Rivista Anarchica Online
Alfa Romeo
di Gianluigi Cereda
Dalla lunga lotta degli operai dell'azienda parastatale milanese si possono trarre indicazioni per
le vertenze del prossimo autunno.
La lotta all'Alfa Romeo si è conclusa. Dopo la conclusione della
vertenza, la dirigenza dell'azienda ha
affermato, come al solito, di dover sopportare degli aggravi molto pesanti e che pertanto si appella alla
volontà dei lavoratori, al fine di incrementare la produzione. In questi anni, le lotte all'Alfa
sono state strettamente legate alle lotte delle altre aziende pubbliche. I
legami di tali aziende hanno caratteristiche qualitative che differenziano, anche se non isolano, le lotte
di tali aziende da quelle che la classe operaia ha condotto su tutto l'arco produttivo. Infatti le aziende
a partecipazione statale non sono più, come all'inizio, l'ospedale dell'industria privata (l'Alfa
Romeo
venne acquistata dall'IRI nel 1953 quando la produzione annua, limitata ai soli impianti del Portello, non
superava le 100 unità). Per inciso, va inoltre rilevato che, pur essendo denominata "a
partecipazione
statale", l'Alfa Romeo è in realtà completamente statale, in quanto appartiene per il
48,99% all'IRI e per
il 51% alla Finmeccanica, che è una componente dell'IRI. Due esempi sono significativi per
inquadrare il nuovo ruolo assunto dalle aziende pubbliche: a) Il settore siderurgico che negli anni
'50 promuove la modernizzazione e lo sviluppo della produzione
di acciaio. b) La nascita parallela dell'ENI, il cui peso nella situazione economica nazionale ed
internazionale diviene
ben presto determinante. In questo periodo assistiamo all'affermazione autonoma delle imprese
pubbliche sia all'interno del paese
e, soprattutto, sui mercati internazionali e alla nascita di un imperialismo italiano che già nel '67
si
scontra parzialmente con quello americano durante la guerra dei sei giorni. Nello stesso tempo il
cosiddetto settore "privato" (FIAT, Pirelli, Olivetti, ecc.) si avviava verso la
creazione delle società multinazionali. Il tipo di crescita dell'azienda pubblica generava tutta
una serie di contraddizioni, la sua modernizzazione,
il suo allinearsi con i gruppi oligopolistici più avanzati, comportava infatti una trasformazione
radicale
del tipo di organizzazione del lavoro in fabbrica che potesse garantire il massimo di espansione
produttiva e di aumento dei profitti.
Ristrutturazione Alfa
All'Alfa Romeo questo processo di ristrutturazione è iniziato con l'inserimento della
lavorazione a catena
ed è proseguito negli anni seguenti con l'adozione di macchine a controllo numerico (che
eseguono la
lavorazione automaticamente ed all'operaio rimangono solo le operazioni di carico, scarico e controllo)
con un estrema ripetitività del lavoro ed un fortissimo aumento del ritmo, essendo elevatissima
la
velocità di queste macchine. Ultimamente si sono aggiunte le macchine "trasfert", vere e proprie
linee
di lavorazione completamente automatiche. Particolarmente massiccia ad Arese, questa nuova
organizzazione del lavoro è stata notevolmente introdotta anche al Portello, dove esistono
attualmente
sia linee a catena che linee a flusso. La produzione risulta quindi sempre più scomposta in una
serie di
operazioni ripetitive e parcellizzate, le cosiddette "mansioni", per le quali non è più
richiesta una capacità
professionale, ma semplicemente una capacità di adattamento a tutta una serie di operazioni
sostanzialmente dello stesso tipo. Assistiamo di conseguenza ad un massiccio aumento di manodopera
(1967: 10.167 dipendenti; 1968: 12.950; 1969: 13.893; 1970: 16.010) determinato dalla politica di
