Racconti 
                         
                        Due racconti da leggere sotto l'ombrellone. 
O dove volete voi. 
                         
                        Cinzia Piantoni - La lista di Al 
                         
                        Diego Giachetti - Giovani e no  | 
                   
                  
                 
				  
                  La 
                  lista di Al 
                   
                  di Cinzia Piantoni
                  «Avevi ragione, è proprio buono», 
                  esclama Amber sorseggiando l'enorme bicchiere di succo d'arancia 
                  appena spremuto. 
                  «Te l'avevo detto», risponde Evie rimettendosi al 
                  lavoro, «la nostra sì che è vera frutta. 
                  Niente a che vedere con la roba che ti rifilano nei supermercati!» 
                  «Ti prego, non iniziare coi tuoi dibattiti salutisti», 
                  la interrompe Amber ridendo, «sono le otto meno un quarto, 
                  a quest'ora non so nemmeno il mio nome. Posso sostenere un dialogo 
                  solo se è composto al massimo da due frasi.» 
                  Anche Evie scoppia a ridere, mentre controlla che i cesti di 
                  frutta e verdura siano in ordine perfetto, fermandosi ogni tanto 
                  per togliere qualche mela troppo matura. 
                  «Otto meno un quarto hai detto?» chiede ad Amber. 
                  «Sì. Anzi, per essere precisi sono le sette e quarantotto. 
                  Perché?» 
                  «È quasi ora», risponde Evie iniziando a 
                  riempire un sacchetto di mele gialle, poi si ferma di colpo. 
                  «Oggi è sabato, giusto?» 
                  «Ma che ti è preso?» chiede Amber sgranando 
                  gli occhi, «sei impazzita? Sì, comunque è 
                  sabato. Mi vuoi spiegare che succede?» 
                  «Sette e quarantanove. Ora lo vedrai», risponde 
                  Evie iniziando a sorridere verso un punto imprecisato della 
                  piazza. 
                   
                  È in quel momento che Amber nota un uomo avvicinarsi, 
                  emergendo risoluto tra i passanti. 
                  Ha un look decisamente strano, porta un soprabito elegante su 
                  jeans strappati e scarpe da ginnastica. 
                  Quando è a pochi metri da loro si accorge che è 
                  più giovane di quel che le era sembrato: avrà 
                  al massimo quarant'anni, anche se porta occhiali da vista come 
                  quelli che aveva suo padre. In testa ha un cappello da basket 
                  in stile hip hop. 
                  Evie gli sorride. «Ciao Al, tutto bene?» chiede 
                  tendendogli la borsa con le mele, «oggi gialle, vero?» 
                  «Sì, grazie», risponde lui concentrato, prendendo 
                  la sporta in tessuto. In quel momento Amber nota che indossa 
                  dei guanti di pelle color vinaccia. 
                  Mentre l'uomo toglie due banconote da un dollaro dalla tasca, 
                  i lembi del soprabito si aprono, lasciando intravedere una camicia 
                  elegante dalla piega impeccabile. 
                  «A domani, Al», lo saluta Evie prendendo i soldi 
                  dal piattino davanti a sé. 
                  «A domani, buona giornata», risponde lui prima di 
                  sparire di nuovo. 
                   
                  «Dovresti vedere la tua faccia in questo momento», 
                  le dice Evie. È evidente che la situazione la sta divertendo 
                  un mondo. 
                  «Chi diavolo era quel tizio? E dire che vivo a New York 
                  da quindici anni, ne ho vista di gente strana! Ma quello li 
                  batte tutti, parola mia.» 
                  «Non lo so di preciso», risponde Evie trattenendo 
                  a stento una risata. 
                  «Come sarebbe a dire 'non lo so di preciso'?» sbotta 
                  Amber, «hai visto com'è vestito? Sembra scappato 
                  da un manicomio.» 
                  «Ma no dai, ha un suo stile.» 
                  «Be', di sicuro è originale! Sembra il figlio segreto 
                  di Courtney Love e Cary Grant.» 
                  «Comunque tutto quello che so è che ha un nome 
                  assurdo, tipo Balthazar o roba simile. Ogni volta mi sbagliavo 
                  nel salutarlo, per questo lo chiamo Al.» 
                  «Ma quindi quel pazzo è un cliente abituale?» 
                  «Abituale è dir poco. Ogni santo giorno, alle sette 
                  e cinquanta, lui viene da me a comprare due chili di mele. E 
                  questo da anni. Lunedì rosse, martedì verdi, mercoledì 
                  gialle, poi si ricomincia il giro. La domenica fa il doppio 
                  turno con le gialle, suppongo gli piacciano di più.» 
                  Ora Amber ha la bocca spalancata: «Mi stai prendendo in 
                  giro.» 
                  «Ti giuro di no», risponde Evie, «non so cosa 
                  se ne faccia di tutta quella frutta. Forse fa parte di una numerosa 
                  famiglia di amanti di mele. Pensa che le poche volte in cui 
                  non può venire a comprarle me le ordina per telefono, 
                  e gliele faccio consegnare a casa da mio cugino Pete.» 
                  «Roba da matti. E quei guanti poi!» 
                  «Pensa che non li toglie mai, neanche d'estate.» 
                  «Forse ha qualche malattia della pelle.» 
                  «Non saprei. In ogni caso è un ottimo cliente, 
                  e anche se non dice quasi nulla ti confesso che mi sta pure 
                  simpatico.» 
                  Amber chiacchiera ancora un po' con la sua amica, poi la saluta 
                  lasciandola agli altri suoi clienti, che per fortuna le sembrano 
                  molto più normali di quel tizio delle mele.
                  ***
                  Balthazar chiude la porta dietro di sé, 
                  tirando un sospiro di sollievo: anche per oggi è a posto. 
                  Nella lista non ha nulla che non possa fare al sicuro nel suo 
                  seminterrato. 
                  Mette le chiavi nella ciotola vicino all'entrata e appoggia 
                  sul tavolo la borsa della spesa, poi si toglie i guanti. Prende 
                  una mela tra le mani perfette e inizia a sbucciarla in silenzio. 
                  Mastica piano i quattro spicchi, intervallandoli con le altrettante 
                  pillole quotidiane: primo spicchio, pastiglia blu per i polmoni, 
                  secondo spicchio, quella rossa per il cuore, terzo spicchio, 
                  la viola per l'età, e l'ultimo spicchio seguito dalla 
                  pillola verde per la gravità. Un solo sorso d'acqua ed 
                  è pronto per mettersi al lavoro. 
                   
