Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 1 nr. 1
febbraio 1971


Rivista Anarchica Online

"Le tesi del manifesto"
UN MANIFESTO IMBROGLIO
di Guido Montana

Hanno dovuto elaborare e redigere ben 200 paragrafi (oltre cinquanta pagine della rivista "Il Manifesto") per giungere alla conclusione che il rilancio della politica rivoluzionaria "passa oggi per una crisi del PCI e una rifondazione politica, non per un suo spostamento".
Ma l'affermazione di Natoli, Rossanda e C., per noi resta piuttosto contorta e sospetta, soprattutto in quel riferimento alla "rifondazione politica". Lo stesso termine "rifondazione", d'estrazione colta e filosofica, tradisce il vizio intellettuale d'origine degli autori.
Senza tale crisi, sarebbe dunque impensabile la costituzione di una forza rivoluzionaria. Il "Manifesto" precisa inoltre i motivi per cui la crisi del PCI "si è sviluppata finora in modo negativo". Ciò sarebbe dovuto al fatto che non vi è stato finora "un punto di riferimento politico-organizzativo alternativo sufficientemente credibile". Da qui a porre la candidatura per colmare tale deplorevole lacuna il passo è brevissimo. A conclusione della logorroica stesura delle cosidette tesi, la rivista lancia infatti un appello a "militanti e quadri comunisti, militanti e quadri dell'area socialista, militanti e quadri di formazione cattolica per l'unificazione di tutte le forze della sinistra rivoluzionaria". Il nuovo partito guida è bello e pronto, con il suo politburò in testa, svisceratamente rivoluzionario e unitario.
"Unificazione" è termine che fa sempre un certo effetto, soprattutto se associato al concetto di "rivoluzione". Ma a questo punto, da persone disincantate, come in effetti siamo, avvertiamo la necessità di andare in fondo al problema posto dal "Manifesto". Innanzitutto la crisi del PCI.
Evidentemente tale "crisi" non riguarderebbe il partito in quanto partito, cioè in quanto struttura abnorme, autoritaria, ecc., ma semplicemente, diciamo banalmente, la funzione che oggi il PCI svolge (o che, secondo le "tesi", il PCI non svolge). Affinché si ritorni alla reale funzione di partito rivoluzionario, non ci sarebbe secondo il "Manifesto" che un mezzo: affrettare la "crisi" di un partito comunista "inesistente" in quanto tale, svuotarlo all'interno e nei suoi rapporti esterni, per poter costituire una vera ipotesi partitica, cioè un vero partito guida.

