  
                 
                 Botta.../Ma 
                  in Libano non è proprio così
                
 Sono rimasto perplesso nel trovare un servizio 
                  sui campi profughi siriani in Libano nell'articolo: “Sguardi 
                  dal Libano”, pubblicato nel numero 389 di “A”. 
                  Mi risulta infatti che il Libano, pur avendo lasciato aperte 
                  le frontiere ed accolto tutti i profughi in fuga dalla Siria, 
                  abbia però rifiutato di costituire campi profughi sul 
                  suo territorio. Per questo motivo i profughi siriani sono sparsi 
                  in Libano nelle varie comunità o hanno costituito accampamenti 
                  informali. 
                  Un'operatrice umanitaria, profonda conoscitrice della realtà 
                  mediorientale, attualmente in Libano, dopo aver letto l'articolo 
                  mi ha mandato queste riflessioni: “Mi sembra che l'articolo 
                  sia pieno di imprecisioni e semplificazioni: mira ad un impatto 
                  emotivo ma non fornisce elementi utili a illustrare quanto accade 
                  in questa parte del mondo. 
                  Qualche commento in ordine sparso: 
                  1. Sembra che un articolo sul Libano non possa non contenere 
                  un richiamo alla guerra civile, peccato che qui sia fatto senza 
                  alcun nesso logico con quanto sta accadendo oggi. Inoltre, accostando 
                  la guerra civile all'antico odio sunniti-sciiti, si fornisce 
                  un'interpretazione semplificata sia della guerra civile (che 
                  in Libano ha visto diverse confessioni religiose scontrarsi, 
                  a cominciare da quelle cristiane e druse) sia di quanto sta 
                  avvenendo oggi in Siria. 
                  2. Usare la definizione di “campi profughi” per 
                  indicare quelli che sono invece insediamenti informali è 
                  alquante fuorviante. In ogni caso non esiste un campo profughi 
                  di Akkar anche perché l'Akkar non è una località 
                  ma una regione nel nord del Libano, con decine di villaggi che, 
                  al loro interno, ospitano rifugiati. Un articolo serio avrebbe 
                  dovuto specificare questo dato e contenere qualche carta dove 
                  ritrovare località che sono poco familiari al pubblico 
                  italiano. 
                  3. Non commento sulla lettura del conflitto siriano: in questo 
                  mi sembra che l'autore si limiti a riportare un'interpretazione 
                  dominante, senza tuttavia offrire spunti problematici o di approfondimento. 
                  4. Il corredo fotografico non è chiarissimo: su quali 
                  dati si è basato l'autore per affermare che “oltre 
                  il 90% della popolazione dei campi profughi è rappresentata 
                  da bambini”? (Foto 1), e di quali campi profughi parliamo? 
                  Che significato hanno il bambino che mostra le dita a V in segno 
                  di vittoria (Foto 2) e il proiettile nella mano di un bambino 
                  trovato tra le vie di Al Qusayr in Siria (foto 6)? 
                  Insomma, l'impressione complessiva è che il giornalista 
                  abbia fatto un giro frettoloso nelle zone dell'Akkar e della 
                  Bekaa e non abbia avuto tempo per rielaborare il materiale e 
                  acquisire documenti e dati sul tema. 
                  Infine il titolo: “Sguardi dal Libano”, mi sembra 
                  abbastanza pretenzioso in quanto, in realtà, si limita 
                  a citare Arsal e l'Akkar, quando qui c'è più di 
                  un milione di profughi, sparsi in oltre 1000 municipalità 
                  libanesi''. 
                  Condivido l'impressione di quest'operatrice. Al di là 
                  dei commenti critici sull'articolo resta fondamentale ricordare 
                  la crisi siriana, i cui dati sono davvero impressionanti (oltre 
                  150.000 vittime dall'inizio del conflitto, oltre 6 milioni di 
                  sfollati interni e quasi 3 milioni di rifugiati nei Paesi limitrofi). 
                  In questa crisi il Libano appare come il Paese a maggior rischio 
                  per la propria stessa stabilità, avendo accolto ad oggi 
                  una quantità di rifugiati pari a circa un quarto dell'intera 
                  popolazione libanese (più o meno come se in Italia fossero 
                  arrivati, in tre anni, oltre 14 milioni di profughi). Alcuni 
                  villaggi libanesi hanno visto più che raddoppiata la 
                  popolazione residente, con un impatto fortissimo, a volte devastante, 
                  sui servizi e sull'economia locale. 
                  Vorrei aggiungere che il Libano, che con la sua fragilità 
                  sociale e istituzionale comunque non chiude le porte in faccia 
                  ai profughi, rappresenta certamente un esempio assordante per 
                  l'Italia e per l'Europa, che non sono capaci di accogliere degnamente 
                  poche migliaia di rifugiati e lasciano che il medio oriente 
                  affondi nei numeri immani di questa tragedia. 
                  Un caro saluto, 
                 Renzo Sabatini 
                  Roma 
   
