| A poche settimane dalla conclusione 
                  dellavventura angloamericana in Iraq, non è certo 
                  possibile tracciare un bilancio, anche provvisorio, sullesito 
                  dellimpresa. Alcune cose, comunque, sono chiare e confermano ampiamente le 
                  previsioni della vigilia.
 Intanto non si sono trovate le armi di distruzione di massa, 
                  che avevano costituito lalibi per lavvio dellinvasione. 
                  E il fatto che i vincitori non si siano preoccupati di portarcele 
                  loro, non è un segnale di inefficienza, ma solo di arroganza: 
                  un modo come un altro di avvertire il mondo intero che la grande 
                  potenza americana non ha bisogno di alcuna legittimazione per 
                  fare quello che fa. Anche se, nel caso specifico, il venir meno 
                  della motivazione principale addotta per portare la guerra in 
                  Iraq avrebbe creato qualche problema interno agli alleati, come 
                  nel caso di Blair, colto con le mani nel sacco a falsificare 
                  o a modificare pro domo sua i rapporti dei propri servizi 
                  segreti.
  Militari pessimi amministratori 
 Altra previsione puntualmente verificatasi è lo scatenamento 
                  dei conflitti etnico-religiosi sul territorio occupato: ce ne 
                  siamo occupati in un articolo apparso su questa rivista (n. 
                  3  aprile 2003) e non è il caso di tornarci 
                  se non per rilevare che gli occupanti non hanno (e non potevano) 
                  arginarne la portata. Pacificare un territorio conquistato non 
                  è obiettivo realizzabile senza il coinvolgimento di forze 
                  indigene organizzate che assicurino quanto meno la veicolazione 
                  corretta delle comunicazioni tra gli occupanti e la popolazione. 
                  Attualmente nessuna delle fazioni interne sembra disposta a 
                  far da sponda agli americani, che anzi sembrano sempre più 
                  invisi alla popolazione irachena. Cè, inoltre, 
                  il fatto, consolidato da precedenti storici significativi, che, 
                  una cosa è conquistare uno stato nemico, e ben altra 
                  amministrarlo a guerra conclusa. Tutti sanno che i militari 
                  sono pessimi amministratori e quasi mai sono in grado di assicurare 
                  il controllo del territorio, sia sul versante della normalizzazione 
                  delle regole della convivenza civile, che su quello dellordine 
                  pubblico. Infine, la spinosa questione del petrolio. Labolizione 
                  dellembargo, decretato dallONU a metà maggio, 
                  ha, in effetti, concesso agli americani mano libera per affrontare 
                  e risolvere i complessi problemi che il settore propone. Come 
                  abbiamo già scritto, il controllo delle risorse energetiche 
                  del Medio Oriente è fattore decisivo per la realizzazione 
                  del disegno imperialistico degli Stati Uniti. Venendo a mancare 
                  questo punto strategico del piano, verrebbe meno la possibilità 
                  di ricattare eventualmente unEuropa che possa domani mostrarsi 
                  meno accomodante e che, realizzando ununità economico-militare 
                  solida, possa porsi in concorrenza reale con la potenza a stelle 
                  e strisce. Daltra parte, unesplicita operazione 
                  di possesso delle risorse energetiche irachene, da un canto, 
                  confermerebbe lipotesi avanzata da molte parti alla vigilia 
                  del conflitto secondo cui gli americani miravano al possesso 
                  puro e semplice del petrolio; dallaltro, scatenerebbe 
                  la reazione decisa, intanto dei paesi, Francia e Russia, che 
                  avevano ottenuto consistenti concessioni dal regime di Saddam 
                  Hussein e dalle altre nazioni che in varia misura dal petrolio 
                  iracheno dipendono; poi dagli stessi paesi arabi, Arabia Saudita 
                  in testa, che verrebbero a perdere in consistente misura il 
                  controllo dei prezzi sul mercato mondiale, con grave pregiudizio 
                  per i propri bilanci e la propria stessa sopravvivenza. Un crollo 
                  dei prezzi significherebbe un drastico ridimensionamento dei 
                  regimi arabi dellarea e un colpo mortale per le popolazioni 
                  che già vivono in condizioni assai precarie. Del resto, 
                  in alcuni documenti dellamministrazione Bush si ipotizza 
                  un futuro col petrolio iracheno a 15 dollari al barile, con 
                  il conseguente crollo delle risorse degli altri produttori della 
                  regione, costretti a subire una concorrenza insostenibile.
