Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 2 nr. 11
marzo 1972


Rivista Anarchica Online

La Cina è vicina: a chi?
di Emilio Cipriano - Michele Reggio

Discorso sulle strutture socio-economiche cinesi

Le recenti prese di posizioni della Cina su temi di politica internazionale, culminate nella sua entrata all'ONU e nel recente viaggio di Nixon, hanno riproposto la discordanza di queste con l'immagine propagandistica diffusa e quasi universalmente accettata, l'esigenza di un'analisi critica del paese della cosiddetta "rivoluzione permanente".
Come è noto, la R.P.C. ha sostanzialmente appoggiato il governo Pakistano nella repressione dei moti contadini autonomisti del Bengala, schierandosi poi dalla parte dello stesso nel conflitto indo-pakistano; ha collaborato con il governo di Ceylon nella lotta alla guerriglia interna all'isola; ha esplicitamente solidarizzato con il governo sudanese nella feroce repressione del "golpe" attuato dai militari di sinistra; ha dato l'avvio ad ampie relazioni diplomatico-economiche con gli U.S.A.
Nei vari casi, per giustificare il proprio atteggiamento, il Partito Comunista Cinese ha addotto tesi assurde e semplicistiche: in merito a Ceylon sostenendo che si trattava di eventi interni tali per cui appoggiare la guerriglia avrebbe significato limitare la sovranità nazionale (no comment!) dell'isola; in relazione alle vicende del Bangladesh ha sostenuto la stessa tesi, denunciando, inoltre, la gestione politica contro-rivoluzionaria dell'insurrezione e fingendo di ignorare che, in ogni caso, esistevano delle radici ben precise, nel tessuto sociale, che avevano prodotto la rivolta contadina-popolare (stato di sfruttamento semi-coloniale della regione bengalese da parte del governo e dei gruppi di potere economico pakistano occidentale, reddito annuo pro-capite più basso di quello di ogni altro paese del mondo, ecc.); nel caso dei rapporti con i governi e con i blocchi industriali dell'Ovest, ha distinto rapporti economici da rapporti diplomatici, il che costituisce una colossale mistificazione dal momento che è provato che i rapporti economici preludono ai rapporti diplomatici, o viceversa, ma che, in ogni caso, questi due tipi di rapporti sono interdipendenti (non a caso prima di allacciare ufficialmente rapporti diplomatici fra Italia e Cina esisteva uno scambio pari a 53 miliardi annui).
Cercheremo, nelle seguenti note, di analizzare le reali motivazioni della collocazione internazionale della R.P.C. e delle sue più o meno recenti prese di posizione (che non possono più essere valutate a livello episodico dato il ritmo incessante con cui si susseguono), considerando questi fatti come strettamente connessi all'organizzazione sociale interna di questo ultimo mito marxista.

La presa del potere

Quando nel 1949 il Partito Comunista Cinese prese il potere, esso era un apparato politico-militare che aveva diretto solo delle lotte contadine.
La natura del P.C.C. risale all'indomani del soffocamento della rivoluzione cinese del 1927 da parte delle forze coalizzate del Kuomintang con le principali potenze occidentali e con l'assenso della dirigenza russa.
Il P.C.C. aveva, prima del 1927, un certo inserimento nel proletariato delle grandi città (per la maggior parte portuali), ma la repressione dell'insurrezione da parte delle forze nazionaliste causò un forte regresso del movimento operaio e obbligò il P.C.C. a ricostituirsi nelle campagne (1928). La natura contraddittoria del P.C.C. ("partito operaio" costituito da un apparato politico-militare che dirigeva solo lotte contadine) portava in sé i germi dei conflitti che opposero, durante il periodo detto della "rivoluzione culturale" (1966-1969), diverse fazioni antagoniste tanto in seno al partito quanto nelle fabbriche, nelle università e nelle piazze.
La rivoluzione cinese non rappresenta affatto il culmine delle lotte degli sfruttati, bensì la presa del potere realizzata da un esercito "comunista". Non vi furono in Cina consigli operai ed altre organizzazioni autonome e quando nel 1949 gli operai formarono spontaneamente dei "comitati di fabbrica" essi furono distrutti e sostituiti da comitati diretti da quadri militari del partito.

