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				 socialismo libertario 
                  
                Politica e cultura nel pensiero di Andrea Caffi 
                  
                di Gianpiero Landi 
                    
                Una recente raccolta di scritti di Andrea Caffi, curata da Massimo La Torre, richiama l'attenzione sulla vita e il pensiero di un intellettuale e militante politico che ha dato un contributo originale al socialismo libertario. 
	Un bilancio degli studi e delle ricerche intorno al rivoluzionario italo-russo. 
                 
                  Parlo di Andrea Caffi  come dell'“uomo migliore, 
                   e inoltre il più savio  e il più 
                  giusto”  che nel mio tempo  io abbia conosciuto. 
                    
                  Nicola Chiaromonte 
                  
Andrea Caffi è sicuramente una delle figure più affascinanti del movimento socialista italiano ed europeo del Novecento. 
Nato a Pietroburgo nel 1887 da genitori di origine italiana, ancora giovanissimo aderì al socialismo militando nella corrente menscevica e prese parte alla rivoluzione russa del 1905. Per il suo impegno nella cospirazione antizarista fu più volte arrestato e condannato a tre anni di carcere. Liberato nel maggio del 1908, iniziò per lui un esilio durato praticamente tutta la vita. Studente universitario a Berlino, dove fu allievo di Georg Simmel, entrò poi in contatto con le avanguardie artistiche e letterarie nella Parigi di inizio secolo. In quegli anni viaggiò anche in Italia, soggiornando a Firenze dove divenne amico di Giuseppe Prezzolini e frequentò il gruppo della rivista “La Voce”. Fece visita a Pëtr Kropotkin (che considerava, allora, “lo spirito più puro del movimento rivoluzionario russo”), all'epoca esule a Rapallo. 
Nel 1914 visse come una tragedia lo scoppio della guerra in Europa ma ciò nonostante si arruolò volontario nelle legioni internazionali “garibaldine” in Francia, prendendo parte ai combattimenti delle Argonne nel corso dei quali rimase ferito. Arruolato in seguito nell'esercito italiano, fu di nuovo ferito nel luglio 1915 sul fronte del Trentino, e trasferito poi a Belluno come interprete presso il comando della 4ª armata. Secondo la testimonianza del filosofo Antonio Banfi, suo grande amico e compagno di studi, Caffi andava all'assalto senza impugnare un'arma. Sicuramente agiva in lui il desiderio di contribuire alla sconfitta del militarismo prussiano, ma la sua voleva essere soprattutto partecipazione alla sofferenza e al destino collettivo della sua generazione, a cui non gli sembrava lecito sottrarsi. All'inizio del 1918 fu trasferito presso l'ufficio speciale creato da Giuseppe Antonio Borgese a Berna per la propaganda fra le nazionalità oppresse dell'impero asburgico. Dopo la fine della guerra si stabilì a Roma e collaborò alla “Giovine Europa”, un movimento nato soprattutto per iniziativa di Umberto Zanotti Bianco, Gaetano Salvemini, G. A. Borgese e fondato sull'idea che dalla devastazione e dalla crisi prodotta dalla guerra sarebbero maturate le condizioni per la creazione di una società internazionale profondamente rinnovata sulla base dell'uguaglianza e dell'autodecisione dei popoli. 
In quegli anni Caffi scrisse per “La Voce dei Popoli”, la rivista del movimento, i due importanti articoli La rivoluzione russa e i suoi condottieri e La Russia bolscevica e l'Europa (secondo Piero Gobetti, i testi più importanti e seri apparsi in quegli anni in Italia sull'argomento) e collaborò con Zanotti Bianco alla redazione del libro La pace di Versailles (Firenze, La Voce, 1919). Inviato nell'estate del 1919 dal “Corriere della Sera” a Costantinopoli come corrispondente, verso la fine dello stesso anno Caffi ne approfittò per ritornare in Russia attraversando clandestinamente il confine. In un primo momento sembrò nutrire speranze nella rivoluzione bolscevica, ma gli bastò poco tempo per rendersi conto della natura sempre più illiberale e dispotica del regime sovietico. Lavorò nella Delegazione commerciale italiana a Mosca, ma la Ceka lo arrestò e fu imprigionato alla Lubjanka, dove – come avrebbe raccontato egli stesso più tardi – “gli appelli dei condannati a morte erano fatti ogni notte in maniera alquanto disordinata”. 
Lo salvò l'intervento della socialista italo-russa Angelica Balabanoff, all'epoca dirigente della Terza Internazionale. Tornò in Italia nel 1923, poco dopo l'avvento al potere del fascismo. Svolse attività antifascista, legandosi inizialmente ad ambienti liberali romani ma recuperando presto la sua radicalità di socialista rivoluzionario non marxista. Diresse con Gioacchino Nicoletti la rivista “La Vita delle Nazioni”, ispirata da Salvemini e Zanotti Bianco e collaborò con “Volontà” diretto da Vincenzo Torraca (in quest'ultimo periodico pubblicò l'importante articolo Cronaca di dieci giornate, sul delitto Matteotti). 
				L'amicizia con Albert Camus 
                Nel maggio 1925 fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali 
                  antifascisti promosso da Benedetto Croce. Nel 1926 collaborò 
                  con la rivista “Il Quarto Stato” di Pietro Nenni 
                  e Carlo Rosselli, occupandosi di politica estera. Intensificò 
                  in quegli anni il suo interesse per la storia ellenistica, bizantina 
                  e russa antica. Contribuì alla stesura del volume di 
                  Paolo Orsi su Le chiese basiliane della Calabria (1927) 
                  con una corposa appendice dedicata a Santi e guerrieri di 
                  Bisanzio nell'Italia meridionale. Collaborò inoltre 
                  all'Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile 
                  redigendo una decina di voci di storia bizantina e russa. Nell'autunno 
                  del 1927, per sfuggire al rischio di arresto da parte della 
                  polizia fascista, Caffi si rifugiò in Francia. 
                  Ospitato a Versailles, nella villa del principe Gelasio Caetani, 
                  divenne precettore dei nipoti del principe e segretario di redazione 
                  della rivista “Commerce”. Prese parte alle periodiche 
                  conversazioni del cenacolo di artisti e scrittori che si riunivano 
                  nella villa, tra cui Paul Valéry, Fernand Léger, 
                  Valéry Larbaud, Jean Paulhan. Verso la fine del 1930, 
                  chiusa l'esperienza della rivista, si trasferì presso 
                  amici nel sud della Francia, poi a Parigi. Si legò al 
                  movimento antifascista dei fuorusciti, in particolare a “Giustizia 
                  e Libertà”, frequentando anche amici anarchici 
                  italiani e gli ambienti dell'emigrazione russa. In polemica 
                  con Rosselli, interruppe la collaborazione con “Giustizia 
                  e Libertà” nei primi mesi del 1936, insieme al 
                  gruppo dei cosiddetti “novatori”, di cui facevano 
                  parte Mario Levi, Renzo Giua, Nicola Chiaromonte. Con quest'ultimo, 
                  in particolare, si legò di strettissima amicizia. 
                  Dopo l'invasione tedesca della Francia si trasferì a 
                  Tolosa. Si avvicinò ai socialisti italiani fuorusciti 
                  autonomisti, collaborando con Angelo Tasca, Olindo Gorni, Ignazio 
                  Silone, Giuseppe Faravelli. Ebbe rapporti con ambienti della 
                  Resistenza e nel 1944 fu arrestato dalla Gestapo e torturato. 
                  Nel dopoguerra divenne amico di Albert Camus e grazie a lui 
                  trovò lavoro presso l'editore Gallimard. Pubblicò 
                  articoli in “Politics”, rivista della sinistra radicale 
                  anticonformista statunitense diretta a New York da Dwight Macdonald, 
                  in cui scrivevano anche Chiaromonte, Hannah Arendt, Mary McCarthy, 
                  Paul Goodman. Morì a Parigi nel 1955. 
                