 Se si dà uno sguardo panoramico alle diverse realtà 
                  del Medio Oriente dopo loccupazione angloamericana dellIraq, 
                  non si fa fatica a rintracciare un minimo comun denominatore 
                  di paura per il futuro, che non giova certo ad avviare processi 
                  di normalizzazione e meno che mai a promuovere percorsi verso 
                  unevoluzione in senso democratico dei regimi, spesso ignobili, 
                  che dominano larea. Naturalmente, quando parliamo di democrazia, 
                  non intendiamo riferirci al modello occidentale, che  
                  a nostro giudizio  non è esportabile per infinite 
                  ragioni di ordine storico-culturale-religioso sulle quali sarebbe 
                  troppo lungo soffermarsi. Diremo soltanto, a questo proposito, 
                  che ci son voluti almeno due secoli perché la Vecchia 
                  Europa e gli stessi Stati Uniti si riconoscessero in un modello 
                  organico di strutture giuridiche e normative accettate dalla 
                  maggioranza delle popolazioni, secoli nel corso dei quali infiniti 
                  sono stati gli ostacoli che si sono opposti al processo: dalle 
                  monarchie assolute o costituzionali, alle dittature più 
                  feroci; dallo statalismo liberticida, alle oligarchie di varia 
                  natura che, di volta in volta, hanno pesantemente condizionato 
                  la vita delle nazioni. Non solo, ma secondo molti  e noi 
                  tra questi  a prescindere da qualunque altra considerazione 
                  di natura teorica, leffettiva disparità di condizioni 
                  economico-sociali tra un sud ed un nord del mondo al quale apparteniamo 
                  (che si pretende il migliore dei mondi possibile), non consente 
                  obiettivamente una parità effettiva dei cittadini, che 
                  è poi la condizione essenziale perché democrazia 
                  ci sia.
  Il più fedele alleato 
 La riprova di quanto sia attendibile ciò che diciamo 
                  è data dalla situazione in cui si dibatte in questi giorni 
                  lArabia Saudita. Il regime di Riyad è stato il 
                  più fedele alleato degli Stati Uniti. Ha ospitato oltre 
                  cinquecentomila soldati americani sul suo territorio ed ha costituito 
                  la base più solida delle operazioni militari in Iraq. 
                  A conclusione del conflitto, il regime saudita si è reso 
                  conto di quanto fosse impopolare continuare a mantenere sul 
                  proprio territorio, il territorio che ospita i principali luoghi 
                  santi dellIslam, una forza militare straniera tanto consistente. 
                  Ha chiesto, così, agli americani cortesemente di andarsene, 
                  cosa che gli americani hanno fatto, subdolamente sottolineando, 
                  però, linessenzialità della loro presenza 
                  in Arabia Saudita dopo la caduta del regime di Saddam e, implicitamente, 
                  rimarcando la perdita di influenza del regime di Fahd ibn Abd 
                  el-Aziz in tutta larea mediorientale. Non solo, ma, andandosene, 
                  gli americani hanno rincarato la dose, imponendo precise condizioni, 
                  non trattabili, perché lamministrazione Bush possa 
                  continuare a considerare il paese alleato affidabile. Tra queste 
                  condizioni, il controllo più severo delle associazioni 
                  caritatevoli, alle quali si imputa il lauto finanziamento del 
                  terrorismo islamico, e la creazione di una comune intelligence 
                  finanziaria che sorvegli i movimenti di capitali sauditi. Preso tra due fuochi  i diktat americani e linsofferenza 
                  sempre più evidente della popolazione  il regime 
                  di Riyad ha abbozzato un progetto di liberalizzazione che dovrebbe 
                  portare a breve alla creazione di un parlamento rappresentativo 
                  di nomina non regia e allapprovazione di leggi che vanno 
                  nella direzione della salvaguardia dei diritti umani. Tutto 
                  bene, se il campione di questi mutamenti epocali non fosse il 
                  principe Abdallah ibn Abd el-Aziz, noto per il suo conservatorismo 
                  oltranzista.
 Da questa situazione si evince quanto sia difficile parlare 
                  di democratizzazione e quanto siano impervie e divergenti le 
                  vie che si intendono percorrere per realizzarne una compatibile 
                  con la presenza di istanze laiche e religiose assai diverse 
                  dalle nostre.
 Ritornando, comunque, allintera area mediorientale, dicevamo 
                  della paura diffusa dovuta soprattutto alla presenza, ai confini 
                  più prossimi, di un esercito potentissimo, in grado di 
                  intervenire immediatamente laddove ritenga non siano soddisfatte 
                  le condizioni poste dalla potenza imperiale.
 Ebbene, questo solo fatto ha determinato sconvolgimenti, che 
                  sono già evidenti, ma le cui conseguenze sono destinate 
                  a pesare sul futuro di questi popoli.
 Intanto non sappiamo quanto i timori di un esplicito appoggio 
                  militare americano a Israele abbiano condizionato (e continueranno 
                  a condizionare) le trattative per una soluzione pacifica del 
                  conflitto israeliano-palestinese. Linterrogativo non è 
                  irrilevante per quantificare le riserve mentali con le quali 
                  i contraenti si siedono attorno al tavolo della pace.