La ricostruzione

La riorganizzazione dell'economia cinese nel periodo 1949-1952 prese le mosse da una situazione devastata e inflazionata. Si posero obiettivi imposti autoritariamente, prendendo a modello le linee di sviluppo dell'economia sovietica. Fu promossa un'industrializzazione accelerata del paese, con particolare riguardo all'industria pesante, mentre all'agricoltura fu assegnato il compito di sostenere e pagare il costo della industrializzazione.
Nelle campagne le terre furono "collettivizzate" e la maggior parte dei contadini furono raggruppati nelle "aziende di stato".
Nell'attuazione di queste misure già appare la funzione dello Stato Cinese nel controllo politico-economico dei lavoratori cinesi, attraverso l'instaurazione di strutture produttive dirette da emissari del governo centrale che dovevano far applicare con durezza le linee imposte dal Partito.

Le due linee dello sviluppo cinese

Nell'applicazione della riorganizzazione e dei primi piani quinquennali, le divergenze già insite nella dirigenza cinese affioreranno con maggiore evidenza. Queste divergenze si sintetizzeranno efficacemente in: "tocca all'azione politica o ai principi economici dirigere l'economia?".
La corrente facente capo a Liu Shao-ci sosteneva la priorità dei principi economici, per cui il regime doveva porsi come primo obiettivo l'aumento della produzione con la promozione della efficienza in tutti i settori. Questo essenzialmente per poter elevare il tenore di vita della popolazione e conseguentemente poter procedere a riforme istituzionali di tipo socialista. Tutto il sistema doveva tendere alla costruzione di grandi complessi a tecnologia avanzata, nel settore dell'industria pesante: grandi acciaierie, centrali elettriche, grandi miniere, grandi complessi chimici. I tecnici dovevano essere la guida di questa costruzione economica, essendo i soli in grado - per definizione - di dirigere efficacemente la produzione e di indirizzarla verso le forme migliori sia come utilizzo degli investimenti che come scelte economiche.
Per raggiungere obiettivi ottimali bisognava inoltre destinare incentivi materiali: appannaggi, premi di produttività, ecc., oppure dare la possibilità alle imprese di trattenere parte dei profitti conseguiti per il reinvestimento.
Liu Shao-ci ci appare quindi un marxista oltremodo ortodosso, che individua solo nello sviluppo economico il mezzo per giungere al socialismo negando ogni possibilità di diffondere il socialismo prima di raggiungere un elevato grado di sviluppo tecnologico.
La linea della corrente facente capo a Mao Tse-tung molto più accortamente vedeva il pericolo insito in questa tendenza (che tra l'altro è stata la predominante dal 1949 al 1966), soprattutto tenuto conto della realtà cinese, cioè di un paese essenzialmente agricolo.
Seguire la linea di Liu Shao-ci significava ampliare a dismisura il diaframma fra città e campagna. L'industrializzazione non doveva essere concentrata in grossi agglomerati attorniati da deserti, ma bisognava creare un decentramento che, anche se non pienamente funzionale secondo gli schemi classici dell'economia, sarebbe stato funzionale soprattutto con le esigenze di poter dirigere le immense masse cinesi con un potere che non fosse troppo accentrato e in definitiva semi-impotente.
In questa prospettiva si pone lo slogan "la politica al posto di comando" che significa tralasciare le convenienze puramente economiche per poter insediare più saldamente il proprio potere nelle masse. Si tratta in definitiva della forma più intelligente, sino ad ora conosciuta, per perpetuare la disuguaglianza; comandare sì, ma con intelligenza e capacità.
Appaiono allora chiare le parole dell'articolo "La via cinese all'industrializzazione socialista" (1): "Per quanto riguarda il movimento rivoluzionario di massa, noi dobbiamo guidarlo con il marxismo-leninismo-pensiero di Mao Tse-tung. Stare in coda, cioè rinunciare alla direzione del movimento, è sbagliato. Mentre lo dirigiamo in questo modo, dobbiamo seguire gli insegnamenti di Mao Tse-tung, rispettare le iniziative delle masse, essere loro allievi, e persistere nel seguire il principio "dalle masse alle masse" e concentrare le idee che provengono dalle masse, persistere in esse e portarle fino in fondo. Noi dobbiamo criticare a fondo la linea reazionaria borghese di Liu Shao-ci di reprimere le masse".
La dirigenza deve rimanere nelle mani dei quadri di partito, e tuttavia questi sono invitati a immedesimarsi nelle masse in modo da evitare direttive astratte e non sentite dalla popolazione. Governare con il massimo consenso popolare, tralasciando di valutare l'economicità o meno di certe soluzioni. Partecipazione saltuaria dei dirigenti e dei quadri al lavoro manuale per meglio comprendere le esigenze dei lavoratori; evitare le eccessive specializzazioni e soprattutto adottare nella produzione un tipo di tecnica a medio livello qualitativo ma facilmente assimilabile dalla maggioranza.

