Rivista Anarchica Online
La Cina è vicina: a chi?
di Emilio Cipriano - Michele Reggio
Discorso sulle strutture socio-economiche cinesi
Le recenti prese di posizioni della Cina su temi di politica internazionale,
culminate nella sua entrata
all'ONU e nel recente viaggio di Nixon, hanno riproposto la discordanza di queste con l'immagine
propagandistica diffusa e quasi universalmente accettata, l'esigenza di un'analisi critica del paese della
cosiddetta "rivoluzione permanente". Come è noto, la R.P.C. ha sostanzialmente appoggiato
il governo Pakistano nella repressione dei moti
contadini autonomisti del Bengala, schierandosi poi dalla parte dello stesso nel conflitto indo-pakistano;
ha collaborato con il governo di Ceylon nella lotta alla guerriglia interna all'isola; ha esplicitamente
solidarizzato con il governo sudanese nella feroce repressione del "golpe" attuato dai militari di sinistra;
ha dato l'avvio ad ampie relazioni diplomatico-economiche con gli U.S.A. Nei vari casi, per
giustificare il proprio atteggiamento, il Partito Comunista Cinese ha addotto tesi
assurde e semplicistiche: in merito a Ceylon sostenendo che si trattava di eventi interni tali per cui
appoggiare la guerriglia avrebbe significato limitare la sovranità nazionale (no comment!)
dell'isola; in
relazione alle vicende del Bangladesh ha sostenuto la stessa tesi, denunciando, inoltre, la gestione
politica
contro-rivoluzionaria dell'insurrezione e fingendo di ignorare che, in ogni caso, esistevano delle radici
ben precise, nel tessuto sociale, che avevano prodotto la rivolta contadina-popolare (stato di
sfruttamento semi-coloniale della regione bengalese da parte del governo e dei gruppi di potere
economico pakistano occidentale, reddito annuo pro-capite più basso di quello di ogni altro
paese del
mondo, ecc.); nel caso dei rapporti con i governi e con i blocchi industriali dell'Ovest, ha distinto
rapporti
economici da rapporti diplomatici, il che costituisce una colossale mistificazione dal momento che
è
provato che i rapporti economici preludono ai rapporti diplomatici, o viceversa, ma che, in ogni caso,
questi due tipi di rapporti sono interdipendenti (non a caso prima di allacciare ufficialmente rapporti
diplomatici fra Italia e Cina esisteva uno scambio pari a 53 miliardi annui). Cercheremo, nelle
seguenti note, di analizzare le reali motivazioni della collocazione internazionale della
R.P.C. e delle sue più o meno recenti prese di posizione (che non possono più essere
valutate a livello
episodico dato il ritmo incessante con cui si susseguono), considerando questi fatti come strettamente
connessi all'organizzazione sociale interna di questo ultimo mito marxista.
La presa del potere
Quando nel 1949 il Partito Comunista Cinese prese il potere, esso era un apparato politico-militare
che
aveva diretto solo delle lotte contadine. La natura del P.C.C. risale all'indomani del soffocamento
della rivoluzione cinese del 1927 da parte delle
forze coalizzate del Kuomintang con le principali potenze occidentali e con l'assenso della dirigenza
russa. Il P.C.C. aveva, prima del 1927, un certo inserimento nel proletariato delle grandi
città (per la maggior
parte portuali), ma la repressione dell'insurrezione da parte delle forze nazionaliste causò un
forte
regresso del movimento operaio e obbligò il P.C.C. a ricostituirsi nelle campagne (1928). La
natura
contraddittoria del P.C.C. ("partito operaio" costituito da un apparato politico-militare che dirigeva solo
lotte contadine) portava in sé i germi dei conflitti che opposero, durante il periodo detto della
"rivoluzione culturale" (1966-1969), diverse fazioni antagoniste tanto in seno al partito quanto nelle
fabbriche, nelle università e nelle piazze. La rivoluzione cinese non rappresenta affatto il
culmine delle lotte degli sfruttati, bensì la presa del
potere realizzata da un esercito "comunista". Non vi furono in Cina consigli operai ed altre
organizzazioni autonome e quando nel 1949 gli operai formarono spontaneamente dei "comitati di
fabbrica" essi furono distrutti e sostituiti da comitati diretti da quadri militari del partito.