                   
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                    |   Andrea Caffi in un'immagine del 1947  | 
                   
                 
				 
                Un socialista libertario decisamente singolare 
                Come si è visto, Caffi è stato partecipe di tutti gli eventi più significativi della storia europea della prima metà del Novecento. La sua è stata una vita, sotto diversi profili, straordinaria e irripetibile. Segnata, oltretutto, da una rara coerenza e dalla volontà deliberata di non apparire in primo piano, di tenersi sempre ai margini. Il suo fu uno stile di vita costantemente precario e irregolare, ed egli rimase fedele fino alla fine alla scelta di povertà volontaria abbracciata in gioventù. 
Caffi fu un intellettuale assolutamente singolare, dotato di una incredibile erudizione, più colto di molti accademici prestigiosi e affermati della sua epoca, in grado di padroneggiare diverse delle principali lingue europee e di dialogare alla pari nei più diversi ambienti e contesti nazionali, amico sodale e collaboratore di alcune tra le menti più brillanti del suo secolo – alcune delle quali gli sono debitrici probabilmente di alcune delle idee forti del loro sistema di pensiero – eppure visse sempre da “bohemien”, squattrinato e lontano da ogni potere. Già questi elementi giustificherebbe un interesse e una curiosità nei suoi confronti ben maggiore di quelli che gli sono stati dedicati, almeno fino a tempi recenti. Ma c'è anche dell'altro. Il motivo maggiore di interesse è rappresentato – a nostro avviso – piuttosto dalle sue idee, di cui restano tracce negli scritti che di lui ci sono rimasti. 
Parliamo di “tracce” perché Caffi rifuggì sempre dalla redazione di opere ponderose, organiche e sistematiche, e inoltre privilegiava il dialogo personale e diretto, la parola parlata rispetto a quella scritta. E, quando non era possibile il colloquio diretto con l'interlocutore guardandolo negli occhi, ricorreva come surrogato alle lettere. Questa è una delle ragioni per cui, nel suo caso, lo studio delle lettere risulta particolarmente importante per ricostruire il percorso intellettuale. Come ha scritto autorevolmente Gino Bianco, uno dei primi e più fedeli suoi studiosi e biografi, “in un tempo in cui l'ideologia, la retorica e la violenza avevano dominato il pensiero e l'azione politica, gli scritti e la vita di Caffi forniscono, con rara forza e coerenza, l'esempio di un radicale rifiuto delle degenerazioni cui è andato incontro il movimento socialista nella duplice versione del leninismo e del riformismo socialdemocratico”. Pur in modo disorganico e frammentario, Caffi ha saputo elaborare un socialismo radicale di marcata impronta libertaria che si presenta a noi ancora oggi estremamente attuale. Di particolare importanza, ai fini di una rifondazione libertaria del socialismo, risultano le sue riflessioni sulla violenza e sul federalismo, con la critica radicale dello Stato-nazione. 
				Il recente libro di Massimo La Torre 
                Ma Caffi si è occupato anche di temi che vanno ben oltre la politica intesa in senso stretto. Per le sue riflessioni illuminanti su temi come il mito e la mitologia, la moderna cultura di massa, i rischi della tecnica e della burocratizzazione, la critica della violenza, la francese “Quinzaine Litteraire” lo ha definito “il Walter Benjamin italiano”. È proprio a questi temi, che potremmo chiamare prepolitici anche se la definizione non risulta affatto soddisfacente, è dedicata – principalmente anche se non esclusivamente – la recente raccolta di scritti di Caffi curata da Massimo La Torre, Politica e cultura (Soveria Mannelli, Rubettino, 2014, p. 200), che fornisce l'occasione per questa breve rassegna. 
Va detto anzitutto che si tratta di un libro importante, perché permette al lettore di entrare in contatto con testi di Caffi di difficile reperibilità che affrontano con acuta intelligenza e cognizione di causa tematiche di notevole interesse culturale. Il primo dei testi, intitolato Fra i contemporanei di Onjeghin, fu pubblicato nel fascicolo del dicembre 1923 della rivista “Russia”, fondata dallo slavista Ettore Lo Gatto. Incentrato su una analisi delle caratteristiche della generazione di giovani rivoluzionari russi venuti alla ribalta dopo la fine delle guerre napoleoniche, passando dai decabristi a Herzen e arrivando ai populisti, Caffi vi indagava i legami e le analogie con il contemporaneo liberalismo europeo, ma anche le specificità del pensiero sociale russo, caratterizzato dal tentativo di operare “una contaminazione del tema dei Diritti dell'Uomo con l'ardente desiderio di conoscere e amare il popolo russo”. 