La rivoluzione culturale

Queste due diverse impostazioni dell'esercizio del potere evidentemente dovevano, presto o tardi, venire a confronto in modo violento.
Su come iniziò la rivoluzione culturale riportiamo un brano tratto dal "Bollettino degli scienziati atomici" (uno dei meglio informati della Repubblica Popolare Cinese): "Per quanto riguarda il problema della meccanicizzazione agricola, la crisi si verificò agli inizi del 1966. Mao Tse-tung (dicono fonti delle guardie rosse) ricevette un rapporto su tale questione preparato dal comitato provinciale dello Hupep, rapporto favorevole al suo punto di vista, e chiese che esso venisse diffuso nel partito su scala nazionale. Liu Shao-ci rifiutò di far circolare il rapporto, o i commenti di Mao che l'accompagnavano, fino a quando il Comitato Centrale non avesse espresso la propria opinione. Egli incaricò Peng Cheng di redigere questo parere. Peng Cheng lo fece, rivedendo i commenti dello stesso Mao e tagliandone l'ammonimento contro una rigida centralizzazione e (cosa che era significativa e nello stesso tempo irritante) anche la condanna della politica agricola sovietica. Pochi giorni dopo Peng Cheng veniva cacciato dal suo ufficio dalle truppe di Lin Piao e la rivoluzione culturale diventava una lotta per il potere politico".
Mao lanciava quindi le "guardie rosse" per scalzare i suoi avversari. Si trattava di un'operazione pericolosa anche per la dirigenza attorno a Mao Tse-tung, ma rimaneva l'unica via per riprendere il controllo della Cina con una operazione che rispecchiasse anche nell'applicazione i concetti fondamentali della linea di Mao "dalle masse alle masse".
Il processo di critica del potere sviluppato dalle "guardie rosse" aveva però degli inconvenienti, infatti molte "guardie rosse" poco ortodosse arrivarono a criticare anche la linea del presidente Mao. Molti cominciarono a voler sperimentare nuove forme di socialismo: un esempio di queste tendenze è la proclamazione il 5 febbraio 1966 della "Comune di Shanghai" che costituiva un serio tentativo da parte degli operai di togliere il potere ai burocrati del Partito; purtroppo la situazione fu presto recuperata e gli iniziatori della Comune furono consegnati alle "guardie scarlatte" alla fine di febbraio.
Le "guardie scarlatte" erano una promanazione dei Comitati di Partito per difendere la necessità della "disciplina rivoluzionaria"; queste organizzazioni combatterono duramente, con le guardie rosse dissidenti, in nome della legittimità maoista.
Il IX Congresso del P.C.C. (26 aprile 1969) segna ufficialmente la fine della "rivoluzione culturale" e la vittoria completa della fazione maoista su quella di Liu Shao-ci che viene scacciato dal Partito.