La ricostruzione
La riorganizzazione dell'economia cinese nel periodo 1949-1952 prese le mosse da una situazione
devastata e inflazionata. Si posero obiettivi imposti autoritariamente, prendendo a modello le linee di
sviluppo dell'economia sovietica. Fu promossa un'industrializzazione accelerata del paese, con
particolare
riguardo all'industria pesante, mentre all'agricoltura fu assegnato il compito di sostenere e pagare il costo
della industrializzazione. Nelle campagne le terre furono "collettivizzate" e la maggior parte dei
contadini furono raggruppati nelle
"aziende di stato". Nell'attuazione di queste misure già appare la funzione dello Stato Cinese
nel controllo politico-economico dei lavoratori cinesi, attraverso l'instaurazione di strutture produttive
dirette da emissari del
governo centrale che dovevano far applicare con durezza le linee imposte dal Partito.
Le due linee dello sviluppo cinese
Nell'applicazione della riorganizzazione e dei primi piani quinquennali, le divergenze già
insite nella
dirigenza cinese affioreranno con maggiore evidenza. Queste divergenze si sintetizzeranno efficacemente
in: "tocca all'azione politica o ai principi economici dirigere l'economia?". La corrente facente capo
a Liu Shao-ci sosteneva la priorità dei principi economici, per cui il regime
doveva porsi come primo obiettivo l'aumento della produzione con la promozione della efficienza in tutti
i settori. Questo essenzialmente per poter elevare il tenore di vita della popolazione e conseguentemente
poter procedere a riforme istituzionali di tipo socialista. Tutto il sistema doveva tendere alla costruzione
di grandi complessi a tecnologia avanzata, nel settore dell'industria pesante: grandi acciaierie, centrali
elettriche, grandi miniere, grandi complessi chimici. I tecnici dovevano essere la guida di questa
costruzione economica, essendo i soli in grado - per definizione - di dirigere efficacemente la produzione
e di indirizzarla verso le forme migliori sia come utilizzo degli investimenti che come scelte
economiche. Per raggiungere obiettivi ottimali bisognava inoltre destinare incentivi materiali:
appannaggi, premi di
produttività, ecc., oppure dare la possibilità alle imprese di trattenere parte dei profitti
conseguiti per il
reinvestimento. Liu Shao-ci ci appare quindi un marxista oltremodo ortodosso, che individua solo
nello sviluppo
economico il mezzo per giungere al socialismo negando ogni possibilità di diffondere il
socialismo prima
di raggiungere un elevato grado di sviluppo tecnologico. La linea della corrente facente capo a Mao
Tse-tung molto più accortamente vedeva il pericolo insito
in questa tendenza (che tra l'altro è stata la predominante dal 1949 al 1966), soprattutto tenuto
conto
della realtà cinese, cioè di un paese essenzialmente agricolo. Seguire la linea di Liu
Shao-ci significava ampliare a dismisura il diaframma fra città e campagna.
L'industrializzazione non doveva essere concentrata in grossi agglomerati attorniati da deserti, ma
bisognava creare un decentramento che, anche se non pienamente funzionale secondo gli schemi classici
dell'economia, sarebbe stato funzionale soprattutto con le esigenze di poter dirigere le immense masse
cinesi con un potere che non fosse troppo accentrato e in definitiva semi-impotente. In questa
prospettiva si pone lo slogan "la politica al posto di comando" che significa tralasciare le
convenienze puramente economiche per poter insediare più saldamente il proprio potere nelle
masse.
Si tratta in definitiva della forma più intelligente, sino ad ora conosciuta, per perpetuare la
disuguaglianza; comandare sì, ma con intelligenza e capacità. Appaiono allora
chiare le parole dell'articolo "La via cinese all'industrializzazione socialista" (1): "Per
quanto riguarda il movimento rivoluzionario di massa, noi dobbiamo guidarlo con il
marxismo-leninismo-pensiero di Mao Tse-tung. Stare in coda, cioè rinunciare alla direzione del
movimento, è sbagliato.
