Un sogno 
                  americano 
                  Di 
                  flussi migratori si parla a ondate; di gente che arriva stremata 
                  sulle coste del nostro paese, dopo essere fuggita da impossibili 
                  condizioni di vita si riempiono le pagine dei giornali quando 
                  la disgrazia è troppo grande per essere nascosta; poi 
                  tutto viene riassorbito dalla marea, tutto riprendere a scorrere. 
                  Nulla si arresta. Dell'idea di questo movimento inarrestabile 
                  – ed è un'idea affascinante – parla Russel 
                  Banks – uno dei maggiori narratori americani degli ultimi 
                  trent'anni – nel suo libro La deriva dei continenti, 
                  uscito in traduzione italiana nel 2012 presso Einaudi (pp. 496, 
                  € 19,50). 
                  “È come se le creature che in questi anni vivono 
                  sul pianeta, gli esseri umani – a milioni in viaggio da 
                  soli e in famiglie, clan e tribù, talvolta come intere 
                  nazioni – fossero un sottosistema all'interno di uno più 
                  grande di correnti e maree, di venti e condizioni climatiche, 
                  di continenti alla deriva e masse di terra in movimento che 
                  si sollevano, si scontrano, si spaccano. È come se le 
                  povere creature forcute che camminano, navigano e si muovono 
                  a dorso d'asino o di cammello, su furgoni autobus e treni, da 
                  un'estremità all'altra di questa Terra, rispondessero 
                  tutte a forze naturali invisibili, come se fosse la gravità 
                  e non le guerre, le carestie o le inondazioni a farle scendere 
                  in rivoli dai villaggi di collina per raggrupparsi lungo le 
                  ampie sponde fangose del fiume più a valle aspettando 
                  un passaggio su zattere che le portino al mare, e su barconi 
                  bucati al di là del mare [...]. Continuare a muoversi, 
                  continuare a riprodursi, pisciare e cacare, continuare a mangiare 
                  il pianeta sul quale viviamo; continuare a muoversi, soli, in 
                  famiglie e tribù, in nazioni e perfino intere specie: 
                  è l'unico argomento che abbiamo per contrastare l'entropia. 
                  E non è neanche un vero argomento: è una visione. 
                  [...] L'universo si muove, al suo interno tutto si muove e, 
                  spostando le proprie parti, l'universo e tutto al suo interno, 
                  fino alla più piccola cellula, viene trasformato e si 
                  perpetua. Acqua terra fuoco aria. [...] E il prodigioso – 
                  ciò che ci riempie di meraviglia e ammirazione – 
                  dobbiamo emularlo, altrimenti è la morte. [...] Il pianeta 
                  siamo noi, tanto quanto lo sono acqua terra fuoco aria, e se 
                  il pianeta sopravvive sarà solo grazie all'eroismo, [...] 
                  eroismo costante, sistematico, eroismo come principio dominante.” 
                  Di ciò Banks ne parla solo all'inizio, come se questa 
                  visione dall'alto, distaccata e imprescindibile gli servisse 
                  da trampolino per tuffarsi nel vivo della storia che vuole narrare, 
                  composta da due storie parallele che a un certo punto si incontreranno: 
                  due persone alla ricerca di una vita migliore, del “sogno 
                  americano” di un benessere che si rivelerà illusorio 
                  e violento. 
                  Un uomo giovane, che vive nel nord dell'America, nel freddo 
                  dello stato del New Hampshire, con moglie e figli, che ripara 
                  bruciatori a nafta e si trascina in un'esistenza grigia, affannosa, 
                  dominata dall'idea che con più denaro la vita sarebbe 
                  migliore. 
                  Una donna che fugge da Haiti, dalla povertà e dal terrore, 
                  insieme al giovane nipote, portando con sé un bambino 
                  neonato e una manciata di soldi. Tutto quello che ha. Alla ricerca 
                  della fortuna, della Florida, la terra dei sogni e dell'abbondanza. 
                  Il giovane uomo, Bob Dubois, una persona come ce ne sono tante, 
                  nel tentativo di guadagnare di più – perché 
                  solo in questo, gli hanno insegnato, stanno il suo valore e 
                  il riconoscimento sociale – inizia a infilare una strada 
                  sbagliata dopo l'altra, in un'inesorabile disastrosa discesa. 
                  Vanice, donna analfabeta, vive in uno dei posti più poveri 
                  del pianeta (riguardo ad Haiti vedi i dossier già apparsi 
                  su “A” 386 
                  e “A” 387) 
                  e per raggiungere la terra mitica sopporta l'insopportabile. 
                  Entrambi vittime, anche se in forma e a livelli diversi, di 
                  povertà ignorante e falsi miti, entrambi arriveranno 
                  in Florida, dove, loro malgrado, si troveranno a vivere i ruoli 
                  di vittima e carnefice nell'ennesimo trasporto di clandestini 
                  via mare. 