                  Seduto alla scrivania, accende il notebook per controllare nuove 
                  eventuali comunicazioni dalla sede centrale. Questo modello 
                  gli piace particolarmente, argentato e sottile, ha un logo a 
                  forma di mela sulla parte posteriore. Non che Balthazar abbia 
                  la benché minima voce in capitolo a riguardo: il suo 
                  contratto lo obbliga all'acquisto, una volta ogni tre anni, 
                  del computer che risulta in testa alle classifiche di vendita. 
                  Nessuno spazio per le opinioni personali. 
                  La parte più fastidiosa consiste nell'impiantare all'interno 
                  del terminale, attraverso una lunga serie di procedure, il chip 
                  che lo abilita a comunicare con la sede. Per Balthazar è 
                  persino più complicato che interagire con gli esseri 
                  umani, e questo è tutto dire. 
                  Mentre aspetta che si scarichi la posta apre e stringe i pugni 
                  ritmicamente, cercando di scacciare la sensazione di fastidio. 
                  Sono passati più di ottant'anni dal suo arrivo sulla 
                  Terra, e ancora non si è abituato a quelle strane appendici: 
                  le 'mani', come le chiamano loro. Dieci dita sono davvero troppe, 
                  per i suoi gusti. 
                  Per il resto non rimpiange nulla del proprio aspetto originale. 
                  A dire la verità, dopo tutto quel tempo nemmeno si ricorda 
                  la sua vecchia faccia. Per non parlare del nome, una serie di 
                  numeri e lettere assegnatigli d'ufficio al momento della nascita, 
                  che è stato ben felice di dimenticare appena partito 
                  da Askopos. 
                   
                  Gli basta leggere l'oggetto dell'unica email arrivata per capire 
                  di essere nei guai: “Sollecito urgente lista: voci multiple 
                  di 6 e di 7”. 
                  La lista, ovvero il motivo per cui Balthazar è sulla 
                  Terra. 
                  Askopos, il pianeta dal quale proviene (lontano circa ventimila 
                  anni luce da New York), si trova tutt'ora in perfetto stato. 
                  Ciò nonostante gli askopiani, fin dagli albori della 
                  civiltà, hanno inviato i propri ricercatori in missioni 
                  esplorative per tutto l'universo, in modo da potersi garantire 
                  mondi di riserva per qualsiasi evenienza. Balthazar si era guadagnato 
                  quell'onore dopo aver vinto un concorso pubblico col massimo 
                  dei voti. Così, senza quasi rendersene conto, si era 
                  ritrovato nel bel mezzo del porto spaziale di Skonis Menos con 
                  altri quarantanove ricercatori, ognuno in partenza per un pianeta 
                  diverso. Se si concentra ricorda ancora quanto si sentisse agitato 
                  e orgoglioso, mentre stringeva tra le appendici (appena mutate 
                  in mani) il prezioso chip contenente, tra le altre cose, la 
                  lista. 
                  La 'lista documentativo/esplorativa per la ricerca a scopo 
                  di futuro insediamento askopiano. Razza: umana, pianeta: Terra', 
                  questo il suo nome completo, non è altro che un lungo 
                  elenco di cose da fare. Gli askopiani lo aggiornano continuamente 
                  in base alla documentazione che recuperano dai propri satelliti: 
                  programmi tv, film, intercettazioni telefoniche e file di ogni 
                  tipo presi dalla rete. 
                  Il compito di Balthazar è semplice: deve solo sperimentare 
                  ciò che è indicato nell'elenco (almeno un punto 
                  al giorno), e inviare un rapporto dettagliato. 
                  Nelle intenzioni della sede centrale, la lista serve a capire 
                  come starebbe un askopiano nei panni di un terrestre. È 
                  per questo che le comunicazioni fra loro e Balthazar sono tutte 
                  rigorosamente in lingua umana, e che lui si trova costretto 
                  a utilizzare l'obsoleta tecnologia della Terra. 
                  I punti dell'elenco esplorano in modo molto dettagliato quasi 
                  ogni azione della vita di un umano medio. Per esempio il numero 
                  29611, che Balthazar pensava di svolgere quel giorno, recita: 
                  “guardare una partita di football alla tv e tifare per 
                  una delle due squadre”. 
                  Non ha nessun interesse per lo sport, tantomeno per il football, 
                  ma è diventato un maestro nel prediligere i punti più 
                  inoffensivi della lista. È molto attento a scegliere 
                  solo quelli che non prevedono né contatti con gli umani 
                  (caratteristica dei multipli di sette), né di mangiare 
                  nulla (cosa che accade nei multipli di sei). La sua fortuna 
                  è che dalla sede centrale sono sempre stati tolleranti 
                  verso il suo comportamento. Dopotutto, anche se tende a saltare 
                  alcuni numeri, per quelli eseguiti ha sempre inviato dei rapporti 
                  impeccabili. 
                  Balthazar si fa coraggio, e apre l'email appena arrivata. Sono 
                  poche righe, nelle quali il capo-progetto lo invita a dedicarsi 
                  ai punti che sta saltando da troppo tempo: i multipli di sei 
                  e sette, appunto. Poi lo saluta cordialmente e gli augura una 
                  felice vita, confidando di ricevere sue notizie quanto prima. 
                  Chiude il programma di posta col cuore in gola. Non può 
                  permettersi di ricevere una valutazione mediocre, o peggio ancora 
                  di essere licenziato. Apre l'elenco col respiro corto, pronto 
                  a scegliere due fra i punti meno pericolosi. 
                  Prima cerca fra i multipli di sei, quelli che hanno a che fare 
                  col cibo. Tutto ciò che non sia una mela gli provoca 
                  una fastidiosa gastrite, ma dalla sede non vogliono sentire 
                  ragioni, come ricercatore è obbligato a testare ogni 
                  alimento. Pensa che potrebbe provare col 29604: “mangiare 
                  una barretta energetica e andare a correre al parco”, 
                  ma subito scarta l'idea. Una barretta sarebbe anche sopportabile, 
                  ma sicuramente al parco incontrerebbe un mucchio di persone. 
                  Per lo stesso motivo scarta al volo anche il 29574: “comprare 
                  un cono alla crema da un camioncino dei gelati”. Alla 
                  fine opta per il 29556: “mangiare una zuppa in scatola 
                  leggendo il giornale”. Gli sembra abbastanza indolore, 
                  può comprare il Times in qualsiasi distributore, e riesumare 
                  dal fondo della dispensa una lattina di zuppa Campbell's. 
                  Riguardo ai multipli di sette il problema è molto peggiore, 
                  e per un semplice motivo: Balthazar è allergico agli 
                  umani. 
                  L'ha scoperto poco dopo il suo arrivo, svolgendo il punto numero 
                  28. Doveva aiutare un'anziana ad attraversare la strada, ma 
                  non appena la vecchietta lo aveva preso sottobraccio era stato 
                  assalito da un attacco di tosse. Subito dopo la gola gli si 
                  era gonfiata così tanto che aveva temuto di soffocare. 
                  Appena i primi sintomi erano passati, erano iniziati gli starnuti 
                  (all'epoca aveva appena scoperto che si chiamassero così), 
                  seguiti da un forte mal di testa. 
                  Quando allarmato aveva comunicato la cosa al capo-progetto, 
                  quello gli aveva inviato una lunga serie di questionari da compilare, 
                  intimandogli di sospendere fino a nuovo ordine lo svolgimento 
                  dei multipli di sette. Erano stati tre splendidi anni per Balthazar, 
                  aveva scoperto che senza interagire con nessuno sulla Terra 
                  si stava molto meglio. 
                  Alla fine dalla sede centrale era arrivato il responso: allergia 
                  cronica agli umani. Purtroppo però insieme alla diagnosi 
                  era arrivato anche il rimedio, le istruzioni per realizzare 
                  un unguento appiccicoso da applicare nelle narici prima di qualunque 
                  contatto coi terrestri, e l'ordine di vestire sempre un paio 
                  di guanti protettivi. Con questo, la sede centrale si era detta 
                  lieta di comunicargli che i punti multipli di sette erano da 
                  considerarsi ripristinati. 
                   