 Certo, si gioca una partita assai importante, nella quale è 
                  in discussione il prestigio delle tre amministrazioni protagoniste, 
                  quella americana in particolare. La quale, però, e appunto, 
                  ha dalla sua parte la possibilità di imporre una soluzione, 
                  gradita o meno che sia ai palestinesi.
  Panorama poco rassicurante 
 Di questo si preoccupa Abu Mazen, il primo ministro palestinese, 
                  pressato anche lui dagli irriducibili di Hamas e della Jihad 
                  islamica, ai quali sa di dover portare molto di più di 
                  qualche promessa di smantellamento di insediamenti israeliani 
                  nei territori occupati. Ci sono i problemi di Gerusalemme e 
                  della diaspora palestinese, che hanno già fatto fallire 
                  le trattative che Clinton aveva promosso tra Arafat e Barak 
                  nellottobre del 2000. Per il resto dellarea, il panorama è tuttaltro 
                  che rassicurante.
 In Iran, i riformisti, che avevano iniziato un percorso di laicizzazione 
                  della società, si trovano ad essere risucchiati nel clima 
                  di «salviamo la patria», che non consente, non dico 
                  serenità di confronto con il potere religioso conservatore, 
                  ma neppure il dialogo non condizionato con unopinione 
                  pubblica preoccupata di non incorrere negli stessi malanni del 
                  popolo iracheno. Il potere del presidente Khatami è fortemente 
                  indebolito a tutto vantaggio del vecchio volpone di Rafsanjani, 
                  che sembra riuscire a monopolizzare il dialogo con gli USA, 
                  i quali lo accreditano di un filoamericanismo assai funzionale 
                  alla loro idea di normalizzazione dellarea.
 In Siria la situazione è assai più complicata. 
                  Il Presidente Bashar Al-Assad, sostenuto dal potere forte del 
                  Baath, ha imbracciato la bandiera del panarabismo contro linvasione 
                  americana allIraq, spiazzando la stessa amministrazione 
                  Bush, che sulla prudenza della Siria contava e alimentando le 
                  tesi interventiste del Pentagono, secondo le quali il sostegno 
                  esplicito che i siriani hanno offerto agli Hezbollah libanesi, 
                  e più ancora lavanzato stadio di nuclearizzazione 
                  del paese, inducono ad intervenire militarmente subito e con 
                  la massima decisione.
 Sembra, quindi, che il diffuso senso di paura cristallizzi la 
                  situazione mediorientale, mettendo la sordina ai risentimenti 
                  e alle ostilità contro loccupante.
 È chiaro che si attendono gli sviluppi della situazione. 
                  Si attende di sapere quale sarà il comportamento americano 
                  nellavviare a soluzione i pressanti problemi creati da 
                  una guerra disastrosa che ha letteralmente sconvolto lIraq, 
                  e quale assetto si vorrà dare al paese; come sarà 
                  risolta la questione del petrolio e, soprattutto, quale ruolo 
                  sarà riservato alle organizzazioni internazionali. Le 
                  quali, come è sotto gli occhi di tutti, escono da questa 
                  vicenda con le ossa rotte e con scarse prospettive di recuperare 
                  un decente livello di credibilità.
 A questo proposito, il pessimismo è dobbligo dopo 
                  lultimo colpo che Bush ha inferto al G8, sostando ad Evian 
                  solo il tempo per salutare un gruppo di amici dediti a giuochi 
                  infantili. Del resto, questa volta, non è che Bush abbia 
                  tutti i torti. Questi personaggi ormai si riuniscono per avviare 
                  futili discussioni sullavvenire delleconomia mondiale, 
                  che i loro ministri e governatori di banche centrali non riescono 
                  a controllare, e sul sostegno, poi sistematicamente disatteso, 
                  da offrire al terzo mondo: di concreto, solo lassegno 
                  lasciato dal capo della Casa Bianca, con gesto liberale. Di 
                  brevetti da abolire per curare le terribili epidemie in Africa, 
                  di protezionismi da abbattere per i prodotti dei paesi del terzo 
                  mondo, dei problemi gravissimi dellacqua e del degrado 
                  ambientale, neppure una parola. Ha quindi ragione Bush nel ritenere 
                  il G8 un asilo nido per fanciulli ritardati e meraviglia che 
                  nei banchi di questo asilo si siano seduti personaggi come Lula, 
                  che tante speranze sta suscitando non solo in Brasile.
 Meraviglia anche che il popolo dei new global lasci che i suoi 
                  appuntamenti siano cadenzati da questo gruppo di personaggi, 
                  declassati a guitti da avanspettacolo, (consentendo per di più, 
                  che un manipolo di violenti incrini la sua immagine provocando 
                  qualche «devastazione» nella città di Ginevra). 