                  Ma non è tutto qua, perché strada facendo Russel 
                  Banks riesce – in forma magistrale, pulita, appassionata 
                  e cruda allo stesso tempo – ad avvicinare così 
                  tanto il lettore alle figure dei suoi protagonisti e alla realtà 
                  in cui vivono, che quasi quasi vorresti poter intervenire per 
                  evitare lo sfacelo. Ma non è possibile, non perché 
                  stai leggendo una storia inventata, stampata su pezzi di carta, 
                  ma perché il destino di entrambi è segnato all'origine 
                  e la deriva dei popoli, ti rendi ben conto, non si può 
                  fermare. Ma si può, anche se in piccolo, contribuire 
                  a cambiare la cultura. Questo mi sembra indispensabile: una 
                  cultura differente che crei visioni del possibile in contrasto 
                  con la monocultura del potere economico-finanziario. E di visioni 
                  abbiamo bisogno, per tante cose, compreso il dare dignità 
                  al transito dei popoli. Questo è ciò che l'autore 
                  fa con il suo libro, celebrare la vita e piangere la morte di 
                  due personaggi qualsiasi, simili a tanti di quelli che in questo 
                  momento vagano nel mondo alla ricerca di una possibilità. 
                  Rendere loro onore toccando l'animo di chi legge. Così 
                  un libro agisce e modifica la visione di un lettore/lettrice, 
                  forse poi di dieci, cento, chissà. 
                  “Anche se nulla sembra accadere come conseguenza della 
                  sua vita o morte, anche se gli haitiani continuano ad arrivare 
                  e molti annegano, molti subiscono brutali maltrattamenti, vengono 
                  imbrogliati e sfruttati, ma il posto da dove arrivano rimane 
                  pur sempre peggiore di quello dove stanno andando; anche se 
                  gli uomini in completi tre pezzi dietro le scrivanie in banca 
                  si ingrassano, sempre più sicuri e abili nel loro lavoro; 
                  anche se giovani americani squattrinati, con mestieri anziché 
                  professioni, continuano a spezzare la propria vita tentando 
                  di piegarla intorno alla ruota del commercio, sognando che, 
                  al girare della ruota, verranno su dal fango, si ergeranno come 
                  divinità della televisione, facendo una breve apparizione 
                  speciale sulla Terra, roba mai vista prima. Il mondo così 
                  com'è continua ad essere se stesso. [...] Gioia e lutto 
                  per la vita di altri, perfino vite del tutto inventate – 
                  anzi, soprattutto quelle – priverà il mondo di 
                  parte dell'ingordigia che gli occorre per continuare a essere 
                  se stesso. Sabotaggio e sovversione, dunque, sono gli obiettivi 
                  di questo libro. Va', mio libro, e contribuisci a distruggere 
                  il mondo così com'è”. 
                 Silvia Papi 
                   
                   
                    Ma 
                  le relazioni biologiche
                   sono sempre sociali 
                Che cos'è un parente? Esistono davvero dei legami “di 
                  sangue” che ci uniscono in famiglie? O forse la parentela 
                  umana è piuttosto l'esito di convenzioni sociali, di 
                  consuetudini variabili tanto storicamente quanto culturalmente? 
                  Nel libro La parentela (elèuthera, Milano, 2014, 
                  pp.128, € 13,00) Marshall Sahlins dispiega un ampio ventaglio 
                  di casi etnografici per mostrare che i parenti, più che 
                  consanguinei, sono persone che condividono uno l'esistenza dell'altro. 
                  La famiglia non è mai stata fatta di solo sangue: si 
                  può essere parenti perché figli della stessa terra 
                  (Platone), per essere nati nello stesso giorno (Inuit), per 
                  aver osservato gli stessi tabu (Araweté), per essere 
                  sopravvissuti ad una pesca pericolosa in mare (Truk), e persino 
                  per aver sofferto insieme di tigna (Kaluli). Accanto alla parentela 
                  per mera nascita, l'autore ne illustra un'altra acquisibile 
                  con l'accudimento, la nutrizione, l'affetto, ossia attraverso 
                  le relazioni. 
                  Al centro della teoria di Sahlins è la nozione di “reciprocità 
                  dell'essere”, un'unione così intima della persona 
                  al suo gruppo da portare i parenti a vivere uno la vita dell'altro, 
                  a morire uno la morte dell'altro. Contro la concezione occidentale 
                  di un Ego individualista e massimizzatore di profitti personali, 
                  Sahlins ci invita a ripercorre le scoperte di un'eretica psicologia 
                  evolutiva, che studiando i rapporti fra madre e bambino nei 
                  primi mesi di vita ha individuato una facoltà tipicamente 
                  umana di immedesimazione reciproca, una capacità simbolica 
                  sconosciuta ai primati e che ci distinguerebbe dal regno animale. 
                  Sahlins, Professore emerito all'Università di Chicago, 
                  pone questa innata disposizione transpersonale come rivoluzionaria 
                  chiave di volta per concepire le relazioni di parentela, con 
                  uno sguardo che travalica il metodo genealogico dell'antropologia 
                  e ricorda ancora una volta che anche le relazioni biologiche 
                  sono sempre e comunque relazioni sociali. 
                 Moreno Paulon 
                   
                   
                   I giovani rifuggono 
                  da certe “nonne” 
                 “Perché 
                  scrivo queste cose? Per giustificare il mio Sessantotto? Le 
                  ribellioni, i cambiamenti, che però non hanno portato 
                  a ciò che volevamo? Io mi ribello contro l'ignoranza, 
                  la mancanza di senso critico e contro l'omologazione, che ci 
                  vuole tutti giovani, belli e sani, tutti uguali e felici, con 
                  l'ultima novità tecnologica in tasca”.  
