è più richiesta una capacità professionale, ma semplicemente una capacità di adattamento a tutta una serie di operazioni sostanzialmente dello stesso tipo. Assistiamo di conseguenza ad un massiccio aumento di manodopera (1967: 10.167 dipendenti; 1968: 12.950; 1969: 13.893; 1970: 16.010) determinato dalla politica di espansione perseguita dall'Alfa.
L'espansione dell'Alfa Romeo inizia nel 1968, sia a livello nazionale che internazionale. In tale epoca viene infatti creata l'Alfa Romeo International con sede in Lussemburgo: questa società ha lo scopo di detenere le partecipazioni azionarie all'estero per operare al di fuori delle leggi fiscali italiane e per trattare forniture ed impianti con paesi razzisti o fascisti (Sud Africa, Rhodesia, Spagna, Grecia, Brasile) senza però provocare ripercussioni politiche in Italia. I contatti con i paesi "socialisti" (Cuba, Cina, Cecoslovacchia) vengono trattati tramite la Cogi, della quale è presidente Luraghi (presidente dell'Alfa Romeo).
Nello stesso periodo viene posta la prima pietra dell'Alfa Sud, che viene creata per numerose ragioni:
1) Un nuovo stabilimento al nord, e la conseguente crescita immigratoria, avrebbero fatto crollare le già misera attrezzature sociali (non dimentichiamo che l'Alfa è statale e quindi sarebbe stato un doppio suicidio);
2) La manodopera del sud è meno cara e così facendo meno facilmente politicizzabile;
3) La costruzione è stata finanziata dalla Cassa del Mezzogiorno;
4) Le forniture per la costruzione sono arrivate tutte dal nord, a cui sono pertanto andati tutti i profitti.
Ecco quindi che nel 1970 l'Alfa è un complesso a livello mondiale che comprende:
- cinque stabilimenti in Italia
- nove stabilimenti di fabbricazione e montaggio all'estero
- quattromila punti di vendita
- tredici società consociate e tre filiali all'estero.
L'aumento di manodopera relativo a queste ristrutturazioni coinvolge essenzialmente una classe operaia giovane non qualificata, che viene inserita proprio nei reparti direttamente produttivi.
Queste trasformazioni dell'organizzazione del lavoro spiegano perché l'Alfa, fino alla metà degli anni sessanta una fabbrica relativamente tranquilla, esprima oggi gli stessi contenuti e le stesse determinazioni delle altre grandi fabbriche metalmeccaniche.

Vertenze Alfa dal 1969

Per le aziende a partecipazione statale, la vertenza del '69 venne chiusa in anticipo rispetto alle aziende private. In quel periodo fu concesso abbastanza al sindacato con la tacita contropartita che, il prestigio così acquistato, fosse impiegato a garantire la "pace sociale" per l'immediato futuro. Tutto questo il sindacato ha cercato affannosamente di garantirlo. Le vertenze che si riaprono nel 1970 per i contratti integrativi aziendali ripropongono con forza obiettivi che di per sé mettono in discussione la stessa organizzazione tecno-burocratica del lavoro:
1) Inquadramento operaio in quattro livelli di categoria con passaggi automatici per tutti e quattro.
2) Abolizione del cottimo individuale.
3) Una quattordicesima di L. 100.000.
Subito dopo le ferie la lotta si apre con forme molto incisive, picchetti, blocchi delle vetture in uscita, scioperi a scacchiera ed articolati. La produzione cala del 40% ed è a questo punto che il sindacato assolve il suo compito di controllo fino in fondo, recuperando la protesta operaia che si era espressa a singhiozzo inframmezzata da momenti di riflusso, e rinvia tutta la risoluzione della vertenza a delle commissioni paritetiche che svolgono l'unica funzione di ridare fiato alla organizzazione aziendale. Infatti, in questo periodo, ad un atteggiamento illuminato si sostituisce una posizione assai rigida sia livello di trattative che a livello di repressione all'interno della fabbrica. La gestione sindacale porta ad un nulla di fatto delle commissioni paritetiche, messe in piedi al termine delle lotte del '70.