Mentre lo dirigiamo in questo modo, dobbiamo seguire gli insegnamenti di Mao Tse-tung, rispettare le
iniziative delle masse, essere loro allievi, e persistere nel seguire il principio "dalle masse alle masse" e
concentrare le idee che provengono dalle masse, persistere in esse e portarle fino in fondo. Noi
dobbiamo
criticare a fondo la linea reazionaria borghese di Liu Shao-ci di reprimere le masse". La dirigenza
deve rimanere nelle mani dei quadri di partito, e tuttavia questi sono invitati a
immedesimarsi nelle masse in modo da evitare direttive astratte e non sentite dalla popolazione.
Governare con il massimo consenso popolare, tralasciando di valutare l'economicità o meno di
certe
soluzioni. Partecipazione saltuaria dei dirigenti e dei quadri al lavoro manuale per meglio comprendere
le esigenze dei lavoratori; evitare le eccessive specializzazioni e soprattutto adottare nella produzione
un tipo di tecnica a medio livello qualitativo ma facilmente assimilabile dalla maggioranza.
La rivoluzione culturale
Queste due diverse impostazioni dell'esercizio del potere evidentemente dovevano, presto o tardi,
venire
a confronto in modo violento. Su come iniziò la rivoluzione culturale riportiamo un brano
tratto dal "Bollettino degli scienziati atomici"
(uno dei meglio informati della Repubblica Popolare Cinese): "Per quanto riguarda il problema della
meccanicizzazione agricola, la crisi si verificò agli inizi del 1966. Mao Tse-tung (dicono fonti
delle
guardie rosse) ricevette un rapporto su tale questione preparato dal comitato provinciale dello Hupep,
rapporto favorevole al suo punto di vista, e chiese che esso venisse diffuso nel partito su scala nazionale.
Liu Shao-ci rifiutò di far circolare il rapporto, o i commenti di Mao che l'accompagnavano, fino
a quando
il Comitato Centrale non avesse espresso la propria opinione. Egli incaricò Peng Cheng di
redigere
questo parere. Peng Cheng lo fece, rivedendo i commenti dello stesso Mao e tagliandone
l'ammonimento
contro una rigida centralizzazione e (cosa che era significativa e nello stesso tempo irritante) anche la
condanna della politica agricola sovietica. Pochi giorni dopo Peng Cheng veniva cacciato dal suo ufficio
dalle truppe di Lin Piao e la rivoluzione culturale diventava una lotta per il potere politico". Mao
lanciava quindi le "guardie rosse" per scalzare i suoi avversari. Si trattava di un'operazione
pericolosa anche per la dirigenza attorno a Mao Tse-tung, ma rimaneva l'unica via per riprendere il
controllo della Cina con una operazione che rispecchiasse anche nell'applicazione i concetti fondamentali
della linea di Mao "dalle masse alle masse". Il processo di critica del potere sviluppato dalle "guardie
rosse" aveva però degli inconvenienti, infatti
molte "guardie rosse" poco ortodosse arrivarono a criticare anche la linea del presidente Mao. Molti
cominciarono a voler sperimentare nuove forme di socialismo: un esempio di queste tendenze è
la
proclamazione il 5 febbraio 1966 della "Comune di Shanghai" che costituiva un serio tentativo da parte
degli operai di togliere il potere ai burocrati del Partito; purtroppo la situazione fu presto recuperata e
gli iniziatori della Comune furono consegnati alle "guardie scarlatte" alla fine di febbraio. Le
"guardie scarlatte" erano una promanazione dei Comitati di Partito per difendere la necessità
della
"disciplina rivoluzionaria"; queste organizzazioni combatterono duramente, con le guardie rosse
dissidenti, in nome della legittimità maoista. Il IX Congresso del P.C.C. (26 aprile 1969)
segna ufficialmente la fine della "rivoluzione culturale" e
la vittoria completa della fazione maoista su quella di Liu Shao-ci che viene scacciato dal Partito.
Le disuguaglianze tra i lavoratori cinesi
Vediamo quindi, a rivoluzione culturale finita, qual è la situazione dei lavoratori
cinesi. Nell'analisi dell'organizzazione aziendale cinese balzano agli occhi i dati relativi ai sistemi di
retribuzione.