                  ...e risposta/La mia esperienza diretta 
                Ringrazio l'operatrice umanitaria, citata da Renzo Sabatini, 
                  per le critiche e per l'analisi dell'articolo che mi ha dato 
                  modo di riflettere rispetto alla chiarezza, ai tempi ed agli 
                  spazi sui quali porre attenzione nello scrivere determinati 
                  articoli su tali questioni. Senza alcuna presunzione, voglio 
                  comunque precisare alcune cose, rispondendo a tali considerazioni. 
                  1. Il richiamo alla guerra civile fatto nell'articolo, mira 
                  a dare un incipit in merito alla situazione odierna del paese 
                  che, con le dovute differenze rispetto al passato, non vede 
                  l'interrompersi delle escalation di violenze. Come lei bene 
                  osserva è vero che la guerra civile del passato non può 
                  essere accostata all'odio tra sunniti e sciiti, anche in virtù 
                  del fatto che esso non si manifestava come e quanto oggi; i 
                  conflitti erano ben altri. C'è però da osservare 
                  che una delle problematiche di cui soffre il Libano è 
                  legata comunque al conflitto tra alcuni movimenti politici che 
                  richiamano al sunnismo ed allo sciismo, accentuatosi drasticamente 
                  negli ultimi anni, soprattutto con la crisi siriana. Il Libano, 
                  come in passato, rimane uno degli scacchieri preferiti per i 
                  giochi politici di molte potenze esterne che, gettando benzina 
                  su fragili equilibri interni, ne disintegrano il già 
                  precario equilibrio sociale e politico; una spiegazione più 
                  esaustiva e completa delle tematiche legate alla Siria avrebbe 
                  richiesto un articolo a parte. 
                  2. In merito a tale punto, ha perfettamente ragione nel dire 
                  che non esiste “Akkar”. So bene che si parla di 
                  Akkar come regione del nord del Libano e se guarda le foto, 
                  proprio in una di esse scrivo“distretto di Akkar”. 
                  Io mi sono recato in una zona periferica di uno di questi villaggi, 
                  in un piccolo accampamento gestito da una ONG internazionale 
                  composta prevalentemente da Siriani. L'avere scritto “in 
                  quello di Akkar” è un errore che ammetto non avere 
                  corretto. È giusto comunque farmi notare che la definizione 
                  “campo profughi” non sia giusta, e che sia meno 
                  fuorviante utilizzare il termine “insediamento informale”. 
                  Nel mio articolo vi è comunque scritto che “le 
                  persone si accampano come possono o vengono ospitate dai locali 
                  in assenza di un programma nazionale di ufficializzazione dei 
                  campi”. 
                  3. Come spiegato nel primo punto, non ho incentrato la mia testimonianza 
                  sulla spiegazione e sulla lettura del conflitto siriano, bensì 
                  ho solamente riportato le parole di alcuni volontari incontrati 
                  negli insediamenti visitati che mi hanno descritto la situazione 
                  odierna siriana secondo i loro occhi. Non mi sembra di avere 
                  dato una lettura di un certo tipo del conflitto siriano o peggio 
                  ancora avere riportato un'interpretazione dominante. L'articolo, 
                  dato anche il ristretto spazio in termini di caratteri, mira 
                  principalmente a testimoniare l'esperienza personale vissuta 
                  negli insediamenti e (tornando anche al suo primo punto) non 
                  a dare una spiegazione/interpretazione in merito al conflitto 
                  civile del passato e alle dovute differenze rispetto al presente. 
                  Un discorso a parte meriterebbe il corredo fotografico. All'inizio 
                  dell'articolo vi è scritto “Reportage di Giacomo 
                  Maria Sini”; le foto quindi sono le mie, dato che di narrazione 
                  d'un reportage fotografico si tratta. Nell'articolo ho scritto 
                  che gran parte degli abitanti dell'insediamento visitato ad 
                  Arsal provengono da Homs, dalla regione di Qalamoun e da Qusayr. 
                  Credo che ognuno possa avere qualsiasi impressione rispetto 
                  all'articolo e al fotoreportage prodotto nelle zone visitate 
                  e le sue sono state legittime considerazioni che ho letto con 
                  attenzione. Mi conceda però di ripeterle che con un numero 
                  di caratteri ristretto, non ho avuto la possibilità e 
                  non mi sono voluto dilungare su svariate riflessioni specifiche 
                  prodotte in tali zone dove è chiaro che io sia stato, 
                  dato che di testimonianza si tratta. Non era la prima volta 
                  che mi recavo in Libano e ho sempre avuto un profondo interesse 
                  per il mondo arabo e per il Medio Oriente, “operando” 
                  spesso in tali zone. Mi conceda quindi di affermare che anche 
                  io ho il mio umile bagaglio di informazioni dato da esperienze 
                  dirette e letture sul tema. 
                  Il titolo è un diretto riferimento al fotoreportage. 
                  Come ben può notare gran parte delle foto che ho fatto 
                  nel reportage sono ritratti che arrivano principalmente da uno 
                  dei due insediamenti visitati in Libano. L'articolo quindi, 
                  non mira a descrivere la situazione generale di tutti i profughi 
                  sparsi per il paese, ma testimonia un'esperienza diretta con 
                  alcuni di essi in quelle due zone. Per quanto riguarda Tripoli, 
                  in questo articolo ho deciso di nominarla per rimembrare brevemente 
                  una delle situazioni più complesse per una delle più 
                  importanti città del Libano, dove mi sono recato, sono 
                  stato ospitato e ho avuto modo principalmente di discutere del 
                  pesante conflitto interno, respirandolo direttamente con alcuni 
                  siriani e libanesi. 
                  In definitiva, sperando di poterne discutere di persona, le 
                  mando un sincero saluto.
                  Giacomo Sini 
                  Livorno 
   
                  Camillo Berneri e Piero Jahier/Un sodalizio umano e intellettuale nella Firenze antifascista dei fratelli Rosselli 
                Cari compagni, 
                  ho trovato tra le pieghe dei vecchi libri della biblioteca di 
                  famiglia due bei ricordi di Camillo Berneri. 
                  Il primo è tratteggiato nel secondo dopoguerra dal bisnonno 
                  Piero Jahier, che aveva avuto Berneri per intimo amico a Firenze 
                  tra la fine dei '10 e i primi anni '20. Concepito in forma di 
                  lettera come prefazione al volume in memoria di Camillo scritto 
                  dalla madre Adalgisa Fochi Berneri Con te, figlio mio, 
                  comparso nel 1948, è contenuto nella raccolta Con 
                  me. 
                  Il secondo ricordo è un originale dattilografato e incollato 
                  in fondo all'edizione di Pensieri e battaglie stampata 
                  per il Comitato “Camillo Berneri” a Parigi il 5 
                  Maggio 1938, nel primo anniversario della morte. Si tratta di 
                  una breve nota biografica redatta verosimilmente dalla stessa 
                  Adalgisa Fochi Berneri, che donava questa copia al bisnonno 
                  in segno di gratitudine proprio per la stesura di quella prefazione, 
                  con una dedica autografa datata 1 Ottobre 1947: “All'avv. 
                  Piero Jahier con commosso animo, riconoscente per il ricordo 
                  che serba all'amico perduto, La mamma di Camillo”. Il 
                  volume è sottolineato e annotato a margine dal possessore 
                  ed arricchito con due ritratti fotografici di Berneri ritagliati 
                  da giornali e incollati in terza e quarta pagina che riportano 
                  le didascalie autografe: “Nel 26 a 29 anni appena a Parigi” 
                  e “In Germania dopo sei anni circa di aspra vita”. 
                  Camillo: eclettico, eterodosso, coerente pensatore anarchico 
                  di lingua italiana, filosofo allievo di Salvemini, perseguitato 
                  e esule antifascista, collaboratore tra molte e non solo libertarie 
                  anche della rivista di cultura protestante Conscientia, 
                  miliziano nella rivoluzione spagnola, vittima dello stalinismo 
                  di cui fu critico lucidissimo. 
                  Piero: di antica famiglia valdese, poeta vociano, esteta e moralista 
                  originale e contraddittorio, interventista democratico, intellettuale 
                  antifascista del Non mollare che accoglieva nella sua 
                  biblioteca tutto Proudhon. 
                  Due figure inquiete, vicine e distanti, intrecciate negli anni 
                  dell'imporsi dell'impostura nera, accomunate nella Firenze intellettuale 
                  e resistente dei Rosselli. Memoria liberata dal chiuso delle 
                  pagine. 
                 Paolo Papini 
                  Roma 
				  