La parte centrale del volume è occupata da cinque saggi scritti da Caffi tra il 1938 e il 1946, ma pubblicati in Italia solo dopo la sua morte, tra il marzo 1958 e il luglio 1961, in altrettanti numeri della rivista “Tempo presente” diretta dai suoi amici Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone. Si tratta dei saggi: Magia, mistica e mito (1938), Cristianesimo e ellenismo (1939), L'avvenire del romanzo (1943), “Homo faber” e “homo sapiens” (1945), Mito e mitologia (1946). Data la ricchezza e la pluralità dei temi affrontati, delle argomentazioni e dei riferimenti storici e letterari, è praticamente impossibile riassumere in questa sede il contenuto di questi saggi, che da soli basterebbero comunque per assicurare a Caffi un posto di un certo rilievo nella storia della cultura europea. Seguono alcuni testi più “politici”: due articoli pubblicati sul quotidiano “L'Umanità”, diretto all'epoca da Giuseppe Faravelli, nei mesi finali del 1948 (Presupposti della democrazia e Il processo di involuzione dei Soviet), una Lettera a Carlo Rosselli (datata 27 luglio; l'anno non è indicato ma si tratta probabilmente del 1935) e una Lettera a Nicola Chiaromonte (senza data, ma probabilmente del 1951). Il volume è completato da due testi del curatore: una Presentazione originale e una Appendice in cui è riportato, con pochi aggiornamenti bibliografici nelle note, l'importante saggio Il profeta muto. Politica e cultura nel pensiero di Andrea Caffi, che costituisce in effetti il testo della relazione presentata da La Torre alla Giornata di studi su Andrea Caffi tenutasi a Bologna, nella Sala dei Notai, il 7 novembre 1993. 
				Il convegno su Caffi (1993) 
                Da quel Convegno svoltosi più di venti anni fa – il primo e a quanto ci risulta tuttora l'unico dedicato specificamente nel nostro paese alla figura di Andrea Caffi – conviene in effetti partire per tracciare un provvisorio bilancio della fortuna critica più recente di questo intellettuale e militante politico coltissimo e schivo, che ha lasciato una traccia profonda in molti di coloro che lo conobbero. 
Alla Giornata di studi – organizzata dalla Biblioteca Libertaria “Armando Borghi” di Castel Bolognese e dalla Associazione “Arti e Pensieri” di Bologna – presero parte diversi relatori, alcuni dei quali particolarmente qualificati per confrontarsi con il pensiero di Caffi: Giuseppe Armani, Giampietro Berti, Gino Bianco, Lamberto Borghi, Costanzo Casucci, Pierluigi Cesa, Goffredo Fofi, Piero Graglia, Gianpiero Landi, Massimo La Torre, Stefano Merli. Gli Atti del Convegno furono poi pubblicati nel volume Andrea Caffi: un socialista libertario, a cura di G. Landi, con introduzione di Gino Bianco (Pisa, BFS, 1996). In Appendice al volume si trova una accurata Bibliografia Caffiana, a cura di Alberto Castelli, che per quanto necessiti ormai di alcune integrazioni – se non altro perché mancano ovviamente i testi usciti successivamente – rimane comunque un valido strumento a disposizione di chiunque desideri approfondire le ricerche. 
In effetti, si può dire che il Convegno di Bologna abbia rappresentato l'inizio di un risveglio dell'interesse per Caffi. In precedenza, per chi avesse voluto conoscere la sua vita e il suo pensiero erano a disposizione praticamente solo quattro o cinque testi, peraltro ancora oggi fondamentali. Si tratta anzitutto delle raccolte di testi di Caffi Critica della violenza (a cura di Nicola Chiaromonte, Milano, Bompiani, 1966, p. 333) e Scritti politici (a cura di Gino Bianco, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 411), e delle note biografiche contenute nel libro di Gino Bianco, Un socialista “irregolare”: Andrea Caffi intellettuale e politico d'avanguardia (introduzione di Alberto Moravia, Cosenza, Lerici, 1977, p. 108). 
A questi testi si potrebbero aggiungere anche una più agile raccolta di scritti di Caffi, curata sempre da Gino Bianco e pubblicata con il titolo Socialismo libertario (Milano, Azione Comune, 1964, p. 91) e il saggio di Carlo Vallauri, circolato anche in forma di estratto, Il socialismo umanitario di Andrea Caffi (Milano, Giuffrè, 1973). Altro non c'era, se non articoli e interventi più o meno occasionali in riviste e giornali, e qualche riferimento in libri che si occupavano di argomenti più generali. Tra questi ultimi ci limitiamo a citare le opere di Aldo Garosci, La vita di Carlo Rosselli (1945) e Storia dei fuorusciti (1953), di Lamberto Borghi, Educazione e autorità nell'Italia moderna (1951), di Dino Cofrancesco, Il contributo della resistenza italiana al dibattito teorico sull'unificazione europea (1975), di Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia (1917-1921) (1979), di Corrado Malandrino, Socialismo e libertà. Autonomie, federalismo, Europa da Rosselli a Silone (1990), di Santi Fedele, E verrà un'altra Italia. Politica e cultura nei Quaderni di Giustizia e Libertà (1992). 