Infatti nelle fabbriche esistono in media dalle 6 alle 8 categorie salariali differenziate, corrispondenti a
diversi gradi di qualifica tecnica e, marginalmente, di produttività. Nella fabbrica di concimi
chimici di Nanchino il salario minimo (apprendisti) è di 34 yuan (2), mensili,
mentre il massimo (tecnici) è di 120 yuan (il rapporto è di circa 4 a 1). Un ruolo
decisivo, nella retribuzione del lavoro, viene giocato dalla militanza nel P.C.C. Nelle statistiche
aziendali si legge infatti: "salario massimo di un operaio 104 yuan, salario massimo di un quadro 110
yuan". In altre importanti fabbriche il rapporto fra salario massimo e minimo è inferiore, ma
decisamente alto,
soprattutto in relazione al fatto che i dati riportati si riferiscono al novembre 1970. Alcuni esempi: nella
fabbrica di transistor Chang-Kong di Shanghai il rapporto è di 3,5 a 1; nella fabbrica di motori
Diesel
"Vento dell'Est" di Shanghai il rapporto è di 3 a 1; nella tintoria e stamperia di Tien-tsin
è di 2,2 a 1;
nella fabbrica di generatori elettrici di Pechino è di 2,6 a 1. Esistono profonde differenze
anche nel livello medio retributivo tra le diverse fabbriche. Nelle aziende
citate la paga media varia tra i 50-60-70-80 yuan. Le differenze aumentano se compariamo le aziende
industriali alle comuni agricole (dove si arriva, come nella comune Xinhua, alla paga media di 35 yuan).
Un altro dato interessante è costituito dal fatto che i quadri amministrativi-politici del
Comitato
Rivoluzionario svolgono, in media, 1/3 di lavoro produttivo e 2/3 di lavoro amministrativo. Oltre
ad essere privilegiati in questo senso la loro retribuzione è generalmente pari a quella dei
lavoratori
delle categorie superiori dell'azienda. I dati macroscopici che abbiamo citato rappresentano una
componente indicativa dell'organizzazione
globale delle aziende industriali cinesi che costituiscono il risultato logico del tipo di gestione politica
dell'azienda.
L'organizzazione politica dell'azienda cinese
L'organizzazione politica dell'azienda industriale cinese è articolata in tre livelli: Assemblea,
Comitato
Rivoluzionario, Comitato di Partito. L'assemblea è l'insieme dei rappresentanti di reparto
e di officina. Essa è il gradino più basso della
gerarchia organizzativa. L'assemblea, infatti, non ha potere decisionale, bensì funzioni consultive
(nel
senso che una parte del Comitato Rivoluzionario viene eletta dalla base e, periodicamente, si consulta
con quest'ultima) e funzioni esecutive (nel senso che l'Assemblea è subordinata alle decisioni
del
Comitato Rivoluzionario e deve applicarle). Il Comitato Rivoluzionario costituisce la componente
intermedia di gestione. Esso, teoricamente, è un
organismo eterogeneo, cioè comprendente lavoratori non iscritti al P.C.C. In realtà una
pregiudiziale per
l'ammissione nel C.R. è di "essere d'accordo con le linee generali del pensiero del Presidente
Mao". Il C.R., sotto questo aspetto, appare come una cinghia di trasmissione tra il partito e le masse
operaie,
come strumento di controllo e di egemonia del partito nell'azienda industriale. I suoi membri sono, in
parte, eletti dall'assemblea ma, nella stragrande maggioranza, vengono designati dal Partito e
dall'Esercito, con la facoltà (ovviamente limitata e condizionata) da parte delle masse di
accettarli o
rifiutarli. Non esistono elezioni periodiche o sistemi di rotazione. I membri del C.R. possono essere
destituiti se non rispondono ai requisiti richiesti dal P.C.C. In questo modo non si tende a
responsabilizzare tutti gli operai; si pongono, al contrario, le premesse per una burocratizzazione delle
funzioni. Il compito precipuo del C.R. è quello di studiare e far attuare le direttive politiche