                  Ma questo è un altro discorso, che, prima o poi, dovremo 
                  affrontare con la chiarezza necessaria.
 Per adesso, ribadiamo che: nessuno di noi ha mai ritenuto che 
                  ONU, FMI, NATO e simili siano mai stati organismi capaci di 
                  regolare con un minimo di equità i rapporti internazionali. 
                  La loro decadenza, quindi, non ci fa versare lacrime amare. 
                  Ci sembra, però, che il modo con il quale lamministrazione 
                  Bush li va progressivamente svuotando di contenuti, riveli la 
                  pretesa consapevole che Washington non ha più bisogno 
                  di interlocutori, che i suo obiettivi possono realizzarsi senza 
                  lavallo di alcuno e che, in splendida autonomia, può 
                  regolare la sorte del resto del mondo.
  Il Vecchio Continente 
 E, per concludere, qualche considerazione sullEuropa. 
                  Se solo il Vecchio Continente avesse mostrato uno scenario meno 
                  caotico; se la contrarietà alla guerra di Bush fosse 
                  stata più corale e motivata; se anche da noi i comportamenti 
                  non fossero stati pesantemente condizionati da egoismi di bottega 
                  o da velleitarie istanze egemoniche, ebbene forse il mondo arabo 
                  avrebbe trovato una sponda per tentare di scongiurare la guerra 
                  e di ricompattarsi, intanto sulla necessità di far uscire 
                  di scena lindifendibile Saddam Hussein, e poi di rendere 
                  meno credibile il teorema angloamericano che occorresse ridisegnare 
                  lassetto dellarea per sconfiggere un terrorismo, 
                  che, allo stato attuale, nessuno ha dimostrato partisse da quel 
                  bacino mediorientale.
 Ma parliamo di ipotesi di terzo grado, che i latini definivano 
                  «dellirrealtà».
 In una certa misura, il berlusconismo sta purtroppo divenendo 
                  una categoria dello spirito europeo. Non a caso Bush chiama 
                  quella di Berlusconi, di Aznar e dei derelitti dellEst 
                  ex comunista la Nuova Europa: unEuropa priva di 
                  identità, accattona, in deficit di progettualità, 
                  incapace di comprendere il corso degli eventi.
 In un generoso appello apparso su «Repubblica» del 
                  4 giugno scorso Jacques Derrida e Jurgen Habermas hanno orgogliosamente 
                  rivendicato allEuropa la capacità di rifondare 
                  un diritto internazionale in grado di mediare le esigenze della 
                  globalizzazione dei mercati con la riaffermazione dei principi 
                  di giustizia sociale. Hanno anche rivendicato alla Vecchia Europa 
                  il ruolo di motrice per la realizzazione di un continente coeso 
                  sulla base di principi condivisi, e aperto alla partecipazione 
                  volontaria di altri partners. Tali privilegi deriverebbero dallavere, 
                  la Vecchia Europa, attraversato, nel corso della sua storia, 
                  tutte le esperienze cruciali di una difficile convivenza civile: 
                  la nascita e la caduta degli imperi, le guerre di religione 
                  e quelle tra stati, il periodo orgoglioso delle colonizzazioni 
                  e quello mortificante della decolonizzazione, la violenza razzista 
                  e lOlocausto: tutte vicende che, pur nella loro tragicità, 
                  o, forse, proprio per lenirne le conseguenze, hanno dato origine 
                  alla gigantesca compilazione del Diritto Romano e del Codice 
                  Napoleonico, che hanno costituito modello anche al di là 
                  dellOceano.
 Tutto vero, tutto giusto e anche tutto molto bello. Cè 
                  in questa analisi qualche omissione di non poco conto. La principale 
                  è che non si è riusciti (nessuno è riuscito, 
                  neppure in via teorica), a garantire e promuovere la partecipazione 
                  attiva di tutti i cittadini alla gestione della cosa pubblica: 
                  a partire dalla più piccola struttura di quartiere, via 
                  via sino ai massimi organismi decisionali.
 Poi è sotto gli occhi di tutti che lEuropa vive 
                  ormai sotto il ricatto di un impero lontano e potente, che impone 
                  le sue leggi, anche con il ricorso alle armi.
 Questo non significa che non vi siano vie duscita. Occorre, 
                  però, uno scatto orgoglioso e visionario che abitui gli 
                  uomini a percorrere gli impervi sentieri dellutopia.
 Il quotidiano, invece, riempie le prime pagine dei nostri giornali 
                  con le facce stralunate degli Chirac, degli Schroeder, dei Blair 
                  e degli Aznar per non parlare dei Berlusconi.
 Occorrerà allora continuare a lavorare perché 
                  luomo, quello concreto, di corpo e dintelligenza, 
                  si riappropri della propria esistenza e impari a condividerla 
                  con gli altri.
  Antonio Cardella
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