Le disuguaglianze tra i lavoratori cinesi

Vediamo quindi, a rivoluzione culturale finita, qual è la situazione dei lavoratori cinesi.
Nell'analisi dell'organizzazione aziendale cinese balzano agli occhi i dati relativi ai sistemi di retribuzione. Infatti nelle fabbriche esistono in media dalle 6 alle 8 categorie salariali differenziate, corrispondenti a diversi gradi di qualifica tecnica e, marginalmente, di produttività.
Nella fabbrica di concimi chimici di Nanchino il salario minimo (apprendisti) è di 34 yuan (2), mensili, mentre il massimo (tecnici) è di 120 yuan (il rapporto è di circa 4 a 1).
Un ruolo decisivo, nella retribuzione del lavoro, viene giocato dalla militanza nel P.C.C. Nelle statistiche aziendali si legge infatti: "salario massimo di un operaio 104 yuan, salario massimo di un quadro 110 yuan".
In altre importanti fabbriche il rapporto fra salario massimo e minimo è inferiore, ma decisamente alto, soprattutto in relazione al fatto che i dati riportati si riferiscono al novembre 1970. Alcuni esempi: nella fabbrica di transistor Chang-Kong di Shanghai il rapporto è di 3,5 a 1; nella fabbrica di motori Diesel "Vento dell'Est" di Shanghai il rapporto è di 3 a 1; nella tintoria e stamperia di Tien-tsin è di 2,2 a 1; nella fabbrica di generatori elettrici di Pechino è di 2,6 a 1.
Esistono profonde differenze anche nel livello medio retributivo tra le diverse fabbriche. Nelle aziende citate la paga media varia tra i 50-60-70-80 yuan. Le differenze aumentano se compariamo le aziende industriali alle comuni agricole (dove si arriva, come nella comune Xinhua, alla paga media di 35 yuan).
Un altro dato interessante è costituito dal fatto che i quadri amministrativi-politici del Comitato Rivoluzionario svolgono, in media, 1/3 di lavoro produttivo e 2/3 di lavoro amministrativo.
Oltre ad essere privilegiati in questo senso la loro retribuzione è generalmente pari a quella dei lavoratori delle categorie superiori dell'azienda.
I dati macroscopici che abbiamo citato rappresentano una componente indicativa dell'organizzazione globale delle aziende industriali cinesi che costituiscono il risultato logico del tipo di gestione politica dell'azienda.

L'organizzazione politica dell'azienda cinese

L'organizzazione politica dell'azienda industriale cinese è articolata in tre livelli: Assemblea, Comitato Rivoluzionario, Comitato di Partito.
L'assemblea è l'insieme dei rappresentanti di reparto e di officina. Essa è il gradino più basso della gerarchia organizzativa. L'assemblea, infatti, non ha potere decisionale, bensì funzioni consultive (nel senso che una parte del Comitato Rivoluzionario viene eletta dalla base e, periodicamente, si consulta con quest'ultima) e funzioni esecutive (nel senso che l'Assemblea è subordinata alle decisioni del Comitato Rivoluzionario e deve applicarle).
Il Comitato Rivoluzionario costituisce la componente intermedia di gestione. Esso, teoricamente, è un organismo eterogeneo, cioè comprendente lavoratori non iscritti al P.C.C. In realtà una pregiudiziale per l'ammissione nel C.R. è di "essere d'accordo con le linee generali del pensiero del Presidente Mao".
Il C.R., sotto questo aspetto, appare come una cinghia di trasmissione tra il partito e le masse operaie, come strumento di controllo e di egemonia del partito nell'azienda industriale. I suoi membri sono, in parte, eletti dall'assemblea ma, nella stragrande maggioranza, vengono designati dal Partito e dall'Esercito, con la facoltà (ovviamente limitata e condizionata) da parte delle masse di accettarli o rifiutarli. Non esistono elezioni periodiche o sistemi di rotazione. I membri del C.R. possono essere destituiti se non rispondono ai requisiti richiesti dal P.C.C. In questo modo non si tende a responsabilizzare tutti gli operai; si pongono, al contrario, le premesse per una burocratizzazione delle funzioni.
Il compito precipuo del C.R. è quello di studiare e far attuare le direttive politiche e di gestione. Queste ultime vengono elaborate dal Comitato di Partito nella fabbrica; il C. d. P., quindi, è il nucleo dirigente effettivo, la cosiddetta "istanza superiore". Esso "elabora la pianificazione aziendale in accordo con il Comitato locale di Partito ed il Piano Economico Generale della Repubblica Popolare Cinese".
Sempre all'interno dell'azienda industriale esistono organismi di mediazione tra le varie componenti delle maestranze: tra questi emerge il Comitato Direttivo della Triplice Unione (operai, quadri, militari) tendente, evidentemente, ad assicurare una stabilità politica e un livello di produttività costanti.
Una analisi approfondita dell'organizzazione aziendale cinese ci prova quanto ambigue siano le pretese di realizzare l'integrazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale nella R.P.C.
Già abbiamo notato la linea di tendenza alla burocratizzazione nel C.R.; poi l'esistenza di categorie separate, e ben differenziate a livello salariale-decisionale, di tecnici e di operai; a nostro avviso la pretesa integrazione è più semplicemente uno scambio di esperienze, una trasfusione non permanente ma bensì momentanea di manodopera da un settore produttivo amministrativo ad un altro, quando addirittura non si tratti, come nel caso della tintoria e stamperia di Tien-tsin, di pura riconversione professionale, collegata alle esigenze di un razionale sviluppo economico, cioè del fatto che una parte di manodopera impiegatizia eccedente venga utilizzata nel lavoro produttivo-manuale.