                  Balthazar scorre nervosamente la lista, in cerca di qualcosa 
                  di decente. Un po' di mal di pancia per una zuppa è una 
                  cosa, dover interagire con un terrestre è ben altro. 
                  Già lo agita anche solo comprare le mele da Evie, figuriamoci 
                  qualcosa come il 29575: “partecipare a una manifestazione 
                  di protesta”, o il 29596: “portare una terrestre 
                  femmina al cinema”. 
                  Forse potrebbe tentare col 29554: “prendere l'influenza”, 
                  così avrebbe un'ottima scusa per starsene almeno una 
                  settimana chiuso in casa. Dopotutto è appena iniziato 
                  novembre, gli basterebbe il 29561: “prendere la metro 
                  durante l'ora di punta”, magari vicino a qualcuno visibilmente 
                  raffreddato, per guadagnarsi dieci giorni al calduccio del suo 
                  seminterrato. 
                  Mentre aspetta, seppellendo il viso nella pesante sciarpa gialla, 
                  Evie inizia a convincersi di aver fatto una cavolata. Poteva, 
                  solo per una volta, farsi gli affari propri come ogni newyorchese 
                  che si rispetti? No di certo. 
                  «E così eccoti qua, davanti alla porta di un perfetto 
                  estraneo», dice a se stessa saltellando per combattere 
                  il freddo. Quando è agitata è sua abitudine parlare 
                  da sola. «Potevi almeno mandarci Pete!» esclama 
                  prima di appoggiare il sacchetto a terra e suonare per la seconda 
                  volta. L'ultima, si ripromette. 
                  «Ehi, Al, ci sei? Ti ho portato le mele.» 
                   
                  A Balthazar ci vuole un po' per capire che quello che sembra 
                  suonare direttamente nei suoi timpani non è un allarme 
                  antiaereo, ma solo il campanello di casa. Quando esce dalle 
                  coperte e si avvicina alla porta, la stanza attorno a lui sembra 
                  ondeggiare. Se avesse saputo che l'influenza consisteva in questo 
                  ci avrebbe pensato su due volte prima di prenderla. 
                  Si affaccia allo spioncino: è Evie. 
                  Negli ultimi due giorni è stato così male che 
                  non è nemmeno andato da lei a comprare le mele, né 
                  ha avuto la forza di ordinarle. 
                  Infila i guanti e le apre la porta. 
                  «Ehi, Al. Come stai? Che faccia!» 
                  «Ciao Evie.» 
                  «Scusa l'improvvisata, ma sei sparito da un po' ed ero 
                  preoccupata, così ho pensato di venire a vedere se era 
                  tutto okay.» Poi aggiunge tendendogli un sacchetto: «Le 
                  tue mele.» 
                  «Grazie. In effetti mi sono preso l'influenza, in questi 
                  giorni non ho toccato cibo.» 
                  «Oh cavolo, mi dispiace! Ma devi mangiare se vuoi rimetterti 
                  in forze. Cerca almeno di bere qualcosa di caldo.» 
                  Evie è un'umana molto premurosa. Non sa che l'organismo 
                  di Balthazar resisterebbe fino a due mesi terrestri senza ingerire 
                  nulla, e che volendo potrebbe evitare di bere anche per sempre. 
                  «Aspetta un secondo», le dice frugando nel cappotto 
                  appeso vicino all'entrata, togliendo i soldi dalla tasca, «ecco 
                  qua.» 
                  «Non ci pensare nemmeno», risponde lei alzando entrambe 
                  le mani, «oggi offro io. Ci vediamo domani? Stesso posto, 
                  stessa ora?» 
                  «Sì, a domani. Grazie ancora Evie», sussurra 
                  confuso. Ricevere un regalo per la prima volta lo fa sentire 
                  frastornato. 
                  Quando rimette via le banconote, ha ciò che i terrestri 
                  chiamano 'un colpo'. Nota il barattolo con l'unguento 
                  per l'allergia agli umani, quello che applica ogni giorno nelle 
                  narici prima di uscire, e si rende conto di non averlo messo. 
                  Per fortuna il raffreddore che gli ha chiuso il naso è 
                  servito da protezione, ma deve decisamente stare più 
                  attento. 
                   