Quasi contemporaneamente al Convegno di Bologna, o poco dopo, furono pubblicati anche il volume di Stefano Merli, I socialisti, la guerra, la nuova Europa. Dalla Spagna alla Resistenza 1936-1942 (Milano, Fondazione Anna Kuliscioff, 1993, p. 347), e il saggio di Andrea Panaccione, I socialisti italiani e la seconda guerra mondiale (“Giano”, a. V, n. 19, gennaio-aprile 1995), in cui entrambi gli autori fanno ampi riferimenti all'attività di Caffi nel Partito socialista italiano in esilio e alla sua collaborazione con Faravelli, di cui fu un aspetto particolarmente significativo il contributo fornito alla elaborazione delle cosiddette “Tesi di Tolosa” (1941-1942). Negli stessi anni comparve nelle librerie una raccolta di testi di Caffi (alcuni dei quali ora ristampati nel volume curato da La Torre), con il titolo Mito mistica magia l'avvenire del romanzo ed altri saggi (Bologna, Massimiliano Boni, 1994, p. 173). Venne anche ripubblicato in opuscolo il fondamentale saggio di Caffi Critica della violenza, con una introduzione di Gino Bianco (Roma, e/o, 1995, p. 94). 
				Una nuova generazione di ricercatori 
                Veniamo ora ai lavori successivi, prodotti spesso anche se 
                  non sempre da una nuova generazione di giovani studiosi, alcuni 
                  dei quali di notevole talento. Tralasciamo qui le ricerche, 
                  ormai numerose e spesso qualificate, su personaggi movimenti 
                  e temi (da Rosselli a Chiaromonte, da “Giustizia e Libertà” 
                  al Partito socialista italiano in esilio tra le due guerre) 
                  che alle vicende di Caffi si legano, e che pure andrebbero conosciute 
                  se non altro per delineare con maggior precisione il contesto. 
                  Ci limiteremo a citare il libro di Gino Bianco, Nicola Chiaromonte 
                  e il tempo della malafede (Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 
                  1999, p. 175), se non altro perché costruito in buona 
                  misura sulle carte di Caffi e di Mario Levi, ricevute dall'autore 
                  negli anni '60 proprio da Chiaromonte che ne era il depositario. 
                  Restando agli studi che riguardano specificamente Caffi, procedendo 
                  in ordine cronologico vanno segnalati anzitutto i saggi di Alberto 
                  Castelli, apparsi in riviste e in volumi collettivi: Il socialismo 
                  liberale di Andrea Caffi (“Storia in Lombardia”, 
                  a. XVI, n. 2, giugno 1996); Andrea Caffi e la critica della 
                  violenza (“Giano”, n. 23, ottobre 1996); La 
                  scelta federalista di Andrea Caffi (“Il Politico”, 
                  n. 4, 1997); Andrea Caffi (in Le periferie della memoria. 
                  Profili di testimoni di pace, Milano, M&B, 2000); Andrea 
                  Caffi e la rivoluzione delle coscienze (in Eretici e 
                  dissidenti. Nuovi protagonisti del XIX e XX secolo tra politica 
                  e cultura, a cura di G. Angelini e A. Colombo, Milano, Franco 
                  Angeli, 2006); Socievolezza e amicizia nel pensiero di Andrea 
                  Caffi (in De Amicitia. Scritti dedicati a Arturo Colombo, 
                  a cura di G. Angelini e M. Tesoro, Milano, Franco Angeli, 2007); 
                  Andrea Caffi. Socialismo e critica della violenza (in 
                  L'altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, 
                  a cura di P. P. Poggio, Milano, Jaca Book, 2010). 
                  Castelli, attualmente docente all'Università di Ferrara, 
                  ha curato anche il libro L'Unità d'Italia. Pro e contro 
                  il Risorgimento (Roma, e/o, 1997, p. 124; II ed., 2010, 
                  p. 141), contenente scritti di A. Caffi, Umberto Calosso, N. 
                  Chiaromonte, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, G. O. Griffith, 
                  Carlo Rosselli, Gaetano Salvemini, Franco Venturi. Merito del 
                  volume è quello di avere riproposto, raccolti insieme, 
                  i documenti dell'importante polemica su Mazzini e il Risorgimento 
                  che alla metà degli anni Trenta mise in luce la diversità 
                  di impostazione politica ormai esistente in “Giustizia 
                  e Libertà” tra Caffi e Rosselli, e fu all'origine 