                  In tredici racconti, Luisa Ronconi (Donne di ieri, Rupe 
                  Mutevole Edizioni, Bedonia, 2014, pp. 124, € 15,00) narra 
                  storie di donne qualunque. Il passato neanche troppo lontano, 
                  da prima degli anni Cinquanta agli anni Settanta, restituisce 
                  una Romagna terra di contadini, immersa in una palude di acque 
                  stagnanti e di piallasse, dove l'acqua del mare fluiva e rifluiva 
                  seguendo la marea. In quella terra atavica e ancestrale, madri 
                  sacrificano i propri figli di pochi anni alla palude, rituale 
                  per allontanare la malaria, oppure li fanno segnare dalla Sampira 
                  per levare il malocchio. 
                  Si coglie lo strazio delle madri per la fucilazione dei loro 
                  figli renitenti alla leva: quando l'Emilia Romagna rimane soggetta 
                  alla costituita repubblica sociale italiana e serve la formazione 
                  di un esercito repubblichino con le classi di leva 1923, 1924 
                  e 1925, la condanna a morte per i disertori è l'applicazione 
                  della legge di guerra. Altri racconti di donne analfabete, modeste, 
                  ubbidienti al padre, al marito e alle suocere. La rassegnazione 
                  di Nina, ragazza ventenne, costretta a prostituirsi dal patrigno 
                  e una madre consenziente. L'umiliazione di Antenisca per aver 
                  disonorato il marito con un pastore. Lina e il suo aborto mancato 
                  o il matrimonio forzato di Giulia, combinato da un padre-padrone. 
                  E se negli anni Sessanta “le contadine non siedono a tavola 
                  con gli uomini”, agli inizi degli anni Settanta, Maria 
                  è per tutti una “merce avariata” perché 
                  partorisce a sedici anni durante una gita scolastica nel bagno 
                  di un autogrill un feto morto, frutto della sua colpa. Donne 
                  destinate ad essere chiamate zitelle per una scelta diversa 
                  e libera dal vincolo del matrimonio oppure obbligate a scegliere 
                  tra la carriera e la famiglia. Donne violentate per aver osato 
                  avventurarsi da sole in campagna per una passeggiata in bicicletta. 
                  Sono storie di ignoranza, superstizione e di una visione patriarcale 
                  e maschilista del mondo. 
                  Tuttavia, l'autrice disattende gli intenti iniziali: “I 
                  giovani d'oggi non si rendono conto di quanto sia stato difficile 
                  [...] . Ora siamo compagne dei nostri uomini, non vogliamo 
                  stare né sopra né sotto di loro, ma al loro fianco 
                  per costruire un mondo migliore”. Ancora: “La 
                  donna oggi lavora ed è impossibile per moltissime famiglie 
                  allevare e mantenere molti figli, in quanto la società 
                  è cambiata ed è giusto seguire i figli nel loro 
                  percorso formativo [...] aiutarli a mettere su famiglia 
                  e seguire i figli dei figli, i nipotini, per quanto possibile”. 
                  Ronconi sembra proprio non cogliere i mutamenti oggi in atto, 
                  ad esempio rispetto alla famiglia. Nelle sue esternazioni replica 
                  alcuni modelli unidirezionali di quel passato, che proprio nei 
                  suoi intenti vorrebbe stigmatizzare. Con la presunzione di voler 
                  rivolgere il suo messaggio ai giovani. Ma alle nuove generazioni 
                  credo non serva la retorica ingenua e paternalistica della nonna, 
                  dalla quale invece, i giovani – da saggi – rifuggono. 
                 Claudia Piccinelli 
                   
                   
                   Teologia della liberazione 
                  contro la dittatura brasiliana 
                 Cosa 
                  hanno in comune Ferrara e São Paulo, un frate e un guerrigliero, 
                  l'anarchia e la teologia? In questo libro (Frei Betto, Battesimo 
                  di sangue, Rete Radié Resch, Quarrata (PT), 2009, 
                  pp. 332 € 15,00, rete@rrrquarrata.it), 
                  geografie, storie e impegno politico si intersecano e si intrecciano, 
                  per scrivere un capitolo di storia taciuto per troppo tempo: 
                  quello del Brasile durante la dittatura militare. Soggetti della 
                  storia, Augusto Marighella, meccanico italiano ateo e anarchico, 
                  e Alberto Libânio Christo, frate domenicano meglio conosciuto 
                  come Frei Betto. Anello di congiunzione, un giovane immigrato 
                  di seconda generazione, passato alla storia come il Che Guevara 
                  del Brasile: Carlos Marighella. 
                  Figlio di Augusto, emigrante in Brasile, e di una discendente 
                  degli schiavi haussa catturati in Africa per popolare il nuovo 
                  mondo, Carlos Marighella fu ammesso alla facoltà di ingegneria 
                  del prestigioso Politecnico di Bahia, ma non dimenticò 
                  mai la sua origine proletaria, le idee libertarie ereditate 
                  dal padre e l'ostinata volontà della madre di fare dei 
                  propri figli non degli schiavi come i suoi antenati neri, ma 
                  donne e uomini liberi e padroni del proprio destino. 