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Piero Jahier  | 
                   
                 
                 Cara mamma di Camillo Berneri, 
                  leggendo il suo libro, mi son veduto venire incontro, per 
                  mano alla sua mamma, non più ottuagenaria, quel ragazzo 
                  che ho amato giovane uomo, così come me lo vedevo venire 
                  incontro, trent'anni fa, dal viale Alessandro Volta, tenendo 
                  per mano, orgoglioso padre novello, le due bimbe: Maria Luisa 
                  e Giliana. 
                  Veniva a cercarmi alla Casa Rossa, e le due belle bimbe, 
                  agghindate nelle leggiadre vesticciole casalinghe da mamma e 
                  nonna, tacevan compunte, mentre i grandi, chissà perché 
                  eccitati, difendevano l'anticomunismo di Proudhon, o ragionavano 
                  dell'esilio di Kropotkine e della alternativa che la tirannide 
                  fascista andava imponendo a chiunque avesse coscienza di dignità 
                  umana: degradarsi più o meno ad abbietto conformista, 
                  o essere uomo. 
                  Essere uomo significava tra l'altro, per quel giovane dallo 
                  sguardo limpido e diritto, che aveva trovato nell'amore coniugale 
                  proudhoniano il proprio equilibrio (aveva scritto: anche in 
                  amore le tendenze poligame o poliandriche rivelano l'esaurirsi 
                  della poesia), e si confessava “madre” nell'intensità 
                  affettiva della sua paternità, significava sottoscrivere, 
                  di propria iniziativa, al disfacimento di quel nido familiare 
                  appena costruito, che era il suo porto di poesia sulla terra. 
                  Ma già allora Camillo cercava, attraverso le molteplici 
                  spinte e curiosità del suo ingegno vivace, una armonia 
                  totale della personalità al di là di ogni sentimentalismo, 
                  al di là dei valori meramente decorativi dell'arte gioco. 
                  Cercava come Slataper “l'eroismo dell'atto, miracolo 
                  che può infiorare un ramo secco”. 
                  Cercava, cioè, quel che già possedeva, che 
                  era la sua grazia, indelebilmente impressa su quella sua fronte 
                  di arcangelo: la grazia di tradurre in atto le verità 
                  dell'anima, senza paure e senza esitazioni; quella grazia che 
                  i migliori tra i suoi compagni han chiamato la sua santità. 
                  “Guardai intorno a me nella vita. E vedendo dovunque 
                  disarmonie, cioè ingiustizie schiaccianti ed arbitrii 
                  bestiali, mi dissi: “Ecco una via certa. Ed era quella 
                  di battermi contro quei mostri reali”. 
                  Ora, in epoche meno vili e feroci della attuale decadenza 
                  europea, sarebbe forse stato possibile ad un giovane idealista 
                  battersi contro quei reali mostri altrimenti che facendosi rimpallare 
                  da un carcere all'altro delle sedicenti nazioni libere d'Europa, 
                  o tirando una carretta di manovale fino allo sfinimento, in 
                  terra straniera, od oscurando la fronte serena della propria 
                  bimba, con la visione del padre dietro le inferriate di una 
                  prigione: “mentre giocavamo nei campi, io mi rimproveravo 
                  di divertirmi, mentre tu ti trovi in prigione”. 
                  Ma erano gli anni in cui i letterati, figli di quei liberali 
                  che avevano giurato e garantito la libertà di coscienza 
                  come un diritto naturale, scoprivano – guarda caso! – 
                  non la retorica e la violenza fascista, ma la retorica e la 
                  violenza dei romantici rivoluzionari, la retorica di Bakounin, 
                  e un loro campione, con tale meritoria scoperta alla mano, bussava 
                  alle porte dell'accademia mussoliniana. Eran gli anni in cui 
                  i poetini ermetici spremevano gli ovidutti per offrire alla 
                  ammirazione dei Guf logogrifi letterari che non recassero traccia 
                  dell'argomento pericoloso.  
                  Quando una generazione giunge a tale annichilamento da accettare 
                  la depravazione dell'arte a gioco tecnico, la corruzione della 
                  religione ad instrumentum regni, l'asservimento della politica 
                  alla possidenza, è provvidenziale e indefettibile che 
                  il più generoso balzi all'avanguardia nella posizione 
                  estremista più rischiosa, quale quella affermata dall'idea 
                  libertaria, che diffida di ogni autorità e tradizione, 
                  ed esige da ogni coscienza la capacità di emanciparsi 
                  da sola nell'eroismo dell'atto “miracolo che può 
                  infiorare un ramo secco”. 
                  Io non avevo conosciuto la “mamma di Camillo” 
                  che attraverso qualche indiscrezione affettuosa di lui, come 
                  la mamma che guardava le spalle al proscritto, aiutando i suoi 
                  cari col proprio lavoro di maestra elementare; ignoravo la tradizione 
                  mazziniana materna in cui era cresciuto, analoga a quella dei 
                  Rosselli, amici comuni; non avevo avuto che un barlume della 
                  purezza del suo quadro familiare. 
                  Queste memorie della prima età di Camillo Berneri, 
                  anche se non immuni dal difetto di ogni scritto materno: “ipsum 
                  quem genuit adoravit”, danno, attraverso gli episodi infantili, 
                  rivissuti con genuinità assoluta, il senso della continuità 
                  psicologica di una personalità che primeggia nella lotta 
                  politica di questo trentennio. 
                  È bello, mamma Berneri, aver generato in quegli anni 
                  un uomo intero, capace di fare in piena coscienza l'aborrita 
                  scelta dell'eroica follia della bontà armata, la scelta 
                  che si è imposta, unica e inderogabile ai migliori dei 
                  suoi coetanei: la scelta di Carlo Rosselli, di Gramsci, di Gobetti, 
                  che fraternamente lo amarono. 
                  Anche se l'affetto di quella mamma, lo strazio di averlo 
                  così atrocemente perduto le strappa l'assurdo autorimprovero 
                  di aver cresciuto, per una sua incapacità di adattarsi 
                  agli usi del mondo, un figlio che “troppe volte si sentì 
                  solo, e fu refrattario alle convenzioni sociali, e ribelle a 
                  ogni forma di coercizione”. 
                  Si rimane muti di angoscia davanti all'inconsolabilità 
                  di un dolore di madre. Come sono rimasto, giorni fa, per le 
                  scale di Casa Rosselli, incontrandomi, dopo venti anni, con 
                  l'esile figura della mamma di Carlo e di Nello. 
                  Ma è proprio il dono d'una creatura redentrice, inesorabile 
                  nell'opporre il proprio “non serviam” al mondo più 
                  indegno, il più alto dono che possan fare ai perduti 
                  le viscere di una madre.
                  1947
                  Camillo Berneri fu ucciso, sembra, da comunisti, durante 
                  la rivoluzione spagnola. Anch'egli scolaro di Salvemini, fu 
                  tra i più anziani del nostro primo gruppo di antifascisti 
                  (n.d.a.) 
                   
                  Prefazione al libro di Adalgisa Fochi Berneri Con te, figlio 
                  mio, Officine grafiche Fresching, Parma, 1948 in Piero Jahier, 
                  Con me, Editori Riuniti, Roma, 1983 
                   
                  Su Piero Jahier ascolta su wikiradio.rai.it la trasmissione 
                  Piero Jahier raccontato da Mario Isnenghi dell'11 Aprile 
                  2014.  
                   