La lotta di quest'anno

Nell'autunno del '71, i sindacati hanno riaperto la vertenza su una piattaforma notevolmente più arretrata rispetto a quella dell'anno prima. Il cottimo, la gerarchia di fabbrica, i ritmi, non vengono messi in discussione essendo questi gli strumenti su cui si basa l'organizzazione dello sfruttamento e, per le qualifiche viene proposto un compromesso mediocre, che in ultima analisi si basa sul principio tecnocratico della professionalità. La scelta obiettivamente perdente in partenza fatta dai sindacati si scontra con una combattività operaia ed all'interno di questa gestione sindacale si è assistito a tutta una serie di spunti autonomi che in parte denunciano segni di sfiducia nella gestione sindacale delle lotte in senso riformistico. Infatti, la piattaforma molto spesso è stata la grande assente all'interno delle discussioni operaie e autonomamente si è cercato di adottare forme di lotta che rifiutassero le condizioni di lavoro e la strutturazione aziendale. Il blocco stradale di viale Certosa, dopo l'ennesimo rinvio delle trattative, ha indicato una volontà di collegamento, di portare la lotta all'esterno. I cortei interni dimostrano un'effettiva volontà di rompere il crumiraggio. Tutti questi spunti autonomi sono stati in ogni momento e con ogni mezzo recuperati dai sindacati. Un chiaro esempio è l'occupazione della fabbrica che è partita su una proposta dell'assemblea degli operai per 48 ore di occupazione, mentre invece si è assistito ad un affannoso recupero da parte del PCI. Le 48 ore sono diventate 24 e l'occupazione è stata trasformata da momento politico di appropriazione della fabbrica - centro di confronto e di discussione - in "assemblea permanente" cioè una passerella di vari onorevoli comizianti, addirittura un democristiano (non dimentichiamo che si inizia a respirare aria di elezioni).
Ad Arese, oltre alle due ore di sciopero giornaliere come al Portello, per tutto il tempo della lotta gli operai hanno sempre portato avanti il blocco dei prodotti finiti. Di fronte al blocco delle merci il potere ha sempre cercato, in ogni modo, di reagire, facendo intervenire la polizia che, mitra in mano, ha rotto i picchetti e, di fronte al rifiuto di uscire da parte dei camionisti, i poliziotti stessi si sono messi alla guida degli autotreni e ne hanno fatti uscire undici. A questa provocazione gli operai hanno reagito e sono stati divelti binari che servono al trasporto del prodotto finito dalla fabbrica alla stazione. Su questo episodio il sindacato ed il PCI hanno mostrato di nuovo il loro vero volto di cani da guardia del loro nuovo padrone: lo stato. Infatti, l'Unità del giorno dopo usciva con un trafiletto che definiva l'episodio una provocazione fascista ed anche dopo che gli operai dell'assemblea autonoma avevano distribuito un volantino in cui si assumevano la paternità dell'azione, hanno ribadito le loro affermazioni accomunando gli operai a dei provocatori fascisti, scambiando volutamente quello che è un gesto di sabotaggio della produzione con un attentato fascista.

Il contratto bidone

La gestione sindacale ha portato alla firma di un contratto bidone: 4 livelli di categoria, definiti sulla carta automatici, ma in realtà la categoria non perde assolutamente nulla come strumento di divisione e di selezione del padrone. Per passare dalla quarta alla terza e dalla terza alla seconda ci vogliono tre anni di anzianità (previo il riconoscimento da parte dell'azienda dell'idoneità alla mansione). Per le altre categorie l'azienda si impegna ad organizzare all'interno dei corsi di perfezionamento (o corsi di discriminazione) che già ammettono due tipi di selezione:
a) scelta per la frequenza dei corsi;
b) scelta dei meritevoli di ogni corso.
Tutto questo dimostra come il sindacato si sia attenuto alle direttive del potere (intervista di Luraghi a L'Espresso) che accettava aumenti salariali ma che non intendeva assolutamente mettere in discussione l'organizzazione del lavoro, su cui si basa il loro reale potere e lo sfruttamento della nuova classe padronale.
Va tenuto presente che la vertenza dell'Alfa Romeo ha rappresentato una prova generale in vista delle scadenze contrattuali del 1972. Questa considerazione non ha di certo indotto il fronte padronale ad ammorbidire le proprie posizioni e con la collaborazione dei sindacati ha recuperato gli spunti di lotta autonoma degli operai, prendendoli sia per stanchezza (150 ore complessive di sciopero) e sia perché tutta una serie di indicazioni non hanno trovato una generalizzazione, rischiando così di rimanere dei puri episodi non incisivi nella conduzione generale della lotta.

Gianluigi Cereda