Il partito contro i Consigli

Per Natoli, Rossanda e C., la politica realmente rivoluzionaria che si dovrebbe seguire è incentrata su due fattori: i Consigli - che però non dovrebbero avere funzioni di autogestione e di autogoverno - e il Partito, quale centro propulsivo e guida. Dovevano aspettare oltre cinquant'anni per ripresentarci, ripulita a nuovo, la vecchia tesi bolscevica di Lenin, con cui l'autonomia rivoluzionaria dei Consigli (i Soviet) veniva nei infatti drasticamente annullata, precisamente dal fattore Partito, quello strumento cioè che avrebbe dovuto garantire il trionfo della rivoluzione e che invece condusse alla controrivoluzione che sappiamo.
Dunque, Consigli e Partito. Ora, come viene giustificata la priorità del Partito? Nel modo seguente: "... questa crescita esige la presenza, nel movimento e fuori di esso, di una forza politica: cioè di una teoria e di una organizzazione, prodotto di tutta la storia della classe e della sua dimensione mondiale, memoria delle masse, strumento di coordinamento delle lotte".
Mescolando Marx, Lenin e Jung ("memoria delle masse"), il "Manifesto" crede di aver dato una giustificazione soddisfacente e soprattutto moderna, aggiornata. Innanzitutto confonde, tra auto-coscienza, e quindi autentica esperienza, "memoria" delle masse, e semplice suggestione mediata di tipo repressivo. In realtà il Partito, come guida teorica e organizzata, è qualcosa di completamente estraneo alle autentiche origini del movimento operaio, che è nato come "lega" di solidarietà, di lotta e di mutuo soccorso come presa di coscienza diretta dello sfruttamento capitalistico e della iniquità, dell'inutilità del potere. Quando il "Manifesto" parla del Partito come "prodotto di tutta la storia della classe", evidentemente si riferisce alla storia di due tradimenti: quello socialdemocratico e quello bolscevico.
In realtà le masse hanno dovuto subire il Partito, cioè una guida teorica e organizzata che ha sempre avuto la pretesa di sovrapporsi all'obiettiva creatività rivoluzionaria dei lavoratori. Esempi storici non mancano: la rivoluzione d'Ottobre, la guerra civile spagnola e la stessa rivoluzione culturale cinese, quando il Partito, il Potere, il Pensiero di Mao Tse-Tung, hanno assunto dall'alto la direzione della lotta "teleguidata" dei giovani. Quando il "Manifesto" parla di "dimensione mondiale" fa certo riferimento alle posizioni di potere che il Partito ha realizzate nel mondo. Posizioni di potere, aggiungiamo, che sono comunque una sovrapposizione ai reali interessi delle masse, come la cosiddetta "dittatura del proletariato" è sempre una dittatura sul proletariato.
Ma Natoli, Rossanda e C. fingono di non accorgersi dell'incongruenza e, a un certo punto, solennemente dichiarano: "Il comunismo... non è lo Stato giusto, ma alla fine dello Stato; non è una gerarchia... ma la fine della gerarchia e il pieno sviluppo di tutti; non è la riduzione del lavoro, ma la fine del lavoro in quanto attività estranea all'uomo e puro strumento". Si tratta, come si vede, di sfrenata demagogia, che avrebbe fatto invidia persino al Lenin più euforico dell'aprile del diciassette.
Il "Manifesto" evita furbescamente di dare una definizione della struttura organizzativa del futuro partito di classe. Sa infatti che una conferma pura e semplice del cosiddetto "centralismo democratico" solleverebbe non poche obiezioni, se non altro perché tutti sanno che la radiazione dal PCI di Natoli, Rossanda e C., è avvenuta proprio in virtù di quel principio. Per questo si limitano a dire che la struttura organizzativa non può essere definita astrattamente "perché situazioni diverse richiedono istituzioni diverse e una stessa struttura assume significati diversi in diverse situazioni". Come dire: non vi diamo alcuna garanzia di come domani saranno, o meglio vorremmo che siano le strutture di partito.
Ora, a parte il fatto che tale "spiegazione" corrisponde esattamente al pensiero, o meglio allo spirito di adattamento dei Gesuiti, di cui Pascal ci ha dato pagine memorabili, non è credibile che si possa essere tranquillamente elusivi a strutture, che dovrebbero essere guida teorica e organizzata dell'intera società, guida per la "costruzione del socialismo". È infatti puramente inutile assegnare ai Consigli dei lavoratori un compito rivoluzionario essenziale, quando poi a guida della rivoluzione si pone una struttura partitica antitetica, che proprio perché basata sul famigerato "centralismo democratico" toglie inevitabilmente ai Consigli stessi ogni autonomia.
Al paragrafo 98, il rapporto tra gruppo sociale (espresso dai Consigli) e Partito (espressione della "coscienza rivoluzionaria") appare precisato molto disinvoltamente. Compito dei Consigli sarebbe di impedire, o meglio di ostacolare la degenerazione del Partito; compito del Partito sarebbe invece quello di impedire "il ripiegamento corporativo" delle masse. A un lettore disattento tutto ciò può fare un certo effetto: si tratterebbe infatti di una specie di compensazione, di equilibrio e quindi di una reale garanzia. Ma il "Manifesto", poco prima, si era preoccupato di spiegarci che i "Consigli non possono essere organi di autogestione delle singole attività produttive" e che la "produzione deve essere coordinata da un piano e il comportamento degli individui e dei gruppi condizionato da elementi ancora in parte coercitivi". Per conseguenza logica il supposto equilibrio e la millantata "garanzia" sono in effetti totalmente dipendenti dalla cosiddetta "forza soggettiva unificante" e cioè dal Partito. Partito, si badi bene, che usufruirebbe di strumenti "ancora in parte coercitivi", perché il "Manifesto" dopo aver demagogicamente parlato della estinzione e della fine dello Stato, dichiara candidamente di voler fondare il potere statale (sic!) sui consigli, ecc. Come dire, con umorismo certo involontario, che lo Stato dovrebbe essere fondato sui Consigli, affinché i Consigli stessi vengano poi affondati (affossati) dallo Stato, dallo Stato di partito. Niente di diverso è accaduto in URSS. Direi di più: l'affossamento dei Soviet avvenne in Russia seguendo la stessa liturgia politica di cui oggi si serve il "Manifesto"; direi con le stesse parole. Si legga il passo seguente, delle cosidette tesi, e poi lo si confronti con quanto scrisse Lenin in Stato e Rivoluzione: lo stesso concetto, quasi le stesse parole!
"Lo Stato rivoluzionario può e deve essere dall'inizio... uno stato sui generis... cioè uno stato che dal primo momento comincia a deperire". (Come deperisse lo Stato fu poi "spiegato" dal partito bolscevico, da Lenin, da Trotsky e soprattutto da Stalin; e poi da Kruscev e da Breznev, con oltre cinquant'anni di gestione del potere!).

