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                Le generazioni perdute 
				 
                Ho parlato con uno studente, 
                  qualche giorno fa. È uno bravo, molto sveglio, pieno 
                  di ambizioni e dunque destinato a essere sconfitto dal nostro 
                  sistema universitario. Lo studente si diceva avvilito: aveva 
                  appena fatto un esame, l'ultimo prima di partire a prendersi 
                  la sua doppia laurea in UK, e aveva ottenuto un misero 18. Quando 
                  gli ho chiesto perché mai lo avesse accettato, lui ha 
                  risposto che non poteva fare altrimenti: si trattava di un test 
                  scritto, e il voto veniva direttamente verbalizzato. 
                  Ora, in questa piccola storia universitaria di oggi, ci sono 
                  alcuni dati interessanti. Il primo è una questione di 
                  correttezza istituzionale: il docente di una materia orale decide, 
                  per motivi forse sostenibili, di sostituire il consueto, e previsto, 
                  colloquio con una prova scritta, senza possibilità di 
                  appello. Essa è più facile da correggere (o da 
                  far correggere) ed esclude, o quanto meno derubrica a pratica 
                  inconsueta, l'esame orale che dovrebbe essere la prova conclusiva, 
                  per statuto, per il corso che ha tenuto. Non si potrebbe fare, 
                  certo, ma se lo studente non si oppone, il docente lo fa, con 
                  tutte le spiacevoli (o piacevoli, per chi supera l'esame senza 
                  studiare) conseguenze del caso. 
                  Il punto è: perché lo studente non protesta? La 
                  risposta è semplice, e risiede in una scarsa consapevolezza 
                  dei propri diritti e doveri. Ci si iscrive a un corso di laurea 
                  perché si vogliono acquisire delle competenze, che specie 
                  oggi dovrebbero essere parecchio più importanti dell'elementare 
                  acquisizione di un titolo risultante da una collezione di prove 
                  superate alla meglio. Per questo privilegio, si studia quel 
                  che si deve – e questo è un dovere – e si 
                  pagano tasse, che corrispondono alla possibilità di fruire 
                  di un servizio - e questo è un diritto. Quest'ultimo 
                  passaggio è, parrebbe, molto difficile da acquisire anche 
                  per lo studente più brillante. Non è chiaro al 
                  giovane in questione, cioè, che le tasse non sono una 
                  mazzetta che dà luogo a un regalo, ma un contributo alle 
                  strutture necessarie per rendere possibile l'apprendimento, 
                  docente compreso. 
                   Lo 
                  studente di cui sopra, ad esempio, di fronte alla mia domanda 
                  sul motivo per cui accettasse supinamente che un esame orale 
                  venisse svolto in forma scritta, ha risposto che, insomma, è 
                  sempre il docente che comanda. Dopo di che si è esibito 
                  in un'espressione autenticamente stupefatta quando gli ho spiegato 
                  che avere il colloquio, e il diritto di migliorare il suo voto 
                  e di non rovinarsi la media, è qualcosa che gli spetta: 
                  dunque non pretendere tutto questo è sbagliato. È 
                  diritto del docente, d'altra parte, esaminare candidati che 
                  si presentino all'esame dopo aver studiato quel che era in programma, 
                  e non una porzione a vanvera di esso. È dovere dello 
                  studente partecipare nei limiti del possibile alle lezioni, 
                  ed è dovere del docente farle, e di persona, queste lezioni, 
                  considerando con grande serietà il fatto che il suo stipendio, 
                  e la sua stessa esistenza, dipendono dalla disponibilità 
                  di studenti che si immatricolano, pagano e richiedono un servizio. 
                  C'è una consolidata convinzione italiana che per un professore 
                  universitario la didattica sia una mansione ancillare, uno sgradevole 
                  effetto collaterale della ricerca, che è l'unica vera, 
                  preziosa, ineluttabile ragione per la quale al docente universitario 
                  viene attribuito un pagamento mensile. Negli anni, i privilegi 
                  degli accademici sono andati scemando, ma questo, a mio modesto 
                  parere, non è stato sufficiente a ridimensionare la spocchia 
                  di certi intellettuali, a volte anche di grande raffinatezza 
                  nel loro campo di studi, ai quali tuttavia sfuggono alcuni dati 
                  fondamentali relativi all'appartenenza a una comunità 
                  di pari. 
                  Non mi sogno neanche di negare le condizioni difficili nelle 
                  quali versa l'università italiana in questo momento. 