e di gestione. Queste
ultime vengono elaborate dal Comitato di Partito nella fabbrica; il C. d. P., quindi, è il nucleo
dirigente
effettivo, la cosiddetta "istanza superiore". Esso "elabora la pianificazione aziendale in accordo con il
Comitato locale di Partito ed il Piano Economico Generale della Repubblica Popolare
Cinese". Sempre all'interno dell'azienda industriale esistono organismi di mediazione tra le varie
componenti delle
maestranze: tra questi emerge il Comitato Direttivo della Triplice Unione (operai, quadri, militari)
tendente, evidentemente, ad assicurare una stabilità politica e un livello di produttività
costanti. Una analisi approfondita dell'organizzazione aziendale cinese ci prova quanto ambigue
siano le pretese
di realizzare l'integrazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale nella R.P.C. Già
abbiamo notato la linea di tendenza alla burocratizzazione nel C.R.; poi l'esistenza di categorie
separate, e ben differenziate a livello salariale-decisionale, di tecnici e di operai; a nostro avviso la
pretesa
integrazione è più semplicemente uno scambio di esperienze, una trasfusione non
permanente ma bensì
momentanea di manodopera da un settore produttivo amministrativo ad un altro, quando addirittura non
si tratti, come nel caso della tintoria e stamperia di Tien-tsin, di pura riconversione professionale,
collegata alle esigenze di un razionale sviluppo economico, cioè del fatto che una parte di
manodopera
impiegatizia eccedente venga utilizzata nel lavoro produttivo-manuale.
Le Comuni agricole
Le Comuni sono tecnicamente suddivise in Brigate e Squadre di lavoro. A questa organizzazione
tecnica
di base si applica e si sovrappone l'organizzazione politica del Comitato Rivoluzionario e del Comitato
di Partito, secondo i moduli pressoché identici a quelli vigenti nelle imprese industriali. La
remunerazione
dei contadini avviene in base a criteri meritocratici, per cui la singola retribuzione è
proporzionale
(ufficialmente) a: "rendimento effettivo, spirito di sacrificio, dedizione alla causa rivoluzionaria", come
se tutti questi fattori potessero e dovessero essere valutati in termini di diritto al
consumo. Purtroppo le statistiche cinesi sono sempre generiche ed apologetiche, per cui le
informazioni veramente
importanti sono poche ed aleatorie. Ad esempio, nelle campagne, esiste una stratificazione della
popolazione nelle seguenti categorie: contadini poveri, contadini medio-inferiori, contadini
medio-superiori, contadini ricchi. Dalle dichiarazioni di un dirigente della Comune "Dell'amicizia tra
Cina e
Ungheria" si rileva che dalla stessa sono stati esclusi i contadini ricchi, dei quali, peraltro, non vengono
specificati il ruolo, l'incidenza nell'assetto demografico-produttivo, la collocazione nelle strutture
amministrative e di gestione. Appare evidente, in ogni caso, che il processo di collettivizzazione delle
campagne, oltre ad essere stato condotto con metodi burocratici e con una alternativa (la
proprietà di
stato) in ultima analisi non molto differente sul piano strutturale, eccettuati alcuni aspetti, dalle strutture
post feudali che l'hanno preceduta, è peraltro estremamente parziale e frammentario. Circa
il rapporto città-campagne, possiamo dire che nelle Comuni il salario medio arriva ad essere la
metà di quello delle aziende industriali. Se potessimo paragonare il salario medio delle Comuni
a quello
dei dirigenti di Partito e dei tecnocrati (non a caso qui mancano le statistiche!) il rapporto
raggiungerebbe cifre ben più alte. Anche per quanto riguarda le cosiddette infrastrutture il livello
delle
campagne è decisamente inferiore a quello dei centri urbani.