Lo stato siucida

Ma Natoli, Rossanda e C. raggiungono il vertice dell'"astuzia" al paragrafo 95. Astuzia per modo di dire, perché è così scoperta che vien voglia di pensare, invece, a una sorta di infantilismo o analfabetismo politico di ritorno. Scrive il "Manifesto" (udite! udite!):
"Ciò non vuol dire considerare superato il principio marxista-leninista della dittatura del proletariato (e chi ne aveva mai dubitato? n.d.r.). Fino a quando la società comunista non è costruita e una gestione diretta da parte delle masse non è possibile, gli elementi di centralizzazione e di delega devono progressivamente deperire ma continuano a prevalere nella costituzione politica".
Quindi lo Stato deve deperire... ma continua a prevalere. E perché mai dovrebbe deperire, se intanto prevale? Chi dovrebbe decidere del suo deperimento? La struttura statale che continua a prevalere, il Partito? Non è molto chiaro, anzi è tutto piuttosto ambiguo, soprattutto quando si afferma che "la gestione diretta da parte delle masse non è possibile" senza aver prima costruito la società comunista. In altri termini, lo Stato, il Partito, autorizzati a tale costruzione, decideranno se e quando dovranno deperire. Qui andiamo oltre Lenin e giungiamo diritti a Stalin, che diceva né più né meno queste cose, giustificando la mancata estinzione dello Stato con l'"accerchiamento capitalistico". Oggi, il "Manifesto", che non può parlare di "accerchiamento" perché viviamo in epoca di coesistenza pacifica, si limita a dire: deve deperire... Deve. Per ripetere tali sciocchezze hanno riempito un intero fascicolo, sperando di far credere a cose inedite e mirabolanti. Non varrebbe la pena di confutare tutto ciò, che si confuta da sé, se non fosse stato scritto da noti "teorici" ed esponenti della sinistra extraparlamentare, che tra l'altro credono nel parlamento fino al punto di condurvi tragicomiche "battaglie".
Insomma, torniamo a chiedere, chi dovrebbe far deperire lo Stato? Poiché lo Stato non potrà mai deperire da sé, non resterebbero che i lavoratori organizzati, riuniti nei Consigli, le masse, il popolo. Precisamente quelle forze popolari che sono interessate alla estinzione, alla distruzione dello Stato. Ma i lavoratori, per implicita ammissione del "Manifesto", non possono farlo, dal momento che sono dichiarati incapaci di autogestione.
Chi darebbe loro il potere di estinguere lo Stato, dal momento che Stato e Partito - secondo le tesi - permangono appunto in quanto non è possibile l'autogoverno dei lavoratori e dei Consigli?
Non ci sono dubbi: lo Stato potrebbe deperire solo per volontà (con il beneplacito) di coloro che si pongono già da ora al vertice del potere, cioè di coloro di cui lo Stato stesso diverrebbe espressione, e cioè l'élite politica di professione e i burocrati. Ma s'è mai dato il caso di una burocrazia di stato o di un partito che volontariamente decidesse di estinguersi? Del resto, come dovrebbero andare le cose su questo punto, ce lo spiega in chiare lettere il "Manifesto", quando dice: "... il processo rivoluzionario può procedere fino in fondo solo se... il potere politico resta nelle mani di coloro il cui interesse materiale è la soppressione dello sfruttamento fino in fondo". Dunque, il proletariato garantirebbe il processo rivoluzionario, avendo nelle mani il potere. Dove si vede la sovrana mala fede intellettuale di chi finge di dare ai lavoratori un potere, nello stesso momento in cui li dichiara incapaci di esercitarlo.