                  Carlos aveva ascoltato sin da bambino le storie delle lotte 
                  dei lavoratori europei, e quelle dei quilombolas, gli 
                  schiavi fuggitivi nascosti nelle foreste del Nordest brasiliano, 
                  e presto aveva compreso che “il gusto amaro dell'ingiustizia 
                  brucia le viscere, fa sanguinare il cuore e richiede una mediazione 
                  politica per non inaridirsi nella rivolta individuale o nella 
                  rinunciataria fatalità del destino” (p.5). Pertanto 
                  diventa uno dei più attivi militanti del PCB (Partido 
                  Comunista do Brasil) distinguendosi per l'impegno, le capacità 
                  logiche e oratorie, il coraggio. Ha 21 anni quando critica in 
                  versi il governo baiano, che non apprezza le sue doti poetiche 
                  né politiche e lo spedisce in prigione. Vi ritorna il 
                  primo maggio del 1936, durante le manifestazioni dei lavoratori 
                  paulisti; torturato per ventitré giorni, non rivela i 
                  nomi dei compagni di partito. Esce dopo un anno e, mentre ha 
                  inizio la dittatura di Getúlio Vargas, per Marighella 
                  iniziano la clandestinità e la mobilitazione dei lavoratori 
                  paulisti contro l'avanzata del nazifascismo. Nel 1939 è 
                  di nuovo arrestato e torturato; è liberato dopo sei anni 
                  in seguito alla caduta del regime Vargas. In carcere scrive 
                  sulla Libertà: Non resterò a lungo solo in 
                  arte/con decisione vigilante e forte/tutto farò per te, 
                  per esaltarti/sereno, noncurante di mia sorte. (p.12). 
                  L'autore lo ha incontrato a São Paulo nel maggio 1969; 
                  si conoscevano solo di nome e condividevano lo stesso impegno 
                  di aiutare i perseguitati politici a uscire dal Brasile; per 
                  Marighella era un servizio reso all'ALN (Ação 
                  Libertadora Nacional), per Betto era la consapevolezza che aiutare 
                  i rifugiati politici fosse in linea con la tradizione della 
                  chiesa perché “servire la causa della liberazione 
                  dei poveri è servire Cristo” (p.74). Questo afferma 
                  la teologia della liberazione, e in quest'ottica è 
                  teologica la scelta rivoluzionaria di Camillo Torres, 
                  assassinato in combattimento nelle foreste della Colombia. 
                  L'appoggio a Marighella e la condivisione della causa libertadora 
                  del Brasile, valsero a Frei Betto la fama di pericoloso sovversivo, 
                  la clandestinità, il carcere, la tortura. Durante un 
                  interrogatorio definì Marighella “uomo assetato 
                  di giustizia che ha dato la vita per la causa del popolo”. 
                  “Come può collaborare con un comunista?” 
                  – fu la domanda dei suoi inquisitori. La risposta lo bollò 
                  definitivamente come leader pericoloso e alleato della guerriglia, 
                  oltre che eretico e blasfemo: “La dottrina della chiesa 
                  non scarta il diritto degli oppressi di difendersi, con le armi, 
                  dall'oppressione di strutture che li schiacciano” (p.147). 
                  E rispondendo ancora dei suoi legami con Marighella, nemico 
                  numero uno della dittatura, “Sono i gesti concreti di 
                  giustizia che ci salvano” (p. 146). 
                  Battesimo di sangue narra questo intreccio di storie, 
                  e spiega, con notizie di prima mano, come sia realmente avvenuto 
                  l'assassinio del capo carismatico dell'ALN, attirato in un'imboscata 
                  da un noto criminale che con la tortura aveva estorto notizie 
                  utili ai frati domenicani vicini alla resistenza; ma narra anche 
                  di un'altra morte, non meno violenta e più sottile, che 
                  ha ucciso lentamente e scientemente prima la personalità 
                  e poi la persona di Tito de Alencar, il giovane domenicano che 
                  ha saputo resistere alle torture ma non al ricordo di umiliazioni 
                  e degrado. Quello dell'essere umano che, accecato dalla ferocia 
                  del potere, svilisce e svende la propria umanità. 
                  Frei Betto, esponente della teologia della liberazione 
                  e giornalista, ha narrato al mondo i crimini compiuti dalla 
                  dittatura militare brasiliana e nei suoi tanti libri ha ricostruito 
                  le storie drammatiche dei prigionieri politici nel carcere di 
                  Tiradentes a São Paulo. Battesimo di sangue, da 
                  cui nel 2006 è stato tratto un film di denuncia, ha ricevuto 
                  il Premio Jabuti, principale riconoscimento letterario del Brasile. 
                 Alba Monti 
                   
                   
                   La vera rivoluzione? 
                  La pace 
                L'impegno per la pace dell'autore viene raccolto, elaborato 
                  e tramandato in questo catalogo (Abbasso la guerra, persone 
                  e movimenti per la pace dall'800 ad oggi, catalogo della 
                  Mostra a cura di Francesco Pugliese, editore Grafiche Futura 
                  – Helios, pp. 178, 2013), da cui è tratta una mostra 
                  documentaristica itinerante che viene esposta ovunque si presenti 
                  la volontà di offrire un contributo culturale al recupero 
                  della memoria storica dell'attivismo dei costruttori di pace 
                  contro l'orrore delle guerre. Occorre sottolineare la particolare 
                  ampiezza della ricerca, il valore di strumento di consultazione 
                  del libro-catalogo e l'intento di rispondere a un bisogno di 
                  sistematizzazione nella narrazione dell'impegno contro la guerra. 
                  Il catalogo redatto da Francesco Pugliese e lo studio applicato 
                  alla raccolta spaziano, nell'ampia ricostruzione storicistica 
                  e storiografica, tramite documenti e fotografie d'epoca, dal 
                  periodo anticolonialista all'antifascismo, dagli scioperi del 
                  marzo 1943 al movimento dei partigiani della pace, fino ad arrivare 
                  al celebre appello di Einstein e Russel, alla prima marcia Perugia-Assisi, 
                  ideata da Aldo Capitini e all'opposizione pacifista nella guerra 
                  del Vietnam. 