Le Comuni agricole

Le Comuni sono tecnicamente suddivise in Brigate e Squadre di lavoro. A questa organizzazione tecnica di base si applica e si sovrappone l'organizzazione politica del Comitato Rivoluzionario e del Comitato di Partito, secondo i moduli pressoché identici a quelli vigenti nelle imprese industriali. La remunerazione dei contadini avviene in base a criteri meritocratici, per cui la singola retribuzione è proporzionale (ufficialmente) a: "rendimento effettivo, spirito di sacrificio, dedizione alla causa rivoluzionaria", come se tutti questi fattori potessero e dovessero essere valutati in termini di diritto al consumo.
Purtroppo le statistiche cinesi sono sempre generiche ed apologetiche, per cui le informazioni veramente importanti sono poche ed aleatorie. Ad esempio, nelle campagne, esiste una stratificazione della popolazione nelle seguenti categorie: contadini poveri, contadini medio-inferiori, contadini medio-superiori, contadini ricchi. Dalle dichiarazioni di un dirigente della Comune "Dell'amicizia tra Cina e Ungheria" si rileva che dalla stessa sono stati esclusi i contadini ricchi, dei quali, peraltro, non vengono specificati il ruolo, l'incidenza nell'assetto demografico-produttivo, la collocazione nelle strutture amministrative e di gestione. Appare evidente, in ogni caso, che il processo di collettivizzazione delle campagne, oltre ad essere stato condotto con metodi burocratici e con una alternativa (la proprietà di stato) in ultima analisi non molto differente sul piano strutturale, eccettuati alcuni aspetti, dalle strutture post feudali che l'hanno preceduta, è peraltro estremamente parziale e frammentario.
Circa il rapporto città-campagne, possiamo dire che nelle Comuni il salario medio arriva ad essere la metà di quello delle aziende industriali. Se potessimo paragonare il salario medio delle Comuni a quello dei dirigenti di Partito e dei tecnocrati (non a caso qui mancano le statistiche!) il rapporto raggiungerebbe cifre ben più alte. Anche per quanto riguarda le cosiddette infrastrutture il livello delle campagne è decisamente inferiore a quello dei centri urbani.