                  Botta.../Ma Kant non era per la tortura 
                Cara redazione, 
                  leggo su “A” 389 (maggio 2014), nello scritto del 
                  Collettivo Altra Informazione (Beccaria, 
                  Kant e il terrore di stato, pagg. 17-19), che Kant avrebbe 
                  giustificato l'impiego della tortura. 
                  A me veramente non risulta. Chi lo afferma dovrebbe produrre 
                  almeno un rigo di Kant in cui ciò si sostenga. Dubito 
                  fortemente che esista. 
                  È vero, Kant non è contro la pena di morte, e 
                  su ciò critica Beccaria, ma sulla tortura non mi pare 
                  affatto favorevole o giustificazionista. Insomma: a ciascuno 
                  il suo. 
                  Saluti
                  Massimo La Torre 
                  Catanzaro 
   
                  ...e risposta/Pena di morte e tortura: distinzione labile e ambigua 
                Volentieri precisiamo a riguardo, riconoscendo una parziale 
                  fondatezza all'osservazione mossaci dallo stimato Massimo La 
                  Torre. 
                  La citata lettera del 1796 in cui Kant rimproverava a Beccaria 
                  «il sentimento di falsa umanità» e legittimava 
                  «il diritto del sovrano nei confronti dei suoi sudditi 
                  di infliggere loro una pena dolorosa» è stata ripresa 
                  dal recente saggio di Michel Porret, “Beccaria. Il diritto 
                  di punire” (Il Mulino, 2014) e, secondo la nostra modesta 
                  interpretazione, non è circoscrivibile solo alla pena 
                  capitale; d'altra parte, la distinzione etica e materiale tra 
                  pena di morte e tortura appare sempre alquanto labile, nonchè 
                  politicamente ambigua. 
                  Cordialmente.
                  Altra Informazione 
                  aranea.noblogs.org 
                
                   
                    Prosegue 
                        il dibattito su 
                        movimenti e potere 
                      Pubblichiamo 
                        qui di seguito il sesto, settimo e ottavo intervento nel 
                        dibattito sulle tematiche toccate nei quattro articoli 
                        di Antonio Senta (“potere e movimenti”) pubblicati 
                        sulla nostra rivista tra l'ottobre 2013 (“A” 
                        383) e il febbraio 2014 (“A” 386). In precedenza 
                        erano intervenuti Andrea 
                        Papi e Andrea 
                        Aureli (“A” 388) e Francesca 
                        Palazzi Arduini (“A” 389), Andrea 
                        Staid e Federico 
                        Battistutta (“A”390). Ricordiamo che gli 
                        interventi in questo dibattito, come sempre aperto a tutti, 
                        non possono superare le 6.000 battute (spazi compresi). 
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                    Dibattito 
                  Movimenti e potere/6 
                  e 7 e 8 
                   
                  Walter Siri/L'autogestione di oggi, le lotte di domani 
                Sulla questione della lotta di classe sollevata da Andrea 
                  Papi nella prima risposta alla serie di articoli proposti da 
                  Antonio Senta. 
                   
                  Il termine usato da Toni allude alla definizione di Lotta di 
                  Classe “dall'alto” che Luigi Fabbri poneva alla 
                  base dell'analisi del nascente fascismo*. 
                  Il dibattito su questi temi non è datato. Sul finire 
                  degli anni '90 e per metà dei primi anni 2000, si è 
                  discusso molto - anche in ambito anarchico - di turbo-capitalismo 
                  e di lotta di classe dei ricchi contro i poveri. 
                  Ciò che caratterizza anche l'attuale fase vede le organizzazioni 
                  (per quanto sovranazionali, reticolari, informali, destrutturate) 
                  delle classi dominanti all'attacco. Alcuni scenari sembrano 
                  prefigurare una sorta di apocalisse dove chi ha i mezzi, le 
                  capacità e le relazioni di potere immagina di sopravvivere 
                  tenendosi lontano dalla discarica sociale. 
                  Non mi pare arbitrario riconoscere nella molteplicità 
                  dei soggetti che soffrono dello sfruttamento e dell'oppressione 
                  quei caratteri comuni che definiscono una composizione (per 
                  quanto tecnica) della classe subalterna. Volendo possiamo 
                  pluralizzare: le classi subalterne, le masse diseredate, i flussi 
                  migratori, le favelas, le comunità indigene, etc. 
                  L'eterna guerra fra sfruttati e sfruttatori è ancora 
                  motore di istanze di liberazione. Sta a noi coglierne spunti 
                  e criticarne limiti ma non credo si possa negarne l'esistenza. 
                  Il pregio del lavoro di Toni, mi sembra, è quello di 
                  coglierne la portata analizzando non già i movimenti 
                  carsici quanto le emergenze che salgono all'onore delle cronache. 
                  Parlando dell'universo-mondo si è necessariamente superficiali 
                  e schematici e, forse, agiografici, ma credo sia di interesse 
                  comune avere a disposizione storie che ci raccontano delle lotte. 
                  Ciò ci permette di trovare le conferme o le smentite 
                  alle ipotesi che quotidianamente mettiamo in campo in quanto 
                  minoranza agente. 
                  Ma, come viene riconosciuto, Senta non tocca, nel suo excursus, 
                  solo i movimenti di piazza che si scontrano con le forze armate 
                  del potere o che hanno modalità e immaginari riconducibili 
                  alle ideologie otto-novecentesche. Mette in evidenze le reti 
                  sociali ed i progetti che tentano, qui ed ora, di dare 
                  risposte alle esigenze quotidiane e che prefigurano modalità 
                  relazioni che possono oltrepassare lo schema sociale determinato. 
                  Esiste dicotomia fra pratica rivoluzionaria e pratica autogestionaria? 
                  Per gli/le anarchiche il problema non si pone: è nell'autogestione 
                  delle lotte di oggi che si costruisce il futuro di domani. 
                  Ad un movimento impegnato in una lotta libertaria complessiva 
                  non può sfuggire l'importanza di adottare dei modelli 
                  di riferimento con tutti i rischi della superficialità 
                  e dell'approssimazione. 
                  Il modello anarchico prefigura una lotta radicale (tanto radicale 
                  da essere definita sovversiva e rivoluzionaria) per l'oltrepassamento 
                  di ogni relazione di potere e/o dominio. 
                  Come? È evidente che ci possono essere modalità 
                  e contesti molteplici. 
                  Che si possono realizzare spazi nei quali il potere è 
                  bandito. Che si possa lottare contro tutte le forme di potere. 
                  Che si possa abbattere il governo di turno. 
                  Che si possano ottenere degli obiettivi intermedi o parziali. 
                  Ciò che ci caratterizza rispetto alle ipotesi riformiste 
                  non è la velleità del tutto e subito ma 
                  la prospettiva di una soluzione concreta alle contraddizioni 
                  contemporanee. Una prospettiva che non può non tenere 
                  conto delle esigenze immediate nella relazione intrinseca fra 
                  mezzi e fini ma, sopratutto, fra condizioni e possibilità. 
                  La lotta di classe torna a fare capolino. 
                  Tornando all'intervento di Andrea Papi rilevo un altro tema 
                  di dibattito: la questione della violenza. 
                  Sull'argomento, dirò subito, l'intervento 
                  di Stefano Boni (ospite della rubrica di Andrea Staid, “A” 
                  387) mi pare pratico-sensibile, mettendo in evidenza come l'uso 
                  della forza fisica sia imprescindibile sia come forma minima 
                  di autodifesa, sia per manifestare nella maniera più 
                  incisiva possibile l'opposizione al potere costituito. 
                  Non c'è relazione – se non velleitaria – 
                  fra uso della forza, pratiche di illegalità (anche di 
                  massa), capacità di contenimento nei confronti delle 
                  forze di polizia e strategie insurrezionali. 
                  Il tanto vituperato Blocco Nero è stato e continua ad 
                  essere uno degli strumenti che i movimenti hanno per difendersi 
                  dalle brutalità del potere e degli agenti del potere 
                  che contrastano le proteste. 
                  Uno e non LO strumento. Così come sarebbe disarmante 
                  considerare qualsiasi forma di resistenza alle soverchianti 
                  forze armate dello stato come eticamente inaccettabile in virtù 
                  di un malinteso anti-violentismo, altrettanto sarebbe suicida 
                  indirizzare gli sforzi di lotta dei diseredati e dei ribelli 
                  verso una soluzione militare. 
                  La sollevazione generale, l'insurrezione, la rivoluzione hanno 
                  più bisogno di zone liberate che di pistole. Ma 
                  le zone liberate devono essere difese contro gli attacchi degli 
                  scherani. 
                  Sempre per citare Boni: “Non sostengo né la 
                  bellezza né l'indispensabilità dell'azione diretta 
                  violenta. Sarebbe però ingenuo pensare che l'attività 
                  politica più efficace sia iscrivibile nello spazio pacificato 
                  consentito dalle istituzioni. Il tema della violenza, dopo decenni 
                  di tabù, torna a far riflettere e discutere per varie 
                  ragioni. Per non farsi cogliere impreparati, sono gli eventi 
                  contemporanei ad imporlo. Per trovare percorsi di analisi e 
                  prassi condivisa, attraverso un dialogo senza preclusioni, in 
                  una galassia libertaria in cui le posizioni sono molto distanti 
                  ma spesso non esplicitate. Per riuscire a concepire, e possibilmente 
                  costruire, una forza che permetta di difendersi dalla violenza 
                  statale. Questa è riuscita a seccare sistematicamente 
                  i germogli libertari che si sono timidamente manifestati in 
                  questi ultimi secoli. Se dovessero dare nuovi frutti in questi 
                  anni imprevedibili, sarebbe scellerato lasciarli devastare senza 
                  opporre una seria resistenza.”
                  Walter Siri 
                  Bologna 
                 * Introduzione a “La Controrivoluzione Preventiva”, 
                  Zic, Milano, 2009, note a cura dell'Assemblea Antifascista Permamente 
                  di Bologna  
 