                  Pugliese tratta inoltre delle ingenti manifestazioni contro 
                  gli armamenti e le basi militari a Comiso e dell'attualissima 
                  questione nucleare, dove l'annientamento dell'umanità 
                  viene scongiurato dal nobile atto e dall'audace scelta dell'obiezione 
                  di coscienza alle spese militari e  nucleari e dell'attivismo 
                  diretto alla denuclearizzazione mondiale e totale. L'autore 
                  non tralascia di condurre la ricerca documentaristica e dall'alto 
                  spessore pedagogico e didattico, attraverso i percorsi storici 
                  contemporanei, analizzando le guerra nella ex-Jugoslavia e la 
                  guerra in Iraq del 2003 condotta da Bush, a cui si sono opposte 
                  tutte le campagne pacifiste e nonviolente; per poi giungere 
                  alla raccolta di materiali e documentazioni, fruibili da un 
                  pubblico attento e sensibile, sulle manifestazioni e i movimenti 
                  contro le basi USA, come la Dal Molin, e sulle campagne pacifiste 
                  attuali contro gli F35, evidenziando le conseguenti polemiche 
                  inerenti il taglio drastico delle risorse alla sanità, 
                  alla scuola e in generale allo Stato sociale. 
                  La pace, da sempre, è l'ideale nobile a cui deve aspirare 
                  l'intera umanità, perché con essa tutto è 
                  possibile e realizzabile, perché la pace è creazione 
                  e creatività, è desiderio e speranza, è 
                  avvenire, è futuro per la donna e l'uomo di tutti i tempi. 
                  La vera rivoluzione è la pace, quando comincia un pensiero 
                  alternativo alla guerra. Il termine “pacifismo” 
                  è stato introdotto tra l''800 e il ‘900 con il 
                  significato culturale di un pensiero e di pratiche, di teorie 
                  e movimenti tesi a prevenire e contrastare la guerra, le culture 
                  violente, le tradizioni guerresche e le relative politiche guerrafondaie. 
                  Il pacifismo e la nonviolenza sono espressione popolare e simbolo 
                  di uno sforzo collettivo, di un anelito interiore, di rivolte 
                  personali, interioristiche e individuali e di teorie di figure 
                  profetiche, ossia l'opposizione ai conflitti armati di persone, 
                  donne e uomini che osano ribellarsi alla presunta fatalità 
                  della guerra e che singolarmente e collettivamente, individualmente 
                  e interiormente, hanno trovato il coraggio di creare una rivoluzione 
                  di pensiero dal basso per opporsi a tutte le guerre, agli imperialismi, 
                  alle armi e alle violenze. Persone singole e moltitudini, si 
                  incontrano nelle marce, nelle manifestazioni, nei cortei per 
                  opporsi alle guerre, al nazionalismo e all'uso delle armi nucleari 
                  e di distruzione di massa. 
                  Il nome dell'Italia, del nostro bel Paese, brilla nel mondo, 
                  non per le imprese militari in epoca coloniale e fascista e 
                  per le cosiddette e surrettizie guerre umanitarie contemporanee 
                  in Iraq, Afganistan, Libia, ma per la sua immensa cultura, per 
                  il patrimonio artistico, culturale e paesaggistico. Il cammino 
                  per una rivoluzione pacifista e nonviolenta è arduo e 
                  tortuoso, perché lungo è ancora “il cammino 
                  che dobbiamo imparare a percorrere” come sostiene il partigiano 
                  e “padre costituente” Stéphane Hessel, affinché 
                  “la guerra diventi un tabù come l'incesto”, 
                  così ribadisce il comboniano Padre Alex Zanotelli. 
                  Per ordini, esposizioni e presentazioni della Mostra, mail: 
                  franz_pugliese@yahoo.it 
                  (proventi destinati ad Emergency e a realizzare un pozzo per 
                  acqua potabile in Africa). 
                 Laura Tussi 
                   
                   
                   L'armata 
                  dei sonnambuli 
                Ho letto con piacere il nuovo libro dei Wu ming sulla rivoluzione 
                  francese. 
                  Parlando con un compagno è emersa una domanda su quanto 
                  serva oggi parlare del passato. Secondo me ne vale sempre la 
                  pena; cercare le fallacie del passato anche da diverse prospettive 
                  può essere in buon metodo per capire quei ricorsi storici 
                  e dinamiche che ogni volta bloccano un'insurrezione portando 
                  alla restaurazione o al riformismo. Il bello del romanzo, a 
                  mio avviso, è per prima cosa il fatto che gli autori 
                  contrappongono alle armate della restaurazione, fatte di sonnbuli 
                  auto diretti, delle individualità autonome che agiscono 
                  nel palcoscenico della rivoluzione, spinti da un sano egoismo 
                  stirneriano. È come se in tutto il racconto fosse evidente 
                  quello che alcuni psicologi chiamano “complesso gemellare”: 
                  a forze sovversive che chiamerò radicali, nella psiche 
                  così come il sociale, si oppongono altrettante forze 
                  conservatrici che impediscono lo sviluppo e il salto avanti. 