Il commercio con l'estero

La linea predominante dell'economia cinese è l'autarchia. Lo slogan di Mao Tse-tung "contare su se stessi" permea la quasi totalità della produzione, la forma autarchica non è attuata solo a livello nazionale ma anche a livello aziendale e di comuni.
Tipico a questo riguardo l'esempio dei "forni da cortile", piccoli altiforni costruiti in moltissime comuni per fondere artigianalmente la ghisa. Questa lavorazione fu però presto abbandonata sia perché il prodotto spesso non era utilizzabile in modo soddisfacente sia perché lo sforzo compiuto e la manodopera sottratta alla coltivazione portarono alla perdita di buona parte dei raccolti.
Il carattere essenzialmente autarchico dell'economia cinese non è dovuto solo ad elementi esterni sfavorevoli: tradizione secolare, rottura dei rapporti con l'URSS, blocco quasi totale da parte dei paesi occidentali verso la Cina, ecc., bensì alla struttura dei rapporti di produzione oggi esistenti in Cina.
Il discorso a questo riguardo è difficile e complesso. Le notizie in nostro possesso sono limitate, dato il quasi totale silenzio dei cinesi sui dati significativi della loro economia. Il discorso a questo riguardo ci porterebbe molto lontano, ora ci basta rilevare la struttura di produzione esistente e i suoi riflessi negli scambi con gli altri paesi.
L'apertura verso i paesi occidentali da parte della Cina, culminata con il recente viaggio di Nixon, preceduta da un intensificarsi di accordi economici e politici con tutta una serie di paesi, tra cui l'Italia, e l'ingresso all'ONU come si inquadrano in quella caratteristica essenziale che abbiamo individuato come autarchica?
La Cina, nonostante il suo desiderio di "contare su se stessi", è un paese con un'industria sottosviluppata rispetto alle sue esigenze, la necessità di mercati esteri è una condizione indispensabile al suo sviluppo. D'altro canto non bisogna dimenticare che l'inizio di relazioni commerciali con i paesi occidentali e con il Giappone tende a colmare la chiusura degli scambi avvenuta con i paesi "comunisti". A questo riguardo giova considerare lo sviluppo del commercio estero cinese, raffrontando la percentuale degli scambi con i paesi "comunisti" con quelli non comunisti. (vedi tabella).
Sia pur con flessioni, il volume globale degli scambi dal '63 al '69 non è mutato, mentre è variata, e di molto, la proporzione di questi scambi con i paesi non comunisti.
È facile prevedere che oggi gli scambi con i paesi esteri aumenteranno come valore globale e che altrettanto aumenteranno in percentuale quelli con i paesi non comunisti. Non crediamo però che questo aumento sarà così forte come certuni sembrano credere e ciò soprattutto per quanto detto prima.
Al di là dell'analisi quantitativa è utile fermare la nostra attenzione su come questi scambi avvengono e avverranno.
La Cina, l'abbiamo visto, è un paese essenzialmente agricolo, ciò di cui necessita sono macchinari complessi, prodotti finiti, beni strumentali da inserire nel processo produttivo. In cambio di tutto ciò cosa può offrire se non il lavoro del suo immenso popolo che si traduce nella produzione di prodotti agricoli od altri a basso valore di scambio? (3).