                    
                  Un compagno della Federazione Anarchica Reggiana – FAI/Non 
                  esistono scappatoie per pochi 
                   
                  Tento di entrare nel dibattito proposto da Toni e rilanciato 
                  da “A” facendo un passo indietro. E cioè 
                  dalla crisi del modello democratico occidentale. Toni ha presentato 
                  vari contesti con accenni alle condizioni specifiche che hanno 
                  fatto nascere movimenti di protesta e di rivendicazione, evidenziando 
                  tratti comuni dipendenti da “processi internazionali 
                  di accumulazione del capitale, laddove il capitale per vivere-cioè 
                  produrre, sfruttare e ricavare profitto - deve necessariamente 
                  modificarsi, aggredendo sempre nuovi e ulteriori spazi, materiali 
                  e immateriali”. 
                  Queste proteste mostrano comunque profonde differenze sia di 
                  tipo organizzativo che di carattere rivendicativo – progettuale, 
                  addirittura riscontrabili all'interno delle singole esperienze. 
                  Così troviamo chi lotta per un progetto autogestionario, 
                  chi per ripristinare corretti rapporti di delega democratica 
                  (come ancora parte del movimento 15-M chiede in Spagna), chi 
                  per riottenere condizioni di vita (e di consumo) vissute prima 
                  della crisi ed ora perse (smarrimento della classe media). Rispetto 
                  al movimento no-global (l'ultimo movimento di rottura, di base 
                  e di massa con una prospettiva internazionale) una differenza 
                  sostanziale è data dal fatto che questo lottava contro 
                  un sistema capitalistico-democratico in espansione, che dopo 
                  la caduta del muro di Berlino trovava negli Stati Uniti l'unico 
                  riferimento di una presunta omogeneità politica globale. 
                  Ora i nuovi competitori internazionali, Cina e Russia in primis, 
                  rivendicano la lontananza da sistemi democratici immobili, caratterizzati 
                  dalla scarsa capacità decisionale1, 
                  e su questo i modelli occidentali si stanno adeguando riducendo 
                  gli spazi di espressione e di partecipazione nel nome della 
                  governabilità. “Paura e crisi costituiscono 
                  l'orizzonte insuperabile della governamentalità del capitalismo 
                  neoliberista... La crisi è la modalità di governo 
                  del capitalismo contemporaneo2”. 
                  La mancanza di alternativa è la parola d'ordine dei nostri 
                  giorni. L'impoverimento dell'immaginario3. 
                  Questo è il quadro che ci aspetta sia che si parli di 
                  austerity e Comunità Europea, sia che si parli di piccole 
                  patrie, di forconi e di grillismo. In entrambi, i processi di 
                  governamentalità che sempre più strutturano relazioni 
                  di dominio riducono gradualmente l'autonomia dei singoli 
                  e rafforzano l'idea di Stato e di Governo, permettendo 
                  a questi di esercitare forza e condizionamento4. 
                  La piazza è un momento di risposta alla crisi, di ricomposizione 
                  di questa condizione di atomizzazione sociale e di costruzione 
                  di immaginario. La piazza assume il ruolo dello spazio del confronto, 
                  così come le cooperative sociali e di consumo, gli spazi 
                  collettivi per l'autoproduzione e l'educazione 
                  libertaria. Gli spazi occupati, quelli alternativi e i circoli 
                  anarchici. Le cucine del popolo, gli orti collettivi e i GAS. 
                  Le casse di solidarietà libertarie, i comitati di assistenza 
                  e di resistenza, le esperienze mutualistiche. Le esperienze 
                  comunaliste, di autogoverno e le forme di sperimentazione comunitarie. 
                  Tutto questo è piazza. 
                  “Le conseguenze delle azioni che ognuno di noi compie 
                  nella vita quotidiana determinano il corso della politica. Ognuno 
                  di noi per il fatto stesso di vivere, modifica il mondo, che 
                  ne sia consapevole o meno, che lo voglia o meno, che lo accetti 
                  o meno5”. Ecco 
                  io penso che per la realizzazione di questo “esodo 
                  e resistenza”, non sia sufficiente accontentarsi 
                  degli spazi di libertà individuali che ognuno di noi 
                  cerca di costruirsi. Non esistono scappatoie per pochi. Non 
                  esistono alternative alla necessità di organizzarci, 
                  di condividere percorsi, di dare continuità e lungimiranza 
                  al nostro agire politico. Il caso greco mi sembra esemplare: 
                  dopo la crescita numerica, la capacità di mobilitarsi 
                  nelle strade, l'occupazione di spazi e la costruzione 
                  di lotte a fianco di lavoratori, di immigrati, per la difesa 
                  dei territori dallo sfruttamento delle imprese e delle multinazionali, 
                  parte del movimento ha compreso che per riuscire a far fronte 
                  alle condizioni di vita che la crisi imponeva, per riuscire 
                  ad essere incisivi, doveva organizzarsi. Per questo stanno nascendo 
                  due federazioni anarchiche, per questo il tema dell'organizzazione 
                  è centrale nel dibattito politico. I movimenti di piazza 
                  sono momenti importanti di emersione di pratiche alternative, 
                  di conflitto e di sperimentazione. Ma appunto, sono momenti. 
                  La possibilità data dall'organizzazione anarchica è 
                  quella di costruire quotidianamente un nuovo immaginario che 
                  scardini gli elementi del dominio. È dare radicamento 
                  sociale all'anarchia così da garantire impulso e sostegno 
                  alle pratiche di libertà nate dai momenti di rottura, 
                  è la costante capacità perciò di contaminare 
                  e di farsi contaminare. È l'essere in grado di dare continuità 
                  a questi momenti di rottura anche dopo il loro esaurimento. 
                  È impedire che le aspirazioni di trasformazione rifluiscano 
                  in nuovi ceti politici, funzionali a ricomporre un quadro di 
                  delega e a deviare le energie rivoluzionarie verso nuovi o vecchi 
                  riformismi. È dare una prospettiva complessiva a istanze 
                  che spesso sono legate all'oggi o all'individuo, è dare 
                  risposte collettive a problemi collettivi e al contempo della 
                  collettività. Far assumere cioè un piano politico 
                  all'agire e allo sperimentare, secondo percorsi chiari, assembleari 
                  e collettivi. La trasformazione del contesto in cui viviamo 
                  nasce sempre dalle condizioni sociali e da un atto di volontà 
                  individuale che diventa collettivo. L'organizzazione anarchica, 
                  io credo, è il miglior modo per agire questo atto di 
                  volontà in un quadro di libertà, attraverso la 
                  conciliazione di pensiero e realtà, di desiderio e di 
                  reale. 
                 Un compagno della Federazione Anarchica 
                  Reggiana – FAI 
				  