                  Uno dei moventi della restaurazione o del riformismo è 
                  sicuramente la paura: paura che nel libro è rappresentata 
                  dal viaggio nell'inconscio simboleggiato dal viaggio del dottore 
                  illuminista ai confini delle province francesi. I personaggi 
                  principali del romanzo a differenza dei “cattivi”, 
                  esplorano i loro limiti interiori affrontando una ferita personale. 
                  Questo può dare adito ad una lettura individualista stirneriano 
                  nel senso che solo l'unico che arriva a possedersi e agire per 
                  il suo egoismo, può confrontarsi in modo sano con l'altro, 
                  anch'esso liberato. Nel libro c'è anche un'istituzione 
                  totale come il manicomio: per chi come me si occupa di psicologia 
                  è interessante notare come si evidenzi quanto l'ideale 
                  folle di guarire tramite il controllo dell'altro in fondo non 
                  è che una forma di plagio e potere. 
                  Questo è molto evidente nel romanzo dove si tratta ampiamente 
                  di sonnambulismo come metodo di cura che sottomette invece di 
                  liberare il paziente. Individuo contro l'armata dei sonnambuli, 
                  individuo contro le sue stesse debolezze, individuo contro l'istituzione 
                  totale: la rivoluzione è sempre teatro dell'Uno che si 
                  scontra e incontra con più piani di conflitto. E infatti 
                  solo dopo aver fatto il percorso personale, i personaggi principali 
                  possono unirsi. Insomma, ne “L'armata dei sonnambuli” 
                  ho letto questo: senza un precedente percorso di liberazione 
                  interiore, agire in modo rivoluzionario e unirsi agli altri 
                  è difficile. Almeno per chi è libertario: per 
                  le forze della reazione fascista e conservatrici non serve un 
                  uomo o donna completo, basta un burattino da guidare e plagiare 
                  con marketing e propaganda. Il personaggio che più ho 
                  amato è stato l'uomo mascherato, quasi un eroe romantico 
                  della vecchia propaganda del fatto, un rivoluzionario egoista 
                  e bislacco, un teatrante, che punisce i nemici prima mosso da 
                  un bisogno di esserci nel palcoscenico, poi, dopo tante cadute, 
                  li affronta unendosi agli altri. Lèo l'attore è 
                  un j'accuse sincero a tutti coloro che vedono lo scontro 
                  come un atto teatrale ed esibizione ma anche un personaggio 
                  nobile che nelle due contraddizioni non nega le sue ambizioni 
                  personali. Il mito del rivoluzionario duro e puro che non ha 
                  mete egoistiche è di matrice cattolica: lungi dall'essere 
                  martiri, quel che mi è piaciuto è che qui gli 
                  eroi sono individui. 
                  Io avrei approfondito nel capitolo finale il racconto su “Gli 
                  arrabbiati”: i famosi Enragés della rivoluzione 
                  francese, che molti considerano prodromi dell'anarchia ma in 
                  effetti un romanzo non è un libro di storia. Durante 
                  la Rivoluzione francese, il girondino Brissot definiva “anarchico” 
                  il movimento degli Enragés, e nel 1793 dava questa 
                  definizione dell'“anarchia”: “Leggi non 
                  tradotte in effetto, autorità prive di forza e disprezzate, 
                  il delitto impunito, la proprietà minacciata, la sicurezza 
                  dell'individuo violata, la moralità del popolo corrotta, 
                  nessuna costituzione, nessun governo, nessuna giustizia: queste  
                  le caratteristiche dell'anarchia.” Definizione quindi 
                  del tutto negativa, rafforzata in seguito dal Direttorio, che 
                  sarebbe sceso addirittura alle ingiurie: “Per «anarchici» 
                  il Direttorio intende quegli uomini carichi di delitti, macchiati 
                  di sangue, impinguati dalle ruberie, nemici di tutte le leggi 
                  che non sono state fatte da loro, di tutti i governi in cui 
                  loro non governano...”.  L'esempio forse più 
                  clamoroso ed estremo delle tesi sostenute dalla corrente degli 
                  “arrabbiati” o, come furono definiti dal girondino 
                  Brissot, degli “anarchici” all'interno della rivoluzione 
                  francese. 
                  Contrario alla dittatura e al “terrore”, Varlet 
                  viene più volte imprigionato per bloccarlo nella sua 
                  attività sovversiva, perché, contrariamente a 
                  quanto si crede, il primo scopo dei rivoluzionari, con in testa 
                  il “virtuoso” per eccellenza, Robespierre, non era 
                  tanto quello di abbattere il vecchio regime, mandare via la 
                  monarchia, uccidere il re, sconfiggere gli eserciti nemici, 
                  quanto quello di instaurare un nuovo regime, la dittatura della 
                  borghesia in grado di assicurare una prosperità bottegaia 
                  e produttiva alla Francia – e poi all'Europa – sulla 
                  pelle dei nullatenenti, dei miserabili che dovevano solo servire 
                  da massa di manovra. Varlet, Jacques Roux, autore del “Manifesto 
                  degli Enragés”, Théophile Leclerc, e altri 
                  anticipano le tesi che si concretizzeranno nella “congiura 
                  degli eguali” di Babeuf, Buonarroti, Darthé e altri. 
                  In altri termini, nessun potere sul popolo, ma tutte le decisioni 
                  dovevano essere prese dal popolo in assemblee permanenti. 
                  L'explosion è un breve testo in grado, comunque, 
                  di farci vedere questo progetto come qualcosa in corso di realizzazione, 
                  che il potere in carica, controllato dai giacobini, ostacolava 
                  in tutti i modi, come peraltro è sempre accaduto. (da 
                  J. Varlet, L'esplosione e altri scritti, Edizioni Anarchismo, 
                  2013, pp. 56). 