                  del successivo distacco dal movimento del gruppo dei cosiddetti 
                  “novatori”. A Castelli si deve inoltre Politics 
                  e il nuovo socialismo. Per una critica radicale del marxismo 
                  ( Genova-Milano, Marietti, 2012, p. 264), un libro in cui sono 
                  contenuti scritti di Caffi e – soprattutto – si 
                  parla molto di lui. 
                  Poco prima della sua morte, avvenuta nel 2005, Gino Bianco ha 
                  pubblicato una nuova edizione del suo saggio biografico di Caffi 
                  già apparso nel 1977 per i tipi della editrice Lerici. 
                  Il nuovo volume, dal titolo Socialismo e libertà. 
                  L'avventura umana di Andrea Caffi (Roma, Jouvence, 2006, 
                  p. 275), è arricchito da una corposa appendice di documenti 
                  e da immagini. Qualche anno dopo è stata pubblicata una 
                  nuova raccolta antologica di testi di Andrea Caffi, Scritti 
                  scelti di un socialista libertario, a cura di Sara Spreafico, 
                  con prefazione di Nicola Del Corno (Milano, Biblion, 2009, p. 
                  189). Aldilà della meritoria ristampa di una serie di 
                  saggi già pubblicati in volumi di cui ci siamo qui occupati 
                  in precedenza, alcuni dei quali da tempo fuori commercio, il 
                  libro si segnala per l'interessante saggio introduttivo della 
                  curatrice. 
                  Infine arriviamo a due testi che sono probabilmente i più 
                  importanti tra quelli recenti di cui ci stiamo occupando. Marco 
                  Bresciani, con La rivoluzione perduta. Andrea Caffi nell'Europa 
                  del Novecento (Bologna, Il Mulino, 2009, p. 310) ci ha dato 
                  – dopo gli studi pionieristici di Gino Bianco – 
                  quella che può essere considerata la prima vera biografia 
                  di Caffi, ricostruendone con acume critico e competenza l'intero 
                  percorso di vita e di pensiero. A distanza di pochi anni Bresciani 
                  è tornato sull'argomento, curando la pubblicazione di 
                  “Cosa sperare?” Il carteggio tra Andrea Caffi 
                  e Nicola Chiaromonte: un dialogo sulla rivoluzione (1932-1955), 
                  con prefazione di Michele Battini (Napoli, Edizioni Scientifiche 
                  Italiane, 2012, p. 588). Con questi contributi, a cui se ne 
                  potrebbero aggiungere altri di minore impegno apparsi su riviste, 
                  Bresciani ha ampliato e rinnovato in modo significativo le nostre 
                  conoscenze su Caffi, facendo compiere loro un non trascurabile 
                  salto di qualità. 
                  Il suo lavoro, e quello degli altri ricercatori, è stato 
                  sicuramente favorito dal fatto che negli ultimi decenni siano 
                  stati riordinati e aperti al pubblico fondi archivistici importanti. 
                  Le carte di Caffi sono sparse in diversi archivi ma i nuclei 
                  più consistenti e rilevanti si trovano oggi prevalentemente 
                  in tre fondi: i Nicola Chiaromonte Papers, conservati nella 
                  Beinecke Library della Università di Yale (New Haven); 
                  l'Archivio personale Andrea Caffi conservato presso la sede 
                  dell'Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno 
                  d'Italia (Roma); il Fondo Andrea Caffi presso la Biblioteca 
                  Gino Bianco (Forlì). Per inciso, i siti web della Biblioteca 
                  Gino Bianco e della rivista “Una Città” sono 
                  particolarmente ricchi di documentazione per quanto riguarda 
                  Caffi, Chiaromonte e il loro entourage. 
                  Anche se l'essenziale è ormai noto, siamo tuttavia convinti 
                  che resti da scoprire non poco, e che ancora si celino sorprese 
                  in archivi pubblici e privati, in particolare francesi e russi. 
                  Intellettuale erudito ed enciclopedico, “bohemien” 
                  cosmopolita e poliglotta in relazione con i più diversi 
                  ambienti sociali e nazionali, schivo maestro della elusione 
                  e della vita in ombra, addestrato all'arte della dissimulazione 
                  da anni di cospirazione e di agitazione politica clandestina, 
                  Andrea Caffi non ha affatto intenzione di smettere di stupirci. 
                 Gianpiero Landi 
                