Il commercio con l'estero
La linea predominante dell'economia cinese è l'autarchia. Lo slogan di Mao Tse-tung
"contare su se
stessi" permea la quasi totalità della produzione, la forma autarchica non è attuata solo
a livello nazionale
ma anche a livello aziendale e di comuni. Tipico a questo riguardo l'esempio dei "forni da cortile",
piccoli altiforni costruiti in moltissime comuni
per fondere artigianalmente la ghisa. Questa lavorazione fu però presto abbandonata sia
perché il
prodotto spesso non era utilizzabile in modo soddisfacente sia perché lo sforzo compiuto e la
manodopera sottratta alla coltivazione portarono alla perdita di buona parte dei raccolti. Il carattere
essenzialmente autarchico dell'economia cinese non è dovuto solo ad elementi esterni
sfavorevoli: tradizione secolare, rottura dei rapporti con l'URSS, blocco quasi totale da parte dei paesi
occidentali verso la Cina, ecc., bensì alla struttura dei rapporti di produzione oggi esistenti in
Cina. Il discorso a questo riguardo è difficile e complesso. Le notizie in nostro possesso
sono limitate, dato
il quasi totale silenzio dei cinesi sui dati significativi della loro economia. Il discorso a questo riguardo
ci porterebbe molto lontano, ora ci basta rilevare la struttura di produzione esistente e i suoi riflessi negli
scambi con gli altri paesi. L'apertura verso i paesi occidentali da parte della Cina, culminata con il
recente viaggio di Nixon,
preceduta da un intensificarsi di accordi economici e politici con tutta una serie di paesi, tra cui l'Italia,
e l'ingresso all'ONU come si inquadrano in quella caratteristica essenziale che abbiamo individuato come
autarchica? La Cina, nonostante il suo desiderio di "contare su se stessi", è un paese con
un'industria sottosviluppata
rispetto alle sue esigenze, la necessità di mercati esteri è una condizione indispensabile
al suo sviluppo.
D'altro canto non bisogna dimenticare che l'inizio di relazioni commerciali con i paesi occidentali e con
il Giappone tende a colmare la chiusura degli scambi avvenuta con i paesi "comunisti". A questo
riguardo giova considerare lo sviluppo del commercio estero cinese, raffrontando la percentuale degli
scambi con i paesi "comunisti" con quelli non comunisti. (vedi tabella). Sia pur con flessioni, il
volume globale degli scambi dal '63 al '69 non è mutato, mentre è variata, e di
molto, la proporzione di questi scambi con i paesi non comunisti. È facile prevedere che
oggi gli scambi con i paesi esteri aumenteranno come valore globale e che
altrettanto aumenteranno in percentuale quelli con i paesi non comunisti. Non crediamo però
che questo
aumento sarà così forte come certuni sembrano credere e ciò soprattutto per
quanto detto prima. Al di là dell'analisi quantitativa è utile fermare la nostra
attenzione su come questi scambi avvengono e
avverranno. La Cina, l'abbiamo visto, è un paese essenzialmente agricolo, ciò di cui
necessita sono macchinari
complessi, prodotti finiti, beni strumentali da inserire nel processo produttivo. In cambio di tutto
ciò cosa
può offrire se non il lavoro del suo immenso popolo che si traduce nella produzione di prodotti
agricoli
od altri a basso valore di scambio? (3).
Le strutture economiche e politiche cinesi
La rivoluzione del 1949 e la "rivoluzione culturale" cosa hanno cambiato nelle condizioni del
contadino
e dell'operaio cinese? C'è stato un aumento, limitato, del benessere, è vero, ma
è anche vero che questo consiste nel non morire
di fame e nell'avere un vestito con cui coprirsi. Abbiamo visto inoltre che esistono profonde
diseguaglianze retributive tra i lavoratori. Non esiste quindi eguaglianza economica. Maggiore
è la diseguaglianza in campo politico. Di fronte ad una ristretta élite (i massimi dirigenti
del
Partito) abbiamo l'immenso popolo cinese privo di qualsiasi potere decisionale, e fra questi due poli una
ben congegnata ed articolata schiera di burocrati a livello intermedio, con il compito di far applicare,
in
maniera decentrata, le decisioni dei vertici. Non abbiamo assistito ad un progressivo coinvolgimento
delle masse cinesi nella gestione politica ed