                 Barbara Collevecchio 
                   
                   
                   I limiti 
                  dello sviluppo sostenibile 
                Nonostante il termine abbia una lunga e molto articolata storia, 
                  possiamo considerare gli anni Settanta come la culla di molte 
                  delle idee riguardanti la sostenibilità. Lo stesso concetto 
                  di sviluppo sostenibile, che ora troviamo declinato in 
                  ogni discorso pronunciato da politici, amministratori, economisti, 
                  è stato concepito proprio in quel decennio. 
                  Correva l'anno 1973 e la prima crisi petrolifera pose il mondo 
                  di fronte al problema della resilienza in caso di mancanza o 
                  riduzione dei combustibili fossili, motore immobile e 
                  condicio sine qua non di ogni cosa del mondo moderno. Alla 
                  luce di quegli accadimenti e a fronte di una possibile carenza 
                  di risorse non rinnovabili, una domanda sorse spontanea: che 
                  fare? 
                  Quel periodo non vide solo la nascita della preoccupazione per 
                  il possibile esaurimento della linfa del sistema economico mondiale, 
                  ma anche l'aumento graduale della sensibilità riguardo 
                  a temi quali la salvaguardia dell'ambiente. Complici diversi 
                  incidenti, come le vicende della petroliera Torrey Canyon (1967), 
                  la nube di diossina a Seveso (1976), il disastro nucleare di 
                  Chernobyl (1986), cominciò a crescere l'interesse, anche 
                  giuridico, nei confronti di tematiche inerenti ad ambiente, 
                  ecosistema e risorse. 
                  Nel 1972 fu redatto, da parte del System Dynamics Group del 
                  Massachusetts Institute of Technology (MIT), un rapporto (I 
                  limiti dello sviluppo) circa le conseguenze che una continua 
                  crescita dei tassi di produzione, depauperamento delle risorse, 
                  inquinamento e crescita della popolazione avrebbe causato al 
                  pianeta. Il verdetto risultò molto chiaro: allo stato 
                  attuale dello sfruttamento delle risorse naturali, della produzione 
                  di inquinamento, dell'aumento demografico le ripercussioni, 
                  continuando assiduamente su quella strada, sarebbero state apocalittiche. 
                  A soluzione del problema, i redattori del rapporto invocarono 
                  una prospettiva di crescita nulla, conseguibile attraverso il 
                  mantenimento stazionario delle variabili prese in esame; produzione, 
                  consumo e densità della popolazione sarebbero dovute 
                  rimanere pressoché invariate. 
                  Considerate le affermazioni fatte dagli studiosi del MIT, si 
                  cominciò così a pensare a come agire sul sistema 
                  economico e sul modello di produzione, riconosciuti come principali 
                  colpevoli del deterioramento delle risorse disponibili, in modo 
                  da trovare una soluzione a quella che non si voleva né 
                  poteva considerare una sentenza definitiva. Per i più 
                  era impensabile considerare l'idea della creazione di un nuovo 
                  modello; meglio cercare di correggere per quanto possibile quello 
                  esistente, accettandolo con tutti i suoi difetti. Forse, pensarono, 
                  aggiustando di qualche grado la rotta si sarebbe raggiunto il 
                  giusto compromesso: mantenere il tasso di crescita economica, 
                  aumentare consumi e produzione, riuscendo a non compromettere 
                  le generazioni future. 
                   
                  La bioeconomia, fuori dal coro 
                  Il Rapporto Brundtland, redatto nel 1987 dalla Commissione mondiale 
                  sull'ambiente e lo sviluppo, andava proprio in quella direzione 
                  ed esprimeva il significato di quello che venne definito da 
                  quel momento in avanti sviluppo sostenibile. A seguito 
                  della presa di coscienza dell'esistenza di un problema ingente, 
                  l'obiettivo del mantenimento delle risorse senza uscire dal 
                  modello economico sviluppista divenne idea ufficializzata e 
                  largamente condivisa, soprattutto dagli amministratori che decisero 
                  di adottare il rapporto Brundtland come cartina tornasole per 
                  ogni azione futura. Il compromesso e la ricerca di un equilibrio 
                  tra crescita e risorse naturali sarebbe stata la strada da percorrere, 
                  nella speranza che il futuro socio-economico del mondo potesse 
                  rivelarsi un gioco a somma zero: nessuno, né la crescita 
                  né l'ambiente, ci avrebbe rimesso. 
                  In questo insieme di voci unisone, quella di Nicholas Georgescu-Roegen, 
                  teorico della bioeconomia, risultò indubbiamente fuori 
                  dal coro. L'economista rumeno, nato a Costanza nel 1906, lavorò 
                  con il fine di incorporare le leggi della fisica e della biologia 
                  all'interno dell'economia, in particolare l'inserimento delle 
                  leggi della termodinamica nelle considerazioni economiche. Alla 
                  scuola neoclassica criticava la riduzione dell'economia ad un 
                  incessante movimento circolare tra produzione e consumo destinato 
                  a ripetersi e perpetuarsi all'infinito; all'interno di quel 
                  modello meccanico, sosteneva l'economista, la natura non trovava 
                  alcuno spazio. 
                  Per Georgescu-Roegen, quello delle risorse naturali non era 
                  argomento di poco conto e, a seguito delle scoperte in campo 
                  termodinamico, era per lui doveroso rivedere il modo in cui 
                  la produzione e lo sfruttamento delle risorse venivano percepiti. 