Le strutture economiche e politiche cinesi

La rivoluzione del 1949 e la "rivoluzione culturale" cosa hanno cambiato nelle condizioni del contadino e dell'operaio cinese?
C'è stato un aumento, limitato, del benessere, è vero, ma è anche vero che questo consiste nel non morire di fame e nell'avere un vestito con cui coprirsi. Abbiamo visto inoltre che esistono profonde diseguaglianze retributive tra i lavoratori. Non esiste quindi eguaglianza economica.
Maggiore è la diseguaglianza in campo politico. Di fronte ad una ristretta élite (i massimi dirigenti del Partito) abbiamo l'immenso popolo cinese privo di qualsiasi potere decisionale, e fra questi due poli una ben congegnata ed articolata schiera di burocrati a livello intermedio, con il compito di far applicare, in maniera decentrata, le decisioni dei vertici.
Non abbiamo assistito ad un progressivo coinvolgimento delle masse cinesi nella gestione politica ed economica del loro paese, anzi è aumentata e continua a svilupparsi quella nuova casta che sembra essere premessa e conseguenza ineliminabile delle varie rivoluzioni marxiste: la burocrazia statale e di partito.
In Cina la situazione non è ancora cristallizzata come nell'URSS, forse non lo sarà ancora per molto tempo, perché i dirigenti cinesi si distinguono per un nuovo modo di dirigere e comandare.
Infatti, resi edotti dalla situazione russa, i dirigenti cinesi hanno evitato gli errori troppo grossolani dei loro colleghi moscoviti, ma nella sostanza ne hanno ripetuto lo sviluppo. Hanno creato una nuova classe privilegiata che sta divenendo sempre più una casta inaccessibile e sovrapposta al popolo cinese.
Il tanto decantato "centralismo democratico" è una formula priva di significato reale, l'unico coinvolgimento attivo delle masse cinesi consiste nel produrre di più e meglio. È logico allora che i dirigenti cinesi ascoltino e utilizzino i consigli e gli accorgimenti dei lavoratori per far funzionare meglio una macchina o per diminuire i costi. Ma questo non è socialismo.
Anche la propaganda sull'integrazione del lavoro manuale con quello intellettuale è una grossa mistificazione. In Cina questa integrazione non esiste, né si sono poste le premesse per attuarla, al contrario il lavoro manuale viene usato come spauracchio e come punizione per i dirigenti poco ortodossi.
Così gli abitanti delle grosse città possono vedere per un certo tempo il loro sindaco (o qualche altro grosso burocrate della loro città) girare per i quartieri più poveri a raccogliere su un carro i rifiuti dei loro pozzi neri, e sentirsi dire dalla propaganda che tutto questo avviene per lo sviluppo della rivoluzione, essendosi il dirigente in questione staccato dalle verità del pensiero di Mao Tse-tung e quindi allontanato dal popolo. In realtà al dirigente poco ortodosso viene imposto un trattamento che gli faccia toccare con mano la dura situazione in cui vivono i lavoratori cinesi e gli faccia capire i privilegi di cui gode se fedele al partito. Terminato il periodo punitivo egli sarà molto più osservante della disciplina impostagli dal vertice.
Lo stesso avviene con gli studenti che prima di terminare gli studi vanno a lavorare nei campi e nelle officine. Questo periodo di manovalanza serve a far capire a questi futuri dirigenti la durezza della vita dei lavoratori, a imprimergli bene nella mente quali privilegi essi godranno successivamente, a renderli quindi disciplinati nei confronti del Comitato Centrale, pena il ritorno ad un lavoro abbrutente.
Questa è la tanto decantata integrazione esistente in Cina, una integrazione saltuaria e limitata dall'alto verso il basso; infatti non si sono mai viste schiere di contadini cinesi frequentare le università.
Ancora una volta riscontriamo nei fatti che le rivoluzioni, per essere tali, devono subito abolire il potere, cioè ripartirlo fra tutti; devono subito abolire qualsiasi privilegio, non devono permettersi il ricrearsi di situazioni di potere.
Riscontriamo nei fatti che le rivoluzioni, per essere tali, devono essere opera degli sfruttati stessi.
Riscontriamo nei fatti che la "dittatura del proletariato" si risolve sempre ed unicamente in una "dittatura sul proletariato".
L'analisi della situazione cinese è l'ennesima conferma di quanto gli anarchici vanno dicendo da oltre cent'anni.
Le strutture economiche e la gestione del potere confermano che in Cina non c'è il socialismo, ne si sta andando verso di esso e che una nuova classe (che non è quella del proletariato) ha assunto il potere e che da questo trae i suoi privilegi.

Emilio Cipriano - Michele Reggio

(1) Articolo scritto dal gruppo di redazione del Comitato Rivoluzionario di Pechino e riprodotto dalla "Pekin Review" del 24 ottobre 1969, n.43.
(2) Uno yuan equivale a circa 250 lire.
(3) A questo proposito vedere l'articolo "Mao - Nixon" sul n. 7 di questa rivista.



COMMERCIO INTERNAZIONALE DELLA REP. POPOLARE CINESE
Anni Volume globale del commercio estero cinese (miliardi di dollari USA) Di cui con paesi "comunisti" (in %) Con paesi non "comunisti" (in %)
1960

1963

1965

1967

1969

3,9

2,7

3,8

3,8

3,9

66

45

27

21

20

34

55

63

79

80