Lenin camaleonte

In un ambito puramente verbale il "Manifesto" si sbizzarrisce nel saccheggio di tesi libertarie, come del resto è costume di ogni buon bolscevico (o presunto tale). Prendiamo il problema della divisione del lavoro. Al paragrafo 79: "... lotta contro la divisione, e il concetto capitalistico, del lavoro... rotazione di tutti i membri della società nelle mansioni lavorative più estraniate e subalterne". Ma anche qui niente di nuovo, perché nella primavera del 1917 Lenin diceva quasi le stesse cose. Anche Lenin - allora - parlava da... anarchico (almeno su questo punto), salvo poi rimangiarsi tutto dopo aver preso il potere. Natoli, Rossanda e C. sarebbero dunque più coerenti e adamantini di Lenin?
Scriveva Lenin: "Adozione immediata di misure idonee a consentire che tutti adempiano alle funzioni amministrative, che tutti diventino a turno dei "burocrati" e che, appunto per questo, nessuno possa più essere burocrate professionale... Ci confonderanno con gli anarchici", ma aggiungeva subito che non si poteva negare "la somiglianza del marxismo con l'anarchismo, con Proudhon e anche con Bakunin".
Ciò, indubbiamente, era in contraddizione con la concezione leninista della funzione del Partito. Solo la pratica del potere risolse la contraddizione, e in modo tale che Lenin si pronunciò per un ennesima "variante" del marxismo, riguardo alla divisione del lavoro. La direzione collettiva, la rotazione degli incarichi e lo stesso autogoverno delle masse, vennero considerati "malsane idee anarchiche" e come tali ferocemente combattute. Difficile stabilire quale fosse il Lenin "vero", se quello del 1902 (del Che fare?), quello della primavera del diciassette, o quello successivo, che risolse a cannonate il problema dell'autogoverno dei lavoratori, a Kronstadt e altrove. Agli anarchici il quesito interessa relativamente. I marxisti-leninisti-pseudomaoisti del "Manifesto" dovrebbero però spiegarcelo. Direbbero così qualcosa di più anche sulla loro attuale mistificazione ideologica, che concerne la divisione del lavoro e altro.
Innanzitutto bisogna dire che l'esistenza di una élite politica, di cosiddetti "rivoluzionari di professione", di uomini e di strutture burocratiche di partito, costituisce la prima e più grave divisione del lavoro, la prima è più grave fonte di ineguaglianza. E anche in questo Lenin - trascorsa l'euforia "libertaria" - fu drasticamente esplicito. Nella primavera del 1917 in sostanza diceva: tutti, a turno, devono fare i "burocrati"; quindi non ci sarà di fatto nessun burocrate. Sosteneva in altri termini l'eliminazione hic et nunc del divario classista tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ma ora ascoltiamolo:
"Credete che si possa amministrare senza competenza, senza conoscenze profonde, senza scienza amministrativa? Sarebbe ridicolo... La direzione collegiale sarebbe inammissibile, per la semplice ragione che abbiamo poche persone sperimentate... La dominazione della classe operaia è nella costituzione, nel regime di proprietà e nel fatto che siamo noi a mettere le cose in marcia; ma l'amministrazione è un'altra cosa, è una questione di capacità e di abilità".
La funzione creativa dell'autogoverno veniva, come si vede, dimenticata e irrisa ("sarebbe ridicolo"). Gli operai avrebbero dovuto accontentarsi di vedere riconosciuta la loro dominazione nella carta costituzionale "e nel fatto che siamo noi" (cioè loro) a dirigere.
Ora, le tesi del "Manifesto" sembrerebbe un incastro del Lenin "anarchico" dell'aprile 1917 con quella autoritario, successivo alla rivoluzione d'Ottobre. Da tale contraddittorio guazzabuglio ideologico il "Manifesto" ha tratto la sua maggiore ispirazione di fondo, aggiungendovi solo l'attualità tecnologica e l'inevitabile maoismo. È infatti evidente che ieri, per Lenin, come oggi per il "Manifesto", il regime di proprietà collettiva, la "dittatura del proletariato", erano semplici riconoscimenti verbali, cartacei. In altre parole, il "Manifesto" evita di chiarire - come Lenin evitò di chiarirlo nel 1917 - che la divisione classista del lavoro non riguarda solo il problema delle classi al potere, ma il potere in sé, il quale decide (o è costretto a decidere dalla realtà dei fatti) su chi deve amministrare e chi deve essere amministrato. In altri termini, la questione di "essere a turno" amministratori e amministrati, è risolvibile nella misura in cui la tecnologia e la scienza dell'amministrazione cessino di essere strumenti del potere per divenire dei servizi di fatto collettivi e senza potere.
Ma tutto questo non potrà essere certo realizzato con l'"ideologia" del "Manifesto" (come non poteva realizzarlo Lenin), perché tale "ideologia" assegna alla classe operaia e alle masse popolari un ruolo subalterno e strumentale, quale forza di pressione, manovrabile per la strategia dei vertici, che sono (o diverrebbero) di fatto i veri "amministratori" della cosiddetta rivoluzione marxista-leninista.

Guido Montana