                  Tenere conto dei principi della termodinamica sarebbe dovuto 
                  essere l'obiettivo di ogni enunciazione economica. 
                  Grazie ai contributi di Nicolas Sadi Carnot (1824), considerato 
                  il padre degli studi sui processi di trasformazione di massa 
                  ed energia, sappiamo che un sistema chiuso quale il pianeta 
                  Terra non può sfuggire all'ineluttabilità della 
                  degradazione. Tralasciando i tecnicismi, possiamo affermare 
                  che il primo principio della termodinamica enuncia che niente 
                  può essere prodotto o distrutto, ma sempre e solo trasformato. 
                  La legge dell'entropia ci spiega però che energia e materia 
                  sono soggette, durante i processi di trasformazione, a degradazione. 
                  Se così non fosse, tutto sulla terra sarebbe imperituro, 
                  inesauribile ed eterno. ''Le risorse naturali – ribadisce 
                  più volte Georgescu-Roegen – costituiscono un problema 
                  perché il loro stock è non solo finito, cioè 
                  limitato, ma anche irrevocabilmente esauribile. Pur con un ammontare 
                  finito di risorse accessibili non vi sarebbe scarsità 
                  in senso proprio se non fosse che, per l'operare della legge 
                  dell'entropia, energia e materia si degradano da uno stato in 
                  cui sono utilizzabili a uno in cui risultano inutilizzabili''.1 
                  E proprio quest'idea della degradazione ineluttabile viene presa 
                  raramente in considerazione quando si affronta il tema della 
                  ricerca della sostenibilità. Eppure l'effettività 
                  della legge entropica non pare essere argomento opinabile poiché 
                  reale principio regolatore del mondo entro il quale viviamo, 
                  siano gli esseri umani d'accordo o meno. 
                  Alla luce dell'analisi dei processi economici attraverso i principi 
                  della termodinamica, l'idea che sia possibile trovare un compromesso 
                  tra crescita continua di produzione e consumi e mantenimento 
                  dello stock di risorse sembra di impossibile attuazione. Le 
                  risorse infatti si degradano secondo un processo che Georgescu-Roegen 
                  considera impossibile da arrestare. 
                   
                  L'illusione tecnologica 
                  Moltissimi tra economisti, scienziati e ricercatori di diversa 
                  estrazione hanno cercato di controbattere quest'asserzione proponendo 
                  l'argomento delle nuove tecnologie; per molti, saranno queste 
                  ultime a salvarci dall'empasse, permettendoci di superare 
                  il problema posto dalla naturale scarsità ed esauribilità 
                  delle risorse. L'autore di ''Energia e miti economici'' si esprime 
                  anche su questo punto, affermando che ''la tesi preferita tanto 
                  dagli economisti tradizionali quanto dai marxisti è, 
                  comunque, che le possibilità della tecnologia non conoscono 
                  limiti. Riusciremo sempre non solo a trovare un sostituto per 
                  una risorsa che sia diventata scarsa, ma anche ad aumentare 
                  la produttività di qualsiasi tipo di energia e di materia 
                  prima; se qualche risorsa ci verrà a mancare, riusciremo 
                  a escogitare un rimedio come abbiamo fatto fin dai tempi di 
                  Pericle; niente quindi potrà mai frapporsi a un'esistenza 
                  sempre più felice per la specie umana. Sarebbe difficile 
                  trovare una forma più ottusa di pensiero lineare2''. 
                  Grazie ai contributi offerti da Georgescu-Roegen all'economia 
                  moderna, si potrebbe dunque ritenere l'idea di sviluppo sostenibile 
                  (o durevole) come priva di fondamento e, soprattutto, non realizzabile. 
                  A causa della legge entropica e dell'ineluttabilità della 
                  degradazione, era per lui errata la convinzione della possibilità 
                  di salvaguardare lo stock di risorse continuando sulla strada 
                  della crescita economica, del maggior consumo e della maggior 
                  produzione. Il sistema produttivo, quindi, non doveva considerarsi 
                  in alcun modo un gioco a somma zero: all'aumento della produzione 
                  e dei consumi sarebbe seguita un'accelerazione dell'esaurimento 
                  di risorse senza che nessuna tecnologia, anche la più 
                  efficiente, potesse fermare il processo. Contrariamente a quanto 
                  sostenuto dai redattori del rapporto sui limiti dello sviluppo, 
                  si spinse ad affermare la fallacia di un progetto di crescita 
                  zero: anche mantenendo costanti produzione, consumi, inquinamento 
                  e crescita demografica, l'umanità non sarebbe sfuggita 
                  in alcun modo all'inevitabile esaurimento delle risorse naturali. 
                  Se è quindi impossibile sottrarsi alla degradazione, 
                  allora come agire? Considerare l'ineluttabile esistenza dei 
                  limiti materiali del nostro pianeta, ripensando l'intero sistema 
                  produttivo, cercando così di far riconciliare l'economia 
                  con l'ecologia. 
                 Carlotta Pedrazzini 
                 1 Stefano Zamagni, Introduzione a N. Georgescu-Roegen 
                  Energia e miti economici, 1982, Editore Boringhieri, Torino, 
                  p. 18. 
                  2 N. Georgescu-Roegen Energia e miti economici, 1982, Editore 
                  Boringhieri, Torino, p. 44. 
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