                   
                    Presupposti 
                        della democrazia
                       uno 
                        scritto di Andrea Caffi
                        
                        Il seguente articolo di Andrea Caffi apparve nel quotidiano 
                        socialdemocratico “L'Umanità”, all'epoca 
                        diretto da Giuseppe Faravelli, nel numero dell'8 dicembre 
                        1948. Ora riprodotto in A. Caffi, Politica e cultura, 
                        a cura di M. La Torre, p. 115-118. 
                        
                        Nella «Umanità» del 2 novembre, Giuliano 
                        Pischel ha cercato di definire «due poli negativi 
                        della democrazia». Egli scrive: «L'uno di 
                        questi pericoli frutto di eccessivo individualismo o addirittura 
                        di anarchismo [horribile dictu] è rappresentato 
                        dal frammentarismo delle forze, dalla polverizzazione 
                        delle opinioni e delle posizioni. È il tot capita, 
                        tot sententiae; è l'inquieto fermentare e oscillare 
                        delle tesi...». 
                        «L'altro pericolo è ancora più insidioso. 
                        Si tratta del conformismo. Conformismo è rinunciare 
                        a pensare con la propria testa...È uno dei più 
                        mortificanti e devastatori relitti del fascismo; male 
                        operante ed attuale». 
                        L'osservazione principale che suggerisce questa diagnosi 
                        sarebbe che i due mali potrebbero benissimo avere origine 
                        nella stessa causa; l'indole gregaria d'una “massa” 
                        amorfa, cioè composta a caso da individui i quali, 
                        per giunta, non hanno più avuto occasione di rendersi 
                        ben conto quanto sia importante “sapere che non 
                        si sa” (e che non si sanno molte cose pur avendo 
                        una “opinione” in merito ad esse). Ma prima 
                        di tentare una delucidazione di tale tesi, mi permetto 
                        qualche preliminare appunto. Se è bene “pensare 
                        con la propria testa”, perchè deprecare che 
                        “ogni testa esprima una propria sentenza”? 
                        Uno schietto scambio di idee su qualsiasi questione sarebbe 
                        proprio l'ideale, ideale mai raggiunto perchè purtroppo 
                        la capacità creativa che si esprime in un “pensiero 
                        originale” non è data a tutti, ma anche perchè 
                        gli uomini, se non sono proprio “fatti a serie”, 
                        impersonano tuttavia certi tipi di mentalità che 
                        non sono poi tanto numerosi. Rimangono ben inteso le sfumature 
                        e quegli estri d'improvvisazione, di baldanzoso eccesso, 
                        di malignità intenzionale, di paradosso ed umorismo 
                        che suscitano scentille effimere ed indimenticabili in 
                        ogni vera “conversazione” fra uomini che si 
                        intendono, cercando di fraintendersi. 
                        Direi anche che in ricordo d'una certa non spregevole 
                        intelligenza e (quel che mi consta) umanità spontanea 
                        di cui hanno dato prova Robert Owen e Proudhon, Bakunin, 
                        Kropotkin e Malatesta, condannare per direttissima ogni 
                        “anarchismo” mi sembra alquanto presuntuoso. 
                        Oserei addurre – quale motivo personale – 
                        che in una esperienza di decenni ho trovato più 
                        istruttive e fruttuose molte adunate di sindacalisti francesi, 
                        in cui cozzavano le più strambe “opinioni”, 
                        che le ben ordinate deliberazioni di tedeschi socialdemocraticamente 
                        organizzati. 
                        Evidentemente tuttavia il compagno Pischel non sottointendeva 
                        “materie opinabili” in sede di pura teoria, 
                        ma decisioni immediate riguardanti il “bene comune” 
                        di un popolo, la “salute pubblica” in critici 
                        frangenti, nonchè il controllo dell'ordinaria amministrazione 
                        d'una vasta collettività. In epoche quando si aveva 
                        fede intera nella “democrazia”, tanto Pericle 
                        che Washington hanno avuto occasione di rilevare che: 
                        1) ci vuole tempo e parecchia fatica (di persuasione) 
                        perchè il “corpo popolare” acconsenta 
                        a qualche importante misura di governo («una democrazia 
                        è sempre lenta a decidersi» scriveva Washington 
                        a Lafayette); 2) spesso le decisioni sancite sanno di 
                        compromesso e la buona volontà di accettarle comunque 
                        sopperisce a una effettiva soddisfazione delle coscienze. 
                        Nella repubblica di Atene i quarantamila cittadini deliberanti 
                        si incontravano più o meno ogni giorno ed è 
                        poco probabile che qualcuno dell'assemblea del popolo 
                        non conoscesse vita e miracoli di colui che dalla tribuna 
                        emetteva una proposta. Così nei tredici stati estremamente 
                        autonomi della Confederazione americana ai suoi inizi, 
                        vi era una effettiva familiarità fra tutti i cittadini 
                        chiamati ad uno scrutinio o ad una manifestazione pubblica. 
                        Ma Platone giudica già Atene ingovernabile perchè 
                        la cittadinanza è troppo numerosa e non vede possibilità 
                        di concordia che in comunità molto più ristrette. 
                        Ed è certo che al momento della guerra di secessione 
                        (1862) negli Stati Uniti vi erano partiti organizzati 