                  Il giorno dopo Evie si presenta a casa di Al alle sette e cinquanta 
                  esatte. Stavolta non fa in tempo a staccare il dito dal campanello 
                  che la porta si apre. 
                  «Buongiorno Evie.» 
                  «Ehi. Come va oggi?» 
                  Al le sembra migliorato, anche se ha gli occhi e il naso ancora 
                  arrossati. Indossa una T-shirt dei Ramones sopra pantaloni eleganti 
                  del pigiama. Ai piedi porta delle vecchie sneakers e su tutto 
                  una vestaglia da uomo che sembra uscita da un film in bianco 
                  e nero. E, ovviamente, i guanti. Si capisce che oggi la stava 
                  aspettando: profuma di un buon dopobarba e ha le guance lisce. 
                  Senza i soliti occhiali poi, sembra più giovane. E persino 
                  carino. 
                  «Va molto meglio, grazie. Credo che domani riuscirò 
                  a uscire.» 
                  «Ottimo!» commenta Evie porgendogli il sacchetto 
                  con le mele. Ficca nella tasca del piumino i due dollari che 
                  lui le porge, poi aggiunge: «Nella borsa troverai anche 
                  dei muffin alle mele. Li ho fatti per colazione e ho pensato 
                  di cucinarne qualcuno in più per te.» 
                  Quando lo vede frugare nelle tasche della vestaglia, precisa 
                  ridendo: «Guarda che sono gratis, eh!» 
                  Al la ringrazia di nuovo, poi chiude la porta dopo averle dato 
                  appuntamento per il giorno successivo, stavolta al negozio. 
                  Che tizio strano. È sempre così gentile e ben 
                  educato, eppure non l'ha nemmeno invitata a entrare. Evie scuote 
                  la testa e s'infila in metropolitana. La giornata è appena 
                  cominciata, e lei ha ancora un mucchio di altre cose a cui pensare. 
                   
                  Balthazar si sente agitato. Sarà la febbre residua, o 
                  il fatto di aver ricevuto due regali in due giorni, o chissà 
                  cos'altro. D'istinto prova a inspirare, e l'odore inconfondibile 
                  dell'unguento nelle narici gli conferma che stavolta non può 
                  essere l'allergia. 
                  Si siede al tavolo, e toglie dalla borsa uno dei muffin. Lo 
                  esamina con attenzione, ha un bel colore e una consistenza soffice. 
                  Il profumo poi, è delizioso. 
                  D'un tratto gli viene un'idea. Forse quel regalo può 
                  essergli utile, e dopo una rapida verifica sulla lista si accorge 
                  di non essersi sbagliato. Il punto 29616: “mangiare un 
                  dolce fatto in casa” fa proprio al caso suo. Oltretutto 
                  è a base di mele, quindi non avrà nessun problema 
                  di stomaco. 
                  Quando gli dà il primo morso, scopre che il muffin è 
                  anche buonissimo, oltre a essere bello. Evie è stata 
                  davvero brava, il giorno dopo sarà suo dovere farle i 
                  complimenti. 
                  È a metà del secondo muffin quando gli viene un'altra 
                  intuizione, ancora più geniale della prima. Di sicuro 
                  è un'idea avventata, non sa ancora se funzionerà, 
                  ma decide di tentare. 
                  La cosa più difficile sarà senza dubbio chiedere 
                  a lei.
                  ***
                  Dal suo arrivo sulla Terra, Balthazar ha cambiato 
                  quindici fruttivendoli. Si tratta di una precauzione necessaria: 
                  dopo qualche anno c'era il rischio che iniziassero a chiedersi 
                  come mai dimostrava sempre la stessa età. Questo, insieme 
                  all'allergia agli umani, è anche il motivo per cui non 
                  ha mai instaurato nessun tipo di relazione. A New York non c'è 
                  niente di più facile, basta solo cambiare quartiere per 
                  garantirsi un anonimato nuovo di zecca. 
                  Oggi è giovedì, niente mercato. Balthazar, un 
                  po' in anticipo, osserva il negozio di Evie dall'altra parte 
                  della strada. La sua piccola vetrina spicca rispetto alle altre: 
                  frutta e verdura dai colori vivaci ma ordinate con precisione, 
                  il tutto sormontato da un'insegna dipinta a mano a grandi lettere 
                  di un bel rosso brillante. È stato proprio quel cartello, 
                  che dimostra così tanta cura e passione, a fargli scegliere 
                  Evie quasi cinque anni prima. 
                  Quando Balthazar entra facendo tintinnare il campanello sopra 
                  la porta, lei alza la testa dal libro in cui era immersa e gli 
                  sorride: «Ciao Al, come stai?» 
                  Anche se sono all'interno, Evie indossa una delle enormi sciarpe 
                  colorate che porta sempre quando fa freddo. Quella di stamattina 
                  è turchese. 
                  «Buongiorno Evie. Sto molto meglio, grazie.» 
                  «Ne sono felice!» dice lei porgendogli la borsa 
                  di mele rosse già pronta sul banco. 
                  Balthazar si affretta a estrarre i dollari dalla tasca, poi 
                  si schiarisce la gola cercando il coraggio di proseguire. 
                  «Ehi Al, tutto bene?» 
                  «Sì, è che volevo ringraziarti per i muffin.» 
                  «Oh, figurati», risponde Evie compiaciuta, «spero 
                  fossero mangiabili!» 
                  «Erano molto buoni, direi squisiti.» 
                  «Grazie mille.» 
                  «Senti, volevo chiederti...» 
                  Lo scampanellio che preannuncia l'arrivo di un cliente interrompe 
                  la sua frase. Così, mentre Evie serve la signora Bennet 
                  chiacchierando amabilmente, lui cerca di non agitarsi, e ripete 
                  nella testa almeno una decina di volte il discorso che si è 
                  preparato. Quando Evie torna da lui, Balthazar ha la gola secca 
                  e la mente svuotata. 
                  «Scusami tanto. Allora, cosa mi stavi dicendo?» 
                  «Ehm, io... Visto che sei stata così gentile con 
                  me, volevo sdebitarmi invitandoti a uscire.» 
                  Poi, vedendo la sua faccia stranita, si affretta ad aggiungere: 
                  «sempre se ti va.» 
                  «Non ce n'è bisogno, l'ho fatto con piacere», 
                  risponde lei alzando entrambe le mani. È evidente che 
                  lo sta rifiutando, forse si è spaventata. 
                  «Fa niente, non preoccuparti. E scusa se sono stato invadente.» 
                  Evie rimane un attimo in silenzio, poi esclama: «Anzi, 
                  sai cosa ti dico? Che accetto volentieri. Dove mi porti di bello?» 
                   