                
				
                - Si veda per esempio il numero 1044 del 28 marzo 2014 della 
                  rivista Internazionale, C'era una volta la democrazia
                  
 - Maurizio Lazzarato, Il governo dell'uomo indebitato, saggio 
                  sulla condizione neoliberista, Derive e Approdi, 2013
                  
 - Si veda David Graeber, La rivoluzione che viene, Manni, 2012
                  
 - Eduardo Colombo, Le due rappresentazioni delle stato, in 
                  L'anarchismo oggi, un pensiero necessario, Mimesis, 2014
                  
 - Flavia Monceri, Anarchici; Matrix, Cloud Atlas, Edizioni 
                  ETS, 2014
  
                 
 
                    
                  Eugen Galasso/Ma non parliamo solo di classe operaia 
                   
                  Su movimenti e potere credo si stia sviluppando un dibattito 
                  estremamente interessante, su “A”, che spero sia 
                  foriero di sviluppi e applicazioni pratiche: senza teoria, ritengo, 
                  non c'è prassi, ma anche la teoria deve confrontarsi 
                  con la prassi. 
                  Escludendo il mito della prassi à la von Ciezlowsky 
                  (ma è Ottocento, sinistra hegeliana), che oggi sembra 
                  far scuola nei “Black Block” e movimenti analoghi, 
                  i cui risultati sembrano favorire sempre solo i detentori del 
                  potere, c'è da intendersi su come concepiamo movimenti 
                  e potere. Riandando al primo 
                  intervento di Antonio Senta (ottobre 2013, “A” 
                  383, pp.13-15) credo sia importante segnalare come l'autore 
                  evidenzi i testi prodotti da Huntington e altri, per difendere 
                  una “democrazia american style” contro la “cultura 
                  antagonista” (sic!). Ne possiamo indurre la strategia 
                  dei poteri “occidentali”, con le loro indubbie differenze, 
                  rispetto a tutto ciò che può essere “antagonistico”... 
                  Da qui e naturalmente da altri testi analoghi possiamo ricostruire 
                  strategia e tattica (al plurale, se si vuole) dei poteri verso 
                  i movimenti, addirittura da fine anni Sessanta (anche se i testi 
                  citati all'inizio di “The crisis of democracy” sono 
                  successivi, metà anni 1970, la loro elaborazione è 
                  appunto precedente) fino ad oggi. Non citerò ulteriori 
                  testi sentiani per brevità, ma non mi scandalizza affatto, 
                  anzi mi conforta il fatto che Senta parli di “lotta di 
                  classe”. Posso accettare la relativizzazione proposta 
                  da Andrea Papi, per cui “in sociologia il concetto 
                  di classe è dificilmente definibile” (“A” 
                  388, aprile 2014, p.125), pur tuttavia esso è usato da 
                  molti sociologi, politologi e non pochi economisti. È 
                  una di quelle espressioni che, al di là di ulteriore 
                  definizione, sono comunque diffuse quasi convenzionalmente e 
                  “universalmente”. Che poi la pauperizzazione data 
                  dall'attuale crisi come dalle altre (precedenti e future, sempre 
                  che usciamo dalla presente...) non coinvolga più solo 
                  il “proletariato” è assolutamente vero, perché 
                  coinvolge anche piccola borghesia, studenti, disoccupati di 
                  diversa “estrazione” etc., ma che la situazione 
                  di operai e contadini poveri sia particolarmente “traballante”- 
                  ed è un eufemismo - pare evidente. 
                  “Datata la lotta di classe”, come più sopra 
                  nel suo intervento propone Andrea Papi, brillante teorico del 
                  libertarismo e anarchismo? Direi di no: se chiediamo ad un sindacalista 
                  latinoamericano, per es., dirà sicuramente di no, che 
                  l'espressione è ancora attuale, visto il clivage 
                  (stacco, divisione) di cui, per es. parla ampiamente e giustamente 
                  (almeno ritengo sia così) Etienne Balibar nel recentissimo 
                  saggio “Un nouvel élan, mais pour quelle Europe?” 
                  (Le Monde diplomatique, N.720, 61 année, mars 2'14). 
                  Vogliamo dire “poveri” versus “ricchi” 
                  invece di “proletari” versus “borghesi”? 
                  Va bene, lo fa anche Balibar, di provenienza marxista, ma non 
                  credo che ciò cambi molto i termini della cosa. Fermarsi 
                  qui sarebbe sterile nominalismo, un nominalismo che certo ad 
                  Andrea non è mai appartenuto né appartiene. I 
                  “grands commis d'état” rispetto ai piccoli 
                  impiegati ma anche a qualche funzionario “di basso rango”, 
                  con un divario a livello retributivo non solo geometrico ma 
                  astronomico, dove però lo stacco vale altrettanto nel 
                  settore privato. 
                  Ormai nessuno o quasi (forse qualche dogmatico nostalgico operaista) 
                  si limita a parlare della classe operaia come unica vittima 
                  di ogni crisi ma anche di ogni condizione “normale” 
                  del capitalismo, ammesso che sia sensato parlare di “normalità” 
                  in questo come in altri ambiti... Peraltro di “capitalismo” 
                  parla correttamente Papi stesso nel suo bel testo “Renzi, 
                  ultima illusione” (“A” 388, pp.11-12). 
                  Spesso, anche per valutare come i poteri, nella loro ampia diversità, 
                  si rapportino ai movimenti, anch'essi non riconducibili mai 
                  a un illusorio “minimo comun denominatore”, intendersi 
                  su problemi come questo non è oziosa questione definitoria, 
                  ma una premessa necessaria. 
                 Eugen Galasso 
                  Firenze 
                 