economica del loro paese, anzi è aumentata e continua a svilupparsi quella nuova casta che
sembra essere
premessa e conseguenza ineliminabile delle varie rivoluzioni marxiste: la burocrazia statale e di
partito. In Cina la situazione non è ancora cristallizzata come nell'URSS, forse non lo
sarà ancora per molto
tempo, perché i dirigenti cinesi si distinguono per un nuovo modo di dirigere e
comandare. Infatti, resi edotti dalla situazione russa, i dirigenti cinesi hanno evitato gli errori troppo
grossolani dei
loro colleghi moscoviti, ma nella sostanza ne hanno ripetuto lo sviluppo. Hanno creato una nuova classe
privilegiata che sta divenendo sempre più una casta inaccessibile e sovrapposta al popolo
cinese. Il tanto decantato "centralismo democratico" è una formula priva di significato reale,
l'unico
coinvolgimento attivo delle masse cinesi consiste nel produrre di più e meglio. È logico
allora che i
dirigenti cinesi ascoltino e utilizzino i consigli e gli accorgimenti dei lavoratori per far funzionare meglio
una macchina o per diminuire i costi. Ma questo non è socialismo. Anche la propaganda
sull'integrazione del lavoro manuale con quello intellettuale è una grossa
mistificazione. In Cina questa integrazione non esiste, né si sono poste le premesse per attuarla,
al
contrario il lavoro manuale viene usato come spauracchio e come punizione per i dirigenti poco
ortodossi. Così gli abitanti delle grosse città possono vedere per un certo tempo
il loro sindaco (o qualche altro
grosso burocrate della loro città) girare per i quartieri più poveri a raccogliere su un
carro i rifiuti dei
loro pozzi neri, e sentirsi dire dalla propaganda che tutto questo avviene per lo sviluppo della
rivoluzione, essendosi il dirigente in questione staccato dalle verità del pensiero di Mao
Tse-tung e
quindi allontanato dal popolo. In realtà al dirigente poco ortodosso viene imposto un
trattamento che
gli faccia toccare con mano la dura situazione in cui vivono i lavoratori cinesi e gli faccia capire i
privilegi
di cui gode se fedele al partito. Terminato il periodo punitivo egli sarà molto più
osservante della
disciplina impostagli dal vertice. Lo stesso avviene con gli studenti che prima di terminare gli studi
vanno a lavorare nei campi e nelle
officine. Questo periodo di manovalanza serve a far capire a questi futuri dirigenti la durezza della vita
dei lavoratori, a imprimergli bene nella mente quali privilegi essi godranno successivamente, a renderli
quindi disciplinati nei confronti del Comitato Centrale, pena il ritorno ad un lavoro
abbrutente. Questa è la tanto decantata integrazione esistente in Cina, una integrazione
saltuaria e limitata dall'alto
verso il basso; infatti non si sono mai viste schiere di contadini cinesi frequentare le
università. Ancora una volta riscontriamo nei fatti che le rivoluzioni, per essere tali, devono
subito abolire il potere,
cioè ripartirlo fra tutti; devono subito abolire qualsiasi privilegio, non devono permettersi il
ricrearsi di
situazioni di potere. Riscontriamo nei fatti che le rivoluzioni, per essere tali, devono essere opera
degli sfruttati stessi. Riscontriamo nei fatti che la "dittatura del proletariato" si risolve sempre ed
unicamente in una "dittatura
sul proletariato". L'analisi della situazione cinese è l'ennesima conferma di quanto gli
anarchici vanno dicendo da oltre
cent'anni. Le strutture economiche e la gestione del potere confermano che in Cina non c'è
il socialismo, ne si sta
andando verso di esso e che una nuova classe (che non è quella del proletariato) ha assunto il
potere e
che da questo trae i suoi privilegi.
Emilio Cipriano - Michele Reggio
(1) Articolo scritto dal gruppo di redazione del Comitato Rivoluzionario di Pechino e riprodotto
dalla
"Pekin Review" del 24 ottobre 1969, n.43. (2) Uno yuan equivale a circa 250 lire. (3) A questo
proposito vedere l'articolo "Mao - Nixon" sul n. 7 di questa rivista.
COMMERCIO
INTERNAZIONALE DELLA REP. POPOLARE CINESE |
Anni |
Volume globale del commercio estero
cinese (miliardi di dollari USA) |
Di cui con paesi
"comunisti" (in %) |
Con paesi non
"comunisti" (in %) |
1960
1963
1965
1967
1969 |
3,9
2,7
3,8
3,8
3,9 |
66
45
27
21
20 |
34
55
63
79
80 |
|