                        e folle consenzienti, ma non potevano più esservi 
                        dirette e ragionate espressioni di “volontà 
                        popolare”. 
                        Assolutamente assurdo è supporre una “decisione” 
                        presa da dieci o da cinque milioni e anche da un mezzo 
                        milione di “votanti” che non sia frutto del 
                        più gregario “conformismo”, cioè 
                        degli effetti meccanici di un demagogico «imbottimento 
                        di crani». Così come è impensabile 
                        che ventimila operai possano “controllare” 
                        il funzionamento di una grande officina. 
                        I limiti della democrazia sono quelli dell'umana comprensione: 
                        la “libera scelta” è una atroce beffa 
                        quando non si possono conoscere nè i veri motivi 
                        nè le necessarie conseguenze di ciò che 
                        si sceglie. Nessun uomo di buon senso, “uomo della 
                        strada”, “français moyen”, italiano 
                        idem, ha deliberatamente “scelto” la guerra 
                        nel 1914-'15, nel 1939-'40 e probabilmente non avrebbe 
                        mai scelto né le conquiste coloniali né 
                        la gara degli armamenti, né una quantità 
                        di regolamenti polizieschi, fiscali, ecc. E che nei suoi 
                        atti positivi tutta la “democrazia” moderna 
                        consiste in una certa fiducia ad occhi chiusi accordata 
                        sia ad un uomo, sia ad un “partito”. Rimane, 
                        è vero (e non dobbiamo disprezzarlo), un definitivo 
                        “limite negativo” che il sentimento, più 
                        che una chiara volontà delle masse, ha imposto 
                        ai regimi che (appunto perciò) hanno potuto qualificarsi 
                        come democrazie; il rispetto di elementari “diritti 
                        dell'uomo”, l'uguaglianza (almeno apparente) dinanzi 
                        alla legge, la repressione di arbitrii troppo appariscenti. 
                        Senonchè il fascismo e il successo di un De Gaulle 
                        mostrano la fragilità di queste resistenze del 
                        sentimento collettivo nelle maggiori nazioni del nostro 
                        continente. 
                        Marx ed i suoi discepoli più fedeli hanno potuto 
                        concepire la conciliazione d'una organizzazione unitaria 
                        di grandi masse con la “democrazia” perchè 
                        fidavano nell'assoluta supremazia della “scienza”. 
                        Se una questione può essere risolta con criteri 
                        “scientifici”, cioè di certezza assoluta 
                        e dimostrabile, diventa insussistente ogni “divergenza 
                        di opinioni”. Non è a maggioranza di voti 
                        che si deciderà sul sistema di Einstein contro 
                        quello di Newton (salvo se si è un credente staliniano 
                        che al beneplacito d'un comitato centrale sottopone anche 
                        le leggi della “genetica” di Mendel o Morgan). 
                        La “dittatura del proletariato” auspica da 
                        Marx – come già la democrazia adombrata da 
                        Saint–Simon – supponeva da un lato una gestione 
                        rigorosamente scientifica dell'economia mondiale e dall'altro 
                        una mentalità pure scientifica fino in fondo, infusa 
                        in tutte le teste dell'attuale “proletariato”. 
                        Purtroppo tale soluzione sembra non solo inattuabile, 
                        ma neppure compatibile con quel che rende la vita umana 
                        degna di essere desiderata. 
                        L'uomo dovrebbe trasformarsi in non so che mostro d'altra 
                        denominazione se cessasse di portare sempre in sè 
                        sia la coscienza della sua connaturata imperfezione, sia 
                        il desiderio di cose “impossibili”. Senza 
                        avventure imprevedibili né la vita di una persona 
                        né quella d'un gruppo sociale sarebbero sopportabili. 
                        Tornando a quel che oggi si chiama “democrazia” 
                        ed ai “due poli negativi” denunciati da G. 
                        Pischel, appare abbastanza chiaro che il conformismo è 
                        il male operante ed attuale, del gregge ridotto alla docilità 
                        imbecille; l'inquieto fermentare ed oscillare sono caratteristiche 
                        dello stesso gregge in stato di panico o di “svogliatezza”. 
                        E ingiusto tirare in ballo l'individualismo. Più 
                        un individuo si afferma come tale, più le sue “opinioni” 
                        e “posizioni” saranno coerenti (non secondo 
                        la logica, ma secondo l'asse psicologico) e intransigenti. 
                        Invece la folla muta umore e parere secondo il demagogo 
                        – o l'apparecchio pubblicitario – che riesce 
                        a sommuoverla. 
                        I socialisti possono benissimo avversare la “democrazia” 
                        che immancabilmente si “polarizza” 
                        in conformismi o vane turbolenze di masse mantenute nell'ignoranza. 
                        Di fatto i più ardenti assertori del socialismo 
                        (salvo quelli “scientifici” di cui si è 
                        detto) hanno sempre denunciato i macchinosi apparecchi 
                        di accentramento politico, nazionale ed economico come 
                        causa precipua delle “inumane” condizioni 
                        sociali ed hanno auspicato un libero “federalismo” 
                        di comunità conformi alla misura della effettiva 
                        comprensione e del normale raggio d'azione d'un uomo semplice. 
                        