espansione perseguita dall'Alfa. L'espansione dell'Alfa Romeo inizia nel 1968, sia a livello nazionale
che internazionale. In tale epoca
viene infatti creata l'Alfa Romeo International con sede in Lussemburgo: questa società ha lo
scopo di
detenere le partecipazioni azionarie all'estero per operare al di fuori delle leggi fiscali italiane e per
trattare forniture ed impianti con paesi razzisti o fascisti (Sud Africa, Rhodesia, Spagna, Grecia, Brasile)
senza però provocare ripercussioni politiche in Italia. I contatti con i paesi "socialisti" (Cuba,
Cina,
Cecoslovacchia) vengono trattati tramite la Cogi, della quale è presidente Luraghi (presidente
dell'Alfa
Romeo). Nello stesso periodo viene posta la prima pietra dell'Alfa Sud, che viene creata per
numerose ragioni:
1) Un nuovo stabilimento al nord, e la conseguente crescita immigratoria, avrebbero fatto crollare
le già
misera attrezzature sociali (non dimentichiamo che l'Alfa è statale e quindi sarebbe stato un
doppio
suicidio); 2) La manodopera del sud è meno cara e così facendo meno facilmente
politicizzabile; 3) La costruzione è stata finanziata dalla Cassa del Mezzogiorno; 4) Le
forniture per la costruzione sono arrivate tutte dal nord, a cui sono pertanto andati tutti i
profitti. Ecco quindi che nel 1970 l'Alfa è un complesso a livello mondiale che
comprende: - cinque stabilimenti in Italia - nove stabilimenti di fabbricazione e montaggio
all'estero - quattromila punti di vendita - tredici società consociate e tre filiali
all'estero. L'aumento di manodopera relativo a queste ristrutturazioni coinvolge essenzialmente una
classe operaia
giovane non qualificata, che viene inserita proprio nei reparti direttamente produttivi. Queste
trasformazioni dell'organizzazione del lavoro spiegano perché l'Alfa, fino alla metà degli
anni
sessanta una fabbrica relativamente tranquilla, esprima oggi gli stessi contenuti e le stesse determinazioni
delle altre grandi fabbriche metalmeccaniche.
Vertenze Alfa dal 1969
Per le aziende a partecipazione statale, la vertenza del '69 venne chiusa in anticipo rispetto alle
aziende
private. In quel periodo fu concesso abbastanza al sindacato con la tacita contropartita che, il prestigio
così acquistato, fosse impiegato a garantire la "pace sociale" per l'immediato futuro. Tutto
questo il
sindacato ha cercato affannosamente di garantirlo. Le vertenze che si riaprono nel 1970 per i contratti
integrativi aziendali ripropongono con forza obiettivi che di per sé mettono in discussione la
stessa
organizzazione tecno-burocratica del lavoro: 1) Inquadramento operaio in quattro livelli di categoria
con passaggi automatici per tutti e quattro. 2) Abolizione del cottimo individuale. 3)
Una quattordicesima di L. 100.000. Subito dopo le ferie la lotta si apre con forme molto incisive,
picchetti, blocchi delle vetture in uscita,
scioperi a scacchiera ed articolati. La produzione cala del 40% ed è a questo punto che il
sindacato
assolve il suo compito di controllo fino in fondo, recuperando la protesta operaia che si era espressa a
singhiozzo inframmezzata da momenti di riflusso, e rinvia tutta la risoluzione della vertenza a delle
commissioni paritetiche che svolgono l'unica funzione di ridare fiato alla organizzazione aziendale.
Infatti, in questo periodo, ad un atteggiamento illuminato si sostituisce una posizione assai rigida sia
livello di trattative che a livello di repressione all'interno della fabbrica. La gestione sindacale porta ad
un nulla di fatto delle commissioni paritetiche, messe in piedi al termine delle lotte del '70.