                  Balthazar esce dal negozio con la sensazione di essere appena 
                  riemerso dal fondo dell'oceano. Inspira con attenzione, cercando 
                  di riprendere la calma: lui e Evie usciranno quella sera stessa. 
                  Le ha proposto Odessa, un ristorante vicino a Tompkins Square 
                  Park che ovviamente lei conosce già, visto che vive da 
                  quelle parti. 
                  Così l'idea di Balthazar, che fino al giorno prima gli 
                  era sembrata poco meno che assurda, ora sta diventando realtà. 
                  Mangiando quei muffin si è reso conto di quanto Evie 
                  sia gentile, forse l'umana più gentile e carina che abbia 
                  mai conosciuto. Quindi perché non mettere a frutto questi 
                  lati positivi, e sbrigare con lei i punti più problematici 
                  della lista? Perché c'è solo una cosa per Balthazar 
                  peggiore dei multipli di sette, e cioè i multipli di 
                  sette che prevedono l'interazione con una terrestre femmina. 
                  Arrivato a casa, grazie a Evie ne avrà già uno 
                  da segnare come eseguito, il numero 28742: “chiedere a 
                  un'umana di uscire a cena ricevendo risposta affermativa”. 
                  «Se mi vedessero i miei clienti!» gli dice Evie 
                  con un sorriso complice all'arrivo dei loro ordini. 
                  Sono seduti al ristorante, e davanti a lei ci sono due enormi 
                  sandwich con insalata di tonno e maionese, il tutto ricoperto 
                  da formaggio fuso, e patatine fritte per contorno. In effetti 
                  per Balthazar è stata una sorpresa vederla ordinare quel 
                  genere di cibo, lei che di solito è così fissata 
                  con tutto ciò che è salutare. Lui si è 
                  limitato a un'omelette con insalata. 
                  «Questo posto mi ricorda la mia infanzia», prosegue 
                  Evie, «ogni domenica ci venivamo a pranzo coi miei genitori 
                  e mia nonna. Era ucraina, e diceva che la cucina di Odessa le 
                  ricordava casa. Per me era sempre una festa, vedevo mamma e 
                  papà sereni per almeno qualche ora. E poi mi permettevano 
                  di ordinare schifezze come questa!» 
                  S'interrompe per mangiare una patatina, poi prosegue: «Ero 
                  felice. Quella specie di felicità zen che provi senza 
                  sforzo quando sei piccolo, e che poi passi tutti gli anni della 
                  tua vita adulta a cercare di ritrovare.» 
                  Balthazar sente una strana stretta al petto, immaginando la 
                  versione bambina della ragazza che gli sta di fronte, seduta 
                  magari sullo stesso divanetto ma più di vent'anni prima. 
                  All'epoca lui viveva a Brooklyn, e se si fossero incontrati 
                  avrebbe avuto la stessa età di oggi. Le pillole viola 
                  che prende ogni giorno bloccano il suo processo d'invecchiamento, 
                  mantenendolo da sempre un trentacinquenne. Può solo immaginare 
                  cosa intenda Evie con quella frase sull'essere felici da piccoli. 
                  «E tu, Al?» 
                  «Io cosa?» 
                  «Non so, dimmi di te. Che fai di bello?» 
                  «Sono un ricercatore. Un antropologo sociale, per l'esattezza.» 
                  In effetti non si tratta nemmeno di una bugia, perché 
                  Balthazar studia proprio gli umani. 
                  «Interessante», lo incalza Evie, «e la tua 
                  famiglia?» 
                  «Loro sono rimasti nel paesino da cui provengo. Mi sono 
                  trasferito qui dopo gli studi.» 
                  Lei annuisce. Quando lo ascolta spalanca così tanto gli 
                  occhi color nocciola che Balthazar teme di caderci dentro. 
                  «Ma per il resto?» 
                  «In che senso 'per il resto'?» 
                  «Sì, intendo le tue passioni. Cosa fai nel tempo 
                  libero?» 
                  «Ah quello. Il lavoro mi occupa la maggior parte della 
                  giornata, per il resto mi piace leggere.» 
                  Il viso di Evie s'illumina: «Anche a me! Poi allora ti 
                  devo portare in un posto.» 
                   
                  L'East Village Books è una piccola libreria dell'usato 
                  a pochi minuti di cammino da Odessa. Balthazar ci è passato 
                  davanti molte volte, ma non era mai entrato prima. Preferisce 
                  ordinare i libri on-line, cosa che gli garantisce un contatto 
                  praticamente nullo con qualsiasi essere umano, a eccezione del 
                  postino. A differenza sua, qui Evie è di casa: appena 
                  entrano parte un coro di saluti, ai quali lei risponde entusiasta 
                  presentandolo come 'il mio amico Al'. 
                  All'interno il negozio è stipato di libri da cima a fondo. 
                  A prima vista sono suddivisi per temi: Balthazar adocchia l'etichetta 
                  “esoterismo”, proprio vicina a “psicologia”, 
                  e poco sopra a “tempo libero”. 
                   
                  «Allora, che ne pensi?» chiede Evie. 
                  «Questo posto è fantastico», commenta Balthazar 
                  ammirato, iniziando a frugare vicino alla targhetta “classici”. 
                  «Ritieniti onorato, ti ho portato nella mia libreria preferita», 
                  gli svela. 
                  «Davvero?» 
                  «Già. Quando sono un po' triste questo posto è 
                  il mio antidoto. Mi metto qui a spulciare finché non 
                  mi capita tra le mani qualcosa che mi tira su, e poi vado alla 
                  mia panchina a gustarmelo.» 
                  «La tua panchina?» chiede lui incuriosito. 
                  «Una cosa alla volta», Evie lo blocca alzando una 
                  mano con aria divertita, «prima dobbiamo trovare qualcosa 
                  che valga la pena di portar via.» 
                  «Non ho capito una cosa», chiede Balthazar poco 
                  dopo, mentre fianco a fianco passano in rassegna lo scaffale 
                  “varie”, «questi romanzi sono in ordine di 
                  titolo o di autore?» 
                  A quelle parole Evie scoppia a ridere di gusto: «Mi stai 
                  dicendo che in una libreria del Village pensavi di trovare i 
                  libri in ordine alfabetico? Sei troppo forte!» dice dandogli 
                  una pacca scherzosa sulla spalla. 
                  Quando Balthazar si accorge che quello è il loro primo 
                  contatto fisico gli manca per un attimo il respiro. 
                   