                        Andrea Caffi 
                      | 
                   
                 
				 
                
                   
                    Leggere 
                        Caffi 
                        
                        Si riportano qui di seguito i principali testi di e su Andrea 
                  Caffi pubblicati in volumi nel secondo dopoguerra. Alcuni sono 
                  ancora reperibili in commercio, altri si possono trovare in 
                  biblioteche pubbliche. 
                        
                        Testi di Andrea Caffi 
                        - Socialismo libertario, a cura di Gino Bianco, 
                        Milano, Azione Comune, 1964, p. 91. 
                        - Critica della violenza, con prefazione di Nicola 
                        Chiaromonte, Milano, Bompiani, 1966, p. 333. 
                        - Scritti politici, a cura di Gino Bianco, Firenze, 
                        La Nuova Italia, 1970, p. 411. 
                        - Critica della violenza, introduzione di Gino 
                        Bianco, Roma, e/o, 1995, p. 94. 
                        - Scritti scelti di un socialista libertario, a 
                        cura di Sara Spreafico, con prefazione di Nicola Del Corno, 
                        Milano, Biblion, 2009, p. 189. 
                        - L'unità d'Italia. Pro e contro il Risorgimento, 
                        a cura di Alberto Castelli, Roma, e/o, 2010, p. 141 [scritti 
                        di: A. Caffi, U. Calosso, N. Chiaromonte, P. Gobetti, 
                        A. Gramsci, C. Rosselli, G. Salvemini, F. Venturi]. 
                        - “Politics” e il nuovo socialismo. Per 
                        una critica radicale del marxismo, a cura di Alberto 
                        Castelli, Genova-Milano, Marietti, 2012, p. 264. 
                        - Cosa sperare? Il carteggio tra Andrea Caffi e Nicola 
                        Chiaromonte: un dialogo sulla rivoluzione (1932-1955), 
                        a cura di Marco Bresciani, Napoli, Edizioni Scientifiche 
                        Italiane, 2012, p. 588. 
                        - Politica e cultura, a cura di Massimo La Torre, 
                        Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, p. 200. 
                         
                        Testi su Andrea Caffi 
                        - Gino Bianco, Un socialista “irregolare”: 
                        Andrea Caffi intellettuale e politico d'avanguardia, 
                        introduzione di Alberto Moravia, Cosenza, Lerici, 1977, 
                        p. 108. [Nuova edizione, con il titolo Socialismo e 
                        libertà. L'avventura umana di Andrea Caffi, 
                        Roma, Jouvence, 2006, p. 273]. 
                        - Andrea Caffi: un socialista libertario, Atti 
                        del convegno di Bologna (7 novembre 1993), a cura di Gianpiero 
                        Landi, introduzione di Gino Bianco, Pisa, BFS, 1996, p. 
                        204. [in Appendice contiene una Bibliografia Caffiana, 
                        a cura di Alberto Castelli, a cui si rimanda per ulteriori 
                        approfondimenti]. 
                        - Marco Bresciani, La rivoluzione perduta: Andrea Caffi 
                        nell'Europa del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2009, 
                        p. 310. 
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