La lotta di quest'anno
Nell'autunno del '71, i sindacati hanno riaperto la vertenza su una piattaforma notevolmente
più arretrata
rispetto a quella dell'anno prima. Il cottimo, la gerarchia di fabbrica, i ritmi, non vengono messi in
discussione essendo questi gli strumenti su cui si basa l'organizzazione dello sfruttamento e, per le
qualifiche viene proposto un compromesso mediocre, che in ultima analisi si basa sul principio
tecnocratico della professionalità. La scelta obiettivamente perdente in partenza fatta dai
sindacati si
scontra con una combattività operaia ed all'interno di questa gestione sindacale si è
assistito a tutta una
serie di spunti autonomi che in parte denunciano segni di sfiducia nella gestione sindacale delle lotte in
senso riformistico. Infatti, la piattaforma molto spesso è stata la grande assente all'interno delle
discussioni operaie e autonomamente si è cercato di adottare forme di lotta che rifiutassero le
condizioni
di lavoro e la strutturazione aziendale. Il blocco stradale di viale Certosa, dopo l'ennesimo rinvio delle
trattative, ha indicato una volontà di collegamento, di portare la lotta all'esterno. I cortei interni
dimostrano un'effettiva volontà di rompere il crumiraggio. Tutti questi spunti autonomi sono
stati in ogni
momento e con ogni mezzo recuperati dai sindacati. Un chiaro esempio è l'occupazione della
fabbrica
che è partita su una proposta dell'assemblea degli operai per 48 ore di occupazione, mentre
invece si è
assistito ad un affannoso recupero da parte del PCI. Le 48 ore sono diventate 24 e l'occupazione
è stata
trasformata da momento politico di appropriazione della fabbrica - centro di confronto e di discussione
-
in "assemblea permanente" cioè una passerella di vari onorevoli comizianti, addirittura un
democristiano
(non dimentichiamo che si inizia a respirare aria di elezioni). Ad Arese, oltre alle due ore di sciopero
giornaliere come al Portello, per tutto il tempo della lotta gli
operai hanno sempre portato avanti il blocco dei prodotti finiti. Di fronte al blocco delle merci il potere
ha sempre cercato, in ogni modo, di reagire, facendo intervenire la polizia che, mitra in mano, ha rotto
i picchetti e, di fronte al rifiuto di uscire da parte dei camionisti, i poliziotti stessi si sono messi alla guida
degli autotreni e ne hanno fatti uscire undici. A questa provocazione gli operai hanno reagito e sono stati
divelti binari che servono al trasporto del prodotto finito dalla fabbrica alla stazione. Su questo episodio
il sindacato ed il PCI hanno mostrato di nuovo il loro vero volto di cani da guardia del loro nuovo
padrone: lo stato. Infatti, l'Unità del giorno dopo usciva con un trafiletto che definiva l'episodio
una
provocazione fascista ed anche dopo che gli operai dell'assemblea autonoma avevano distribuito un
volantino in cui si assumevano la paternità dell'azione, hanno ribadito le loro affermazioni
accomunando
gli operai a dei provocatori fascisti, scambiando volutamente quello che è un gesto di sabotaggio
della
produzione con un attentato fascista.
Il contratto bidone
La gestione sindacale ha portato alla firma di un contratto bidone: 4 livelli di categoria, definiti sulla
carta
automatici, ma in realtà la categoria non perde assolutamente nulla come strumento di divisione
e di
selezione del padrone. Per passare dalla quarta alla terza e dalla terza alla seconda ci vogliono tre anni
di anzianità (previo il riconoscimento da parte dell'azienda dell'idoneità alla mansione).
Per le altre
categorie l'azienda si impegna ad organizzare all'interno dei corsi di perfezionamento (o corsi di
discriminazione) che già ammettono due tipi di selezione: a) scelta per la frequenza dei
corsi; b) scelta dei meritevoli di ogni corso. Tutto questo dimostra come il sindacato si sia
attenuto alle direttive del potere (intervista di Luraghi a
L'Espresso) che accettava aumenti salariali ma che non intendeva assolutamente mettere in discussione
l'organizzazione del lavoro, su cui si basa il loro reale potere e lo sfruttamento della nuova classe
padronale. Va tenuto presente che la vertenza dell'Alfa Romeo ha rappresentato una prova generale
in vista delle
scadenze contrattuali del 1972. Questa considerazione non ha di certo indotto il fronte padronale ad
ammorbidire le proprie posizioni e con la collaborazione dei sindacati ha recuperato gli spunti di lotta
autonoma degli operai, prendendoli sia per stanchezza (150 ore complessive di sciopero) e sia
perché
tutta una serie di indicazioni non hanno trovato una generalizzazione, rischiando così di
rimanere dei puri
episodi non incisivi nella conduzione generale della lotta.
Gianluigi Cereda
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