                   
                  Il 25 aprile, il Primo Maggio e il PD 
                Parlando di politica con gli amici, prima o poi, salta sempre 
                  fuori qualche paura sul ritorno del fascismo, soprattutto in 
                  quel periodo che va tra la fine di aprile e l'inizio di maggio, 
                  nella quale casualmente si collocano due celebrazioni fondamentali 
                  dell'antifascismo italiano: la festa della Liberazione e la 
                  festa del Lavoro. “Se tornasse il fascismo, queste feste 
                  sarebbero vietate”, tuona sempre qualcuno, ad un certo 
                  punto della discussione. 
                  E qui, secondo me, sta un grande errore: oggi, il fascismo, 
                  quel fascismo a cui pensiamo di solito, è superato dal 
                  tempo ed inattuabile; le minacce per la libertà arrivano 
                  da altre parti, mascherate sotto volti, nomi e discorsi più 
                  rassicuranti. Oggi, non si vietano le feste, anzi l'opposto; 
                  oggi, le feste, le si occupa. 
                  L'abbiamo visto il primo maggio a Torino, ma potevamo accorgercene 
                  già negli anni passati. Il Partito Democratico discende 
                  da quel monolito rosso che era il vecchio Partito Comunista, 
                  che in un modo o nell'altro si è sempre sentito il maggiore 
                  avente diritto a festeggiare la Liberazione e il Lavoro, per 
                  ben noti motivi storici; ma, se un tempo era partito d'opposizione 
                  e, quindi, poteva godere di un appeal ribelle e antigovernativo, 
                  oggi il Pd comanda e si appresta a farlo in maniera sempre più 
                  netta (causa defaillance dei principali contendenti). 
                  Il 25 aprile è la festa degli antifascisti, ma la domanda 
                  è: chi sono i veri antifascisti? Oggi, il Pd di governo 
                  si assume l'onere e l'onore dell'antifascismo e della sua definizione, 
                  in quanto unica definizione possibile. Non è raro trovare 
                  esponenti del Pd (o dei gemelli diversi di Sel) nelle file dell'Anpi, 
                  a significare quello stretto legame, quasi implicito, tra il 
                  partito e l'antifascismo enciclopedico. In questo modo, tu che 
                  non sei concorde con la loro nozione di antifascismo, sei implicitamente 
                  fascista, sei dalla parte del torto e automaticamente escluso 
                  dal confronto. 
                  Allo stesso modo, il 1° maggio è la festa del Lavoro, 
                  ma la definizione di lavoro quale può essere se non quella 
                  del Pd (che, in questo caso, è orwellianamente anche 
                  quella del governo)? Loro, che discendono dal Partito Comunista, 
                  da quelli che han sempre fatto gli scioperi e le grandi battaglie 
                  per il lavoro, sanno di cosa si tratta e hanno il diritto ed 
                  il dovere di sfilare in prima fila nei cortei. Di più: 
                  loro sono il Lavoro. Se li contesti, contesti il lavoro, e quindi 
                  non hai diritto di festeggiare il 1° maggio. 
                  Questo è quello che è accaduto a Torino, ma eventi 
                  minori si sono verificati altrove. Di certo il clima pre-elettorale 
                  ha influito (non solo le europee, ma anche varie amministrative 
                  e, proprio in Piemonte, le regionali), ma a tutti sarà 
                  capitato di incontrare politici a pranzi o eventi per il 25 
                  aprile intenti a propagandare la loro candidatura ad una delle 
                  prossime competizioni politiche, o di notare il gruppo ben in 
                  vista dei suddetti esponenti sfilare il 1° maggio. Tutti 
                  del Pd ovviamente, perché quelle sono le loro feste, 
                  quello è il loro pubblico, e gli altri sono solo loro 
                  ospiti. A chi gli fa notare, scioccamente, che stanno facendo 
                  campagna elettorale in un momento non opportuno, rispondono 
                  sconcertati che, essendo loro gli unici veri portatori degli 
                  ideali che quelle festività incarnano, antifascisti e 
                  lavoratori non possono che essere fieri e felici che il Pd sia 
                  lì, poiché è il loro partito. 
                  Oggi, le feste non si vietano, si occupano, o se preferite si 
                  affittano (a costo zero, ovviamente). E, siccome, siamo nel 
                  mondo capitalista, la proprietà privata è un diritto 
                  che va difeso anche dietro ai cordoni di polizia in assetto 
                  antisommossa. Le cariche allo spezzone sociale del corteo di 
                  Torino non sono state fatte come risposta a provocazioni né 
                  per provocare, ma al solo scopo di sancire un diritto di proprietà 
                  privata: “questa non è la vostra festa, è 
                  la nostra; noi siamo il Lavoro, voi siete contro di noi e quindi 
                  contro il Lavoro; questa è la nostra festa, non la vostra”. 
                  Queste ultime festività sono state occupate dal partito 
                  che le ha sempre, più o meno gentilmente, rivendicate; 
                  occupate per poter esercitare la loro campagna elettorale. Non 
                  più le piccole, grige e anonime sedi di partito, che 
                  negli anni diventano via via più piccole e decentrate 
                  per via degli alti costi immobiliari, ma le piazze e le vie 
                  delle ‘grandi feste della sinistra'. Occupate, paradossalmente, 
                  come gli sfrattati occupano le case abbandonate, per rivendicare 
                  un diritto fondamentale: d'altronde, un partito senza campagna 
                  elettorale è implicitamente escluso dal mondo politico, 
                  così come un uomo senza casa è escluso dalla società. 
                  La differenza è che le case occupate il 25 aprile ed 
                  il 1 maggio non erano abbandonate; forse non godevano di grande 
                  manutenzione, ma di sicuro non erano abbandonate. 
                 Valerio Moggia 
                  Novara 
                  