                  «No, non dirmi che è proprio lui», sussurra 
                  Evie incredula, chinata a consultare i libri del ripiano più 
                  basso. Ne estrae uno in edizione economica, a prima vista del 
                  tutto ordinario, poi si rialza stringendoselo al petto. 
                  «Lo sai cos'è questo?» gli dice senza aspettare 
                  la sua risposta, «questo è il mio romanzo preferito 
                  di quando avevo undici anni.» 
                  S'interrompe un secondo, allontanandolo da sé per scrutare 
                  la copertina da più distante, come se non riuscisse a 
                  crederci: «L'avevo letto in biblioteca, era perso nei 
                  meandri della mia infanzia, e ora eccolo qui!» 
                  Balthazar sorride, travolto dalla sua euforia. In questo momento 
                  è ancora più carina, ha le guance colorite e muove 
                  frenetica le mani dalle unghie dipinte di verde, brandendo quel 
                  libro come fosse il Sacro Graal. 
                  Non ha mai incontrato terrestri capaci di entusiasmarsi tanto 
                  anche per queste piccole cose. 
                  «E di cosa tratta?» le chiede. 
                  «Parla di una ragazzina che vuole diventare illusionista, 
                  per questo si chiama 'La grande magia'. E tu cos'hai trovato?» 
                  «Oh, nulla. Un vecchio classico.» 
                  «E Salinger me lo chiami 'nulla'? Per me è uno 
                  dei più grandi! È colpa mia, come al solito sono 
                  stata logorroica e ti ho investito di chiacchiere sul mio stupido 
                  romanzo per bambini.» 
                  «No no, tranquilla. Mi piace sentirti parlare.» 
                  Quando Evie ammutolisce, Balthazar va nel panico. Forse è 
                  stato inopportuno? 
                  «Grazie», sussurra lei, «anche a me piace... 
                  sì insomma, passare del tempo con te, anche se tu invece 
                  non parli molto. Mi sto divertendo.» 
                  «E poi», aggiunge alzando il libro, «hai portato 
                  un po' di magia in questa serata.»
                  ***
                  Evie sospira felice, stringendo fra le mani un'enorme 
                  cioccolata calda. 
                  Un mese prima non avrebbe mai immaginato di potersi ritrovare 
                  in quella situazione: uscire con Al e passare una serata così 
                  bella, finendo persino col portarlo alla sua panchina. Il posto 
                  dove va quando è triste, quando inizia a sentirsi una 
                  maschera invece che una persona reale. 
                  E invece è andata proprio così. 
                  Non ha mai conosciuto qualcuno come Al. È così 
                  diverso dagli altri, e non si tratta solo di come si veste. 
                  È timido e riservato, ma anche molto dolce e premuroso. 
                  Ha insistito per pagare tutto lui, per aprirle sempre la porta, 
                  per andarla a prendere a casa: sembra un gentiluomo d'altri 
                  tempi. 
                  Per sua fortuna Evie non è una classica newyorchese, 
                  è tipico delle donne di Manhattan infuriarsi al primo 
                  gesto galante. Se lei fosse stata un'altra, come minimo Al si 
                  sarebbe ritrovato con una denuncia per discriminazione. 
                   
                  Evie gli sembra stranamente silenziosa, perciò Balthazar 
                  decide di parlare per primo. 
                  «Cos'ha di speciale questa panchina?» le chiede. 
                  «Non lo so», risponde lei rianimandosi, «forse 
                  è perché, anche se sono in strada, da qui riesco 
                  comunque a vedere la finestra di camera mia. Così il 
                  mondo mi fa meno paura. Quando sono triste mi siedo qui con 
                  un bel libro, o anche solo con una cioccolata, e mi godo il 
                  silenzio. Osservo gli estranei che camminano, immaginando le 
                  loro vite. Oppure leggo e basta. I libri sono stati la prima 
                  cosa che abbia mai amato. Devi sapere che la mia mente va sempre 
                  troppo veloce: pensa sempre così tante cose, è 
                  talmente piena di cianfrusaglie inutili, che certe volte mi 
                  sembra di non avere modo di fermarla. In quei casi, leggere 
                  è l'unica cosa che mi fa smettere di pensare. Mi perdo 
                  in qualche libro e torno in me.» 
                  Evie lo guarda felice e spaventata, con l'aria di chi ha appena 
                  condiviso un segreto enorme, poi sussurra: «Puoi capirmi?» 
                  Balthazar non ha mai sentito di capire nessuno come in quel 
                  momento. 
                  «Sì che posso, Evie. Il mondo a me è sempre 
                  sembrato così strano, così difficile da comprendere! 
                  A volte vorrei andarmene da qui e tornare da dove sono venuto.» 
                  «Non provarci nemmeno», risponde lei afferrandogli 
                  una mano e facendosi più vicina. Anche attraverso i guanti, 
                  Balthazar sente il suo calore. «Chi mi farebbe scoprire 
                  la magia, sennò?» 
                  Ora riesce a distinguere ognuna delle piccole efelidi che Evie 
                  ha sul naso. Potrebbe persino contarle, se volesse. 
                  È lei a fare la mossa decisiva, sfiorandogli le labbra 
                  con un bacio. 
                  Da lì in poi tutto accade in pochi attimi, e Balthazar 
                  non fa in tempo a pensare a niente, né all'allergia né 
                  alla lista, trascritta su un quadernino dimenticato in tasca. 
                  Attira Evie a sé con dolcezza e risponde al bacio. La 
                  sua bocca sa di cioccolata. Si sente mancare il fiato, non sa 
                  se per l'emozione o l'allergia, ma se deve morire sarà 
                  felice di farlo così. 
                  Evie gli cinge la vita, infilandogli le braccia fra il cappotto 
                  e la camicia. Quando le sue dita gli sfiorano la schiena attraverso 
                  la stoffa, all'improvviso Balthazar sa cosa fare. 
                  Si toglie quei fastidiosi guanti e finalmente le accarezza il 
                  viso.
                  ***
                  Il ronzio pigro dei terminali, nella sala comunicazioni 
                  del centro ricerche di Skonis Menos, viene interrotto da un 
                  flebile segnale acustico. 
                  L'operatore 432Y alza stupito lo sguardo verso il punto dal 
                  quale proviene. Il connettore telepatico che sta lampeggiando 
                  è proprio quello riservato alla Terra, dalla quale non 
                  ricevono comunicazioni da più di tre mesi umani. 
                  «Signore», dice nell'idioma cavernoso di Askopos 
                  dopo aver visualizzato il messaggio, «deve venire qui 
                  subito.» 
                  Le poche parole che lampeggiano davanti a lui e al capo-progetto 
                  non lasciano spazio ai dubbi. Il ricercatore terrestre ha appena 
                  rassegnato le sue dimissioni. 
                 Cinzia Piantoni 
                 