                  Il corpo docente di un tempo va in pensione senza poter essere 
                  sostituito, perché il diabolico sistema di rimpiazzo 
                  elaborato da una fila di funzionari governativi di orientamenti 
                  politici diversi ma di equivalente cecità culturale rende 
                  di fatto impossibile il turn over. Negli anni, questo ha anche 
                  determinato il curioso anacoluto anagrafico per cui, in università, 
                  e soprattutto se sei precario, sei considerato un giovane studioso 
                  anche a 45 anni. Dopo vent'anni circa di contrattini, borse 
                  portate, ricerca fatta nei ritagli, lezioni fatte al posto di 
                  qualcun altro, compromessi di ogni tipo, uno si ritrova, coi 
                  capelli ingrigiti e la volontà piegata, a fare il “giovane 
                  studioso” senza una ragionevole probabilità di 
                  lavoro. Di norma, è proprio il contrattista o il giovane 
                  studioso ad avere corsi che potrebbero motivare il ricorso a 
                  una prova scritta in luogo dell'orale: elefantiache accozzaglie 
                  di 500 studenti che a malapena riescono a sentire la voce del 
                  docente e che per conseguenza imparano poco o nulla, e devono 
                  poi essere esaminati. In queste circostanze, s'intende, la prova 
                  scritta – anche se è comunque riprovevole che sia 
                  l'unica prova – è quanto meno una prassi comprensibile. 
                  Non è il caso di essere talebani. Ma il fatto è 
                  che lo studente di cui sopra apparteneva a un corso di 35 persone. 
                  35. 35 studenti si esaminano, ad andar tranquilli, in 3 giorni 
                  di lavoro. Che problema c'è? Non lo capisco. 
                  Quello che comprendo bene, invece, è che l'Università 
                  – nel suo profilo complessivo e trascurando fortunate 
                  circostanze delle quali non riusciamo a spiegarci l'esistenza 
                  - non è abilitata, oggi, a fornire alcuna preparazione 
                  idonea ad affrontare la vita professionale, o anche soltanto 
                  la vita. Un seguito di riforme, forse anche ben intenzionate 
                  ma mal applicate, e il succedersi incontenibile di bizzarri 
                  rappresentanti pubblici dell'istituzione, ha assestato la mazzata 
                  finale a un contesto che eravamo soliti ritenere “il luogo 
                  della cultura”: scientifica o umanistica, poco importava. 
                  Non è chiarissimo come e quando sia successo, ma la verità 
                  vera è che il livello di preparazione in entrata e in 
                  uscita si è abbassato, l'autorevolezza dei docenti è 
                  stata derubricata a sciatteria istituzionale, la creatività 
                  ha la stessa logica delle visioni che si sperimentano nel corso 
                  di una sbronza o dopo una pensatissima dose di anfetamine, si 
                  mente su ogni cosa (i propri meriti, i propri ruoli, le proprie 
                  pubblicazioni, la propria faccia e naturalmente la propria lealtà), 
                  e quando si viene scoperti, si dice più o meno che, insomma, 
                  a ben interpretarla, la menzogna non è più tale. 
                  Lo avevo già scritto altrove: siamo un popolo che crede 
                  meno ai fatti che alla loro interpretazione, e a furia di interpretare, 
                  almeno nei luoghi della cultura, ci stiam perdendo i contenuti, 
                  che della cultura sono il senso. 
                  Perciò succede che i ragazzi, anche quelli più 
                  ingenui e meno abituati a identificare le offese della vita 
                  e soprattutto quelli bravi e sognatori, che ancora credono che 
                  studiare sia un valore, ci mollano per strada. Fanno il triennio, 
                  si prendono la loro laurea di primo livello, la festeggiano 
                  come fosse una laurea “vera” e poi, con gli occhi 
                  tondi, ti dicono che non c'è senso nel continuare: stare 
                  altri due anni a far le stesse cose – come spesso accade 
                  nelle facoltà umanistiche – a farsi angariare da 
                  professori che non hanno idea di cosa sia la vita vera è 
                  un processo costoso e privo di senso. 
                  Però io trovo che almeno bisogna essere consapevoli di 
                  un dato: se i ragazzi se ne vanno, ed è quel che stanno 
                  facendo, questo non dipende dalla loro ignoranza o dal fatto 
                  che non hanno capito quanto siamo bravi. Piuttosto, dobbiamo 
                  ammettere che abbiamo fallito, e li abbiamo presi in giro una 
                  volta di troppo. 
                  E son bravi loro a cercare altre strade. 
                  Nicoletta Vallorani
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