                
                   
                      
                  No Tav/ Schizzi dall'aula bunker
                Salve a tutti compagni 
mi chiamo Alex, forse qualcuno di voi mi conosce o mi ha incontrato in qualche manifestazione o altri posti (son di Pistoia). Vi scrivo dopo che il nostro mitico compagno Gianni Milano mi ha chiesto vivamente di farlo! 
Sono stato nella tristissima aula bunker di Torino lo scorso martedì (13 maggio) durante il processo ai No-Tav, dove ho conosciuto Gianni e altre belle persone; là ho buttato giù alcuni skizzi che sono piaciuti tanto ai compagni, che mi hanno detto di mandarli a voi per pubblicarli magari come illustrazioni di qualche articolo sul processo. 
Vi ringrazio dell'attenzione! 
                      Alex Simone Niccolai 
                        Pistoia 
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                  Black block, G8, violenza, ecc./Proporre nuove visioni e nuove prospettive 
                Ho letto sullo scorso numero (“A” 390, giugno 2014) 
                  l'intervento di Andrea 
                  Staid e la lettera 
                  di Massimo Ortalli. Su quest'ultima vorrei fare una breve 
                  considerazione. 
                  La riflessione di Massimo è diretta: anziché abbarbicarsi 
                  nel cielo della teoria parte da un'immagine fin troppo eloquente, 
                  quella del casseur di turno (madrileno nella fattispecie) 
                  alle prese con una vetrata o un bancomat, circondato da fotoreporter, 
                  cineoperatori e compagnia discorrendo, pronti a riprenderlo 
                  e immortalarlo. Qui non c'è più l'innocenza del 
                  gesto spontaneo, seppur violento: tutto viene risucchiato 
                  ipso facto nel gorgo mediatico, ridotto a spettacolo per 
                  il telegiornale della sera o per il circo youtube. Ha 
                  ragione da vendere Ortalli, nel sottolineare ciò. 
                  Ma il problema è un altro. E qui viene il mio disaccordo 
                  per il documento sui fatti del G8 (a cui fanno riferimento sia 
                  Andrea che Massimo) o per gli interventi che appaiono su “A” 
                  pronti a stigmatizzare ogni atto rubricabile alla voce violenza. 
                  Non mi ricordo bene quanto andava dicendo quel documento – 
                  non è questo il punto -, so solo che quando lo lessi 
                  mi colpì il tono da dissociazione (peraltro non richiesta), 
                  che in qualche maniera ritrovo anche in certi articoli su “A”. 
                  Su questo proprio non mi ritrovo: reagire così dinanzi 
                  a una posizione ritenuta errata (in questo caso la pratica della 
                  violenza fine a sé stessa) innanzitutto non serve a nulla, 
                  se non a creare ulteriori solchi e divisioni interne. 
                  Invece ritengo più utile, in simili frangenti sapersi 
                  dislocare, volando più alto, spiazzando e rilanciando 
                  con proposte che svuotano di senso pratiche criticabili. Tanto 
                  per parlare di nonviolenza: Gandhi ha avuto ascolto, è 
                  stato efficace e lo ricordiamo ancora per la marcia del sale, 
                  per lo sciopero della fame o iniziative del genere, non per 
                  le filippiche (facilmente strumentalizzabili dagli inglesi) 
                  contro i suoi connazionali violenti. Perciò, prima di 
                  criticare il violento di turno sarebbe utile fare l'autocritica 
                  per la incapacità nostra a pensare e sognare in grande, 
                  a proporre nuove visioni e nuove prospettive. È lungo 
                  questa linea che vanno spese le energie. Se le immagini violente 
                  continueranno ad avere le prime pagine dei giornali in fondo 
                  è anche per colpa nostra.
                  Federico Battistutta 
                  Gropparello (Pc) 
                   
                 
                
                
                 
                  
                     
                      |    I 
                          nostri fondi neri 
                             | 
                     
                     
                        
                           Sottoscrizioni. Roberto Carloni (Roma) 10,00; 
                            Cecilia Tamplenizza (Brasile) 50,00; Istituto “Ernesto 
                            De Martino” (Sesto Fiorentino – Fi) 40,00; 
                            Giuseppe Loche ed Elisa Braibanti (Cortemaggiore – 
                            Pc) ricordando Aldo Braibanti, 50,00; Aurora e Paolo 
                            (Milano) ricordando Amelia Pastorello e Alfonso Failla, 
                            500,00; Danilo Sidari (Sydney – Australia), 
                            200,00; Andrea Cassol (Cesio Maggiore – Bl) 
                            20,00; Mirko Cervi (Medicina – Bo) 30,00; Piero 
                            Cagnotti (Dogliani – Cn) 10,00: Andrea Zontin 
                            (Storo – Tn) 15,00; Gianni Milano (Torino) 50,00; 
                            Roberto Palladini (Nettuno – Rm) 20,00; Ernesto 
                            Cosimo D'Arienzo (Presicce – Le) 30,00; Andrea 
                            Della Bosca (Morbegno – So) 10,00; Giuseppe 
                            Ciarallo (Milano) 100,00.; Francesco Papappicco (Palo 
                            del Colle – Ba) 5,00; Andrea Ronsivalle (Lodi) 
                            10,00; Edo Bodio (Condino – Tn) 10,00; Bastiano 
                            Sias (Barrali – Ca) ricordando Jeremia: poeta, 
                            fotografo, anarchico, aveva famiglia numerosa. Non 
                            diceva mai la verità, quindi la diceva sempre”, 
                            50,00; Angelo Roveda (Milano) 20,00; Vincenzo Laschera 
                            (Verona) 8,37; Libreria San Benedeto (Sestri Ponente 
                            – Genova) 3,20; Antonio Cecchi (Pisa) 20,00; 
                            raccolti durante l'iniziativa “Il miglio delle 
                            culture” (Milano, 18 maggio) al banchetto dell'Associazione 
                            Zona 3 per la Costituzione, 50,00. Totale € 
                            1.311,57. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Germano 
                            Porro (Erba – Co); Federico Torza (Brugherio 
                            – Mb) 180,00; Maurizio Guastini (Carrara) 200,00; 
                            Giancarlo Tecchio (Vicenza) 200,00; Paola Mazzaroli 
                            (Trieste); Giorgio Bixio (Sestri Levante – Ge); 
                            Natalia Castiglioni (Carnago – Va); Battista 
                            Saiu (Biella); Giulio Abram (Trento); Lorenzo Guadagnucci 
                            (Firenze); Francesco Alioti (Genova); Giorgio Barberis 
                            (Alessandria). Totale € 1.480,00. 
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