                
  
                  
                  Giovani e no 
                   
                  di Diego Giachetti 
                  All'improvviso i ragazzi e le ragazze avevano 
                  smesso di frequentare l'oratorio del prete e l'asilo delle suore 
                  la domenica pomeriggio. Una vera e propria separazione, malgrado 
                  i due edifici fossero confinanti. Maschi con maschi, femmine 
                  con femmine. Tutto a un tratto l'ordine di quel piccolo mondo 
                  fu sconvolto. Non più all'oratorio o all'asilo la domenica 
                  pomeriggio, ma a ballare assieme lo shake e i peccaminosi lenti, 
                  quelli che la Pavone cantava ne Il ballo del mattone, 
                  in una piccola stanza, vecchia e umida, collocato al centro 
                  del paese. 
                  Un giorno di un autunno inoltrato accadde il fattaccio. Una 
                  domenica pomeriggio cupa, grigia, un po' triste. Poca gente 
                  per le strade, molti rinchiusi nel bar a sentire i risultati 
                  delle partite di calcio. Le comari al Vespro. In giro non c'erano 
                  ragazzi e ragazze. Solo un piccolo gruppo di ragazzini stavano 
                  in piazza a perdere tempo. D'un tratto dalla via laterale, quella 
                  che conduceva alla parrocchia, dove viveva il prete con la sua 
                  fedele perpetua, videro scendere proprio lui, il prete del paese. 
                  Scendeva con passo svelto e deciso, il volto più che 
                  adirato sembrava quello di chi si preparava a svolgere seriamente 
                  un compito delicato. Che strano, a ripensarci, dopo il Vespro 
                  lo avevano visto attorniato da un gruppo di donne, mamme stagionate, 
                  nonne, zitelle inacidite, vedove che non si perdevano una funzione 
                  religiosa. Parlavano animatamente col parroco, muovevano le 
                  mani per rinforzare il ragionamento, facevano segni e indicavano 
                  un punto indefinito. 
                  Passò davanti rispondendo nervosamente al reverenziale 
                  saluto dei ragazzini. Indossava la tunica lunga, non era ancora 
                  venuta la moda dei preti coi pantaloni e la giacca. Attraversò 
                  la piazza con tutta la sua tradizionale e secolare autorità. 
                  Si diresse verso il vicolo dove da alcune domeniche i giovani 
                  si trovavano per ballare e stare assieme ascoltando musica da 
                  un giradischi. Lì era atteso da un gruppo di donne, quelle 
                  che prima avevano confabulato animosamente con lui. 
                  -Sono tutti là dentro, disse una donna rigorosamente 
                  vestita di nero. 
                  -Ballano e suonano coi dischi, è una vergogna, incitò 
                  un'altra. 
                  Il parroco non disse nulla, inforcò con tono più 
                  spedito e adirato di prima il vicolo, seguito a debita distanza 
                  dalle donne che continuavano a borbottare fra di loro in dialetto. 
                  Si arrestò, dritto nella sua veste nera, davanti alla 
                  porta del locale e bussò. Luisa, la più vicina 
                  alla porta, si voltò a guardare verso gli altri per sapere 
                  cosa fare. Suo cugino, che aveva qualche anno più di 
                  lei, disse di aprire. 
                   
                  Era la quarta o la quinta domenica che si trovavano lì 
                  a ballare. Un'idea splendida che era venuta ad una giovane coppia 
                  spinti, forse, dal bisogno di stare un po' assieme almeno la 
                  domenica. Un'idea che si era realizzata abbastanza rapidamente. 
                  Facile era stato trovare un giradischi e altrettanto facile 
                  trovare i 45 giri, i successi del momento: Rokes, Beatles, Gianni 
                  Morandi, Caterina Caselli, Antoine, Little Tony e tanti altri. 
                  Ognuno aveva contribuito con i suoi dischi a formare un fondo 
                  di discoteca che permetteva di ascoltare musica, di ballare 
                  in coppia o in gruppo, di chiacchierare, di filare le ragazze, 
                  di fare un po' di casino. Erano tutti giovanissimi, pochi studenti, 
                  molti già introdotti nel mondo del lavoro. Si erano subito 
                  formate alcune coppie fisse, veri e propri fidanzamenti rigidi, 
                  inamovibili, eterni. Gli altri e le altre provavano timidamente 
                  a stare assieme, ragazzi e ragazze, indecisi, incapaci di relazionarsi. 
                  I frequentatori erano circa una ventina, tutti rigorosamente 
                  con i capelli corti i ragazzi e con le gonne che ancora coprivano 
                  le ginocchia le ragazze. Lì non era ancora il tempo dei 
                  capelloni e delle minigonne. Si capiva però che stava 
                  per venire, che sarebbe venuto. Sulle pareti mal dipinte e umide 
                  del locale facevano bella figura un poster del complesso i Rokes, 
                  i cui componenti portavano capelli ostentatamente lunghi, più 
                  lunghi di quelli dei Beatles, e un poster della giovane e bellissima 
                  Patty Pravo, ritratta mentre si esibiva nel locale Piper di 
                  Roma con una minigonna che, a quei tempi, era da vertigine. 
                  Nessuna ragazza del paese avrebbe osato mettere una minigonna 
                  del genere, anzi la minigonna, anche quella che scopriva appena 
                  il ginocchio, era ancora proibita. Cominciavano a portarla quelle 
                  che venivano dalla città. La domenica capitava che al 
                  seguito delle loro famiglie, ragazze di Milano e di Torino arrivassero 
                  al paese portandovi le novità canore, tecniche e di costume 
                  del momento. Una di loro, una domenica pomeriggio, aveva attraversato 
                  il piccolo centro del paese con la minigonna e con un mangiadischi 
                  in mano dal quale usciva la musica e le parole di un noto e 
                  inviso agli adulti cantante capellone di allora Antoine. “Tu 
                  sei bello e ti tirano le pietre/ tu sei brutto e ti tirano le 
                  pietre/ ovunque te ne vai sempre pietre in faccia prenderai”. 
                  Questa la canzone di Antoine che aveva attraversato il paese 
                  assieme alla minigonna, al mangiadischi e all'esotica cittadina 
                  torinese. -Che tempi, diceva la gente. -Chissà come andremo 
                  a finire. -Non c'è più rispetto. -Non c'è 
                  più decoro. 
                   
                  «Ragazzo triste come me/ che sogni sempre come me», 
                  aveva cominciato a cantare dal disco Patty Pravo proprio mentre 
                  stavano bussando. E lei aprì. Stupita esclamò 
                  inciampando sulle parole: «Ohh! Buongiorno signor pievano». 
                  Non rispose al saluto, entrò. Tutti si voltarono a guardare, 
                  le coppie smisero di ballare, solo Patty Pravo continuava imperterrita: 
                  «Quando si è giovani così/ dobbiamo stare 
                  insieme/ parlare tra di noi/ scoprire insieme/ il mondo che 
                  ci ospiterà». 
                  «Vergogna!», esclamò ad alta voce, «e 
                  portate rispetto al vostro Parrocco». Nessuno parlò. 
                  «Spegnente il giradischi, maleducati». Velocemente 
                  una mano sollevò la puntina dal disco. Una mano nervosa 
                  e poco sicura la quale, nel sollevarla, la strisciò sul 
                  disco provocando un piccolo rumore stridente che graffiò, 
                  oltre ai solchi del 45 giri, le schiene irrigidite dalla tensione 
                  dei giovani. 
                  Che fila lunga di bottoni aveva il vestito del prete, com'era 
                  imponente nell'esercizio della sua funzione morale ed educativa, 
                  com'era serio il suo viso. «Fuori! Uscite! Basta con questa 
                  indecenza!». Nessuno parlò, nessuno osò 
                  controbattere. Raccolsero in fretta giacche e cappotti, il giradischi 
                  e i dischi e uscirono. Il prete, dritto sulle gambe, uscì 
                  per ultimo dopo aver controllato che fossero tutti fuori. Sbatté 
                  furiosamente la porta nel chiuderla, quasi a dire con un solo 
                  gesto che mai più quel locale si sarebbe aperto. 
                  Fuori il cielo era ancora più grigio di prima perché 
                  stava calando la sera. Con la testa china i ragazzi e le ragazze 
                  s'incamminarono verso casa. Ma non era ancora finita. Ai lati 
                  del piccolo vicolo si erano formati due gruppi di donne. Furono 
                  costretti a passare in mezzo a loro, a quegli sguardi di rimprovero 
                  a quegli occhi curiosi e pettegoli. Dovettero sentire anche 
                  i loro commenti. 
                  -Guarda c'è anche la figlia di... -E quello e il figlio 
                  di... Bisbigliavano con meraviglia e voluttuosa curiosità 
                  tra loro. Poi una urlò forte e chiaro: «fuateii, 
                  plandrun» (frustateli, pelandroni); e un'altra: «andè 
                  a travajà» (andate a lavorare). E quando videro 
                  che tra gli ultimi della fila che scendeva in silenzio c'erano 
                  anche due studenti e una studentessa delle scuole medie superiori 
                  non poterono fare a meno di constatare ad alta voce: -più 
                  studiano, più diventano stupidi. 
                   
                  Che botta quel pomeriggio. Tutto si era interrotto all'improvviso, 
                  niente più canzoni, giradischi, musica, lenti e shake, 
                  niente più penombrine appena soffuse e balli timidissimi; 
                  e a casa i genitori che aspettavano per il rimprovero, la romanzina, 
                  la punizione: «non esci più», «che 
                  figura ci fai fare». Tutto era finito o stava per cominciare 
                  anche per loro. Infatti la situazione precipitò in fretta. 
                  Dopo l'autunno venne l'inverno e il festival di Sanremo dove 
                  Luigi Tenco si suicidò, dopo aver cantato Ciao amore 
                  ciao. Pochi mesi dopo nell'ottobre giunse la notizia che 
                  il Che era morto in Bolivia. Si poteva vivere senza Tenco?, 
                  il Che?, senza poter ballare lo shake perché il prete 
                  aveva fatto chiudere il localino? Non si poteva, bisognava. 
                  Tanti anni dopo Maria F. ritrovò annotata su un suo vecchio 
                  diario una lettera che raccontava di un fatto analogo accaduto 
                  in un piccolo centro in provincia di Pavia: «abbiamo preso 
                  in affitto un paio di camerette dove ci riuniamo e facciamo 
                  alcune festicciole. Purtroppo nel nostro paese un gruppo di 
                  vecchiette ha gridato allo scandalo. Sono giunte al punto di 
                  rivolgersi ai carabinieri. Il comandante della sezione ci ha 
                  detto di sospendere per un po' le nostre festicciole». 
                  Carabinieri a parte, pensò, quella lettera avremmo potuto 
                  scriverla anche noi. Richiuse il diario vecchio, ma l'ultimo 
                  sguardo alla pagina colse ancora una riga piccola e sottile 
                  posta sotto la citazione «Ciao Amici», 14 dicembre 
                  1966. Come lei avesse potuto avere allora tra le mani quella 
                  rivista per i giovani non le fu subito chiaro. Solo alcune ore 
                  dopo, mentre si recava col marito e la figlia alla cena organizzata 
                  dalla proloco in occasione del carnevale, fu folgorata da un 
                  lampo improvviso di memoria, nitida e pulita. Quella rivista, 
                  sicuramente introvabile nell'edicola del paese, gliel'aveva 
                  data un giovane venuto da Torino a trascorrere le vacanze dai 
                  nonni in paese. Se lo vide ancora davanti e non poté 
                  fare a meno di ripetersi dentro: «che carino!». 
                 Diego Giachetti  
                
                   
                    Dentro alla bocca stringevi parole 
                        troppo gelate per sciogliersi al sole 
                       
                        Fabrizio De André 
                      chiusura 
                        sezione Racconti  